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Ricerca scientifica in Africa: l’IA aiuta a superare le barriere normative



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In Africa, la diversità normativa ostacola lo scambio di dati tra università, limitando la ricerca scientifica. Un nuovo chatbot, sviluppato da università sudafricane, mira a facilitare la condivisione dei dati rispettando le leggi locali. L’Unione Africana promuove una strategia continentale sull’IA per sostenere la ricerca e superare frammentazioni legislative

Pubblicato il 11 ott 2024

Mario Di Giulio

Professore a contratto di Law of Developing Countries, Università Campus Bio-Medico Avvocato, Partner Studio Legale Pavia e Ansaldo



ricerca scientifica in Africa (1)

In un continente vasto e diversificato come l’Africa, la ricerca scientifica affronta sfide significative a causa delle variegate normative nazionali che regolano lo scambio di dati.

L’emergere di soluzioni innovative, come l’uso di chatbot basati sull’intelligenza artificiale come ChatGpt offre nuove opportunità per superare tali ostacoli. Facciamo allora il punto su come l’Africa stia cercando di armonizzare le leggi e utilizzare la tecnologia per promuovere la cooperazione scientifica e incentivare lo sviluppo di strategie comuni.

Africa e ricerca scientifica: il limite dell’assenza di una legislazione comune

In un’Europa che si è data regole comuni a tutela dei propri cittadini, spesso non siamo consci di quanto gli scambi d’informazione e di contributi scientifici siano facilitati dall’esistenza di questo comune quadro regolamentare, che accorda sufficiente chiarezza a chi svolge attività di ricerca e vuole condividere i dati acquisiti con la comunità scientifica, per l’appunto europea. Basta però rivolgere lo sguardo agli altri stati per comprendere che, soprattutto quelli facenti parte del cosiddetto Sud del Mondo, seppure si siano dati regole, non consentono altrettanta facilità alla condivisione dei dati, condivisione che si trova alla base dei maggiori successi scientifici.

Quanto questo possa influenzare la ricerca scientifica è dato spesso non tenuto in adeguata considerazione, spesso anche a causa del pregiudizio che gli Stati in via di sviluppo non abbiano adeguate normative di tutela del trattamento dei dati e che siano perciò un Far West dove chiunque può fate di tutto  (sul punto sarebbe interessante verificare quanto lo stesso “piano Mattei”, che ha fra i suoi capisaldi il supporto delle nostre università alla ricerca delle analoghe istituzioni africane, stia tenendo in considerazione la frammentarietà delle normative che dovranno essere considerate per procedere alle attività di supporto nel pieno rispetto della legge).

Se da un lato, non meraviglia che ormai tantissimi stati africani abbiano università di eccellenza che consentono a paesi quale il Kenya di “esportare” i propri medici e infermieri in altri stati e, da ultimo, anche gli insegnanti, un punto dolente forse è dato dalla scarsa rappresentazione che le ricerche africane hanno nel mondo accademico internazionale, dove l’Occidente svolge un ruolo guida, tallonato e – in alcuni casi superato – dalla crescente egemonia della Cina.

Una delle ragioni che – almeno nella prospettiva africana – sono considerate ostative allo sviluppo di una ricerca in ambito continentale, è costituita dagli ostacoli che le università africane incontrano nello scambio dei dati di ricerca e risultati, legate al fatto che l’Africa – spesso lo si dimentica – è un continente e non una singola nazione.

La differenza di normative tra gli Stati

La differenza di normative tra gli stati in cui le singole università risiedono pone quindi ostacoli allo scambio di dati e, conseguentemente, allo sviluppo di sinergie che potrebbero portare le stesse a risultati più proficui e di maggiore visibilità.

Tale argomentazione appare fondata, considerato che il continente, nonostante l’esistenza dell’Unione Africana, fatica a trovare regole comuni: lo si vede anche con l’AfCFTA (African Continenatal Free Trade Agreement), il trattato che dovrebbe creare un mercato unico di libero scambio e  che non riesce a decollare a tre anni di distanza dalla sua entrata in efficacia, mancando ancora  gli strumenti attuativi.

Maliziosamente si potrebbe poi dire che la tanto affermata unità africana, di cui i social sono forse la manifestazione più evidente, stenta a concretizzarsi anche a livello di unioni quali l’East Africa Community che – almeno nello spirito – dovrebbe ricreare la nostra Unione europea in Africa orientale, ma dove poi i singoli Stati entrano in contrasto anche quando una regolamentazione comune esiste (basti considerare i continui divieti che il Kenya pone e rimuove sulle importazioni di cereali dall’Uganda, per mancanza degli standard di sicurezza alimentare). Senza considerare, inoltre, i conflitti e le contrapposizioni esistenti, più o meno guerreggiati, e quelli potenziali quali quelli nel Corno d’Africa per l’accesso al mare da parte dell’Etiopia e il controllo delle fonti idriche che preoccupa anche una potenza regionale quale l’Egitto.

Uno chabot per risolvere il problema

Il tema che si pone quindi per le Università africane è come esse possano mettere in comune dati, soprattutto nell’ambito della ricerca scientifica medica, senza infrangere le normative nazionali in tema di protezione dei dati e diritti della persona.

L’avvento di ChatGPT sembra avere mostrato una soluzione nella creazione di un chabot che dovrebbe rispondere ai quesiti posti dai vari ricercatori ogniqualvolta vogliano procedere allo scambio.

L’esperimento è condotto al momento tra le università di dodici stati africani (ma che è comunque aperto anche a nuovi attori) su impulso di due università sud africane ed è stato finanziato mediante un programma statunitense. Si tratterebbe quindi di una soluzione, ad accesso libero, per consentire ai ricercatori delle università, che meno possono affrontare le spese delle consulenze legali, di trovare risposta ai propri quesiti in modo economico e spedito.

L’efficacia dello strumento dipenderà molto da come esso sarà implementato attraverso lo sforzo delle università partecipanti, considerato che alla frammentarietà delle normative, risponde anche una differenziazione di istituzioni giuridiche, che spesso usano anche linguaggi differenti.

L’Unione africana spinge per politiche comuni sull’intelligenza artificiale

Consci dell’importanza che l’intelligenza artificiale assume per lo sviluppo e per non rimanere emarginati dallo sviluppo stesso, i capi degli stati africani spingono per un piano africano sull’intelligenza artificiale, con lo scopo primario di assicurare supporto alla ricerca scientifica.

Da qui, la decisione dell’African Union Executive Council dell’Unione Africana di approvare, nello scorso luglio, ad Accra (Ghana) la Continental AI Strategy con un ampio focus sugli interrogativi etici e l’imperativo di avere una trazione dell’intelligenza artificiale che sia Africa centrica, attraverso il rispetto dei diversi linguaggi e delle diverse tradizioni.

I proclami durante la conferenza di Accra sono stati parecchi, molti dei quali rivolti alle aspettative di creare ricchezza (a livello globale circa 255 miliardi di dollari USA entro il 2033: non viene esplicitato a chi tali ricchezze andranno e, purtroppo, è facile prevedere che non sarà una ricchezza diffusa).

In particolare, la strategia annunciata si propone, tra gli altri, gli obiettivi di supportare gli stati membri dell’Unione africana nell’adottare strategie nazionali armonizzate, la creazione di adeguate infrastrutture, trattenere talenti e aiutare gli africani a non essere pregiudicati da “bias”. Il tutto sotto il più ampio ombrello di un’Africa che promuove uno sviluppo dell’intelligenza artificiale inclusivo e responsabile.

Obiettivi e ostacoli da superare

Quanto poi le dichiarazioni di intenti e gli obiettivi strategici saranno raggiungibili e raggiunti non è facile prevederlo.

La frammentazione degli stati, come anticipato, è forte, gli egoismi nazionali quando non tribali ancor di più, e spesso può lasciare perplessi che obiettivi etici e di equità siano pronunciati in consessi in cui, fra i capi di stato partecipanti, si trovano dittatori che non hanno mai dimostrato sensibilità al rispetto dei diritti umani.

Il tempo ci dirà cosa accadrà.

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