La ricerca scientifica di base ha un ruolo cruciale per l’innovazione tecnologica e lo sviluppo economico. Questa, infatti, pur studiando problemi ritenuti dal senso comune, lontani da ogni possibile applicazione pratica, ha introdotto nella storia, anche quella recente, scoperte rivoluzionarie che sono usate ogni giorno da ognuno di noi e che sono state il carburante dello sviluppo economico. Ad esempio, il motore di ricerca di Google funziona grazie al lavoro del matematico russo Andrei Markov negli anni ’20 del XX secolo, mentre lo smartphone è stato sviluppato in seguito alle scoperte nella fisica dei nano-materiali avvenute una trentina di anni fa. Come si sono sviluppate queste importanti scoperte e, soprattutto, come sono state finanziate? Come si trasformano le scoperte della scienza di base in innovazioni tecnologiche commercializzabili? In questo processo, qual è il rispettivo ruolo dello Stato e delle imprese private?
La risposta a queste domande dovrebbe fornire una guida per comprendere come debba essere organizzata la politica scientifica di un paese. Sostiene l’economista italo-americana Mariana Mazzucato nel suo bel libro “The Entrepreneurial State”: “la genialità, il design, il gioco, la «pazzia», sono state senza dubbio caratteristiche importanti. Ma senza una massiccia quantità d’investimenti pubblici sui computer e sulla rivoluzione di Internet, questi attributi avrebbero portato soltanto all’invenzione di un nuovo giocattolo, non a prodotti come l’iPad e l’iPhone, che hanno cambiato il modo in cui le persone lavorano e comunicano. Apple è stata in grado di cavalcare l’onda dei massicci investimenti statali sulle tecnologie «rivoluzionarie» che hanno sostenuto l’iPhone e l’iPad: Internet, il GPS, lo schermo «touch screen» e le tecnologie di comunicazione. Senza gli investimenti pubblici non ci sarebbe stata nessuna onda sulla quale fare un «folle» surfing.”
La ricerca di base ha bisogno del supporto di finanziamenti statali proprio per gli incerti rendimenti dell’investimento che la caratterizzano e per gli eventuali tempi lunghi in cui questi si materializzano. Gli Stati Uniti, paese in genere preso come esempio dell’efficienza del libero mercato, investono infatti quasi il 3% del prodotto interno lordo (PIL) in ricerca e sviluppo e finanziano la ricerca pubblica per 40 miliardi di dollari l’anno, investimento che rappresenta la “mano visibile” dell’intervento dello Stato in economia. La politica scientifica americana non ha dimenticato la lezione di Vannevar Bush, che appena dopo la seconda guerra mondiale gettò le basi dell’organizzazione del motore dello sviluppo economico statunitense: l’investimento in formazione avanzata, in ricerca di base e in innovazione – stando ben attenti a non esporre la ricerca di frontiera alla pressione della fruibilità immediata dei suoi risultati. La ricerca è, infatti, una di quelle capacità produttive di una nazione, che può permettere l’emergenza delle condizioni per generare la crescita economica e civile nel lungo periodo. La chiave per questo sviluppo è la diversificazione sia nella struttura delle innovazioni tecnologiche sia in quella scientifica: una maggiore diversità scientifica, come una maggiore diversificazione genetica, aumenta la possibilità che avvengano le scoperte e le innovazioni che dirigono lo sviluppo economico. Per questo l’eccellenza scientifica deve essere intesa come un effetto collaterale e naturale di un complesso, eterogeneo, diversificato, e quindi sano, sistema di ricerca.
Differentemente dagli USA, l’Europa non è un’entità economica e scientifica omogenea poiché vi sono enormi e, purtroppo, crescenti squilibri al suo interno che già oggi sono evidenti e pericolosi ma che, immaginando il loro impatto in un futuro prossimo, mettono in dubbio la stessa possibilità di coesistenza dell’Europa così come la conosciamo oggi. Se da una parte sembra incredibile che sia assente una riflessione su come rilanciare in maniera strutturale lo sviluppo economico mentre in tanti paesi europei, soprattutto quelli dell’area mediterranea, si stanno smantellando le infrastrutture (fisiche e umane) della ricerca e dell’accademia, dall’altra parte questa mancanza è il riflesso della convinzione, sviluppata nell’ambito della teoria economica dominante, che deve essere il mercato a governare lo sviluppo.
La Cina ha speso nel 2014 il 2% del PIL in ricerca e sviluppo (R&S), il doppio rispetto al 2000; gli Stati Uniti circa il 2,8%, mentre l’Europa, nel suo insieme, si trova piuttosto indietro. Questo nonostante che la Strategia di Lisbona – il programma di riforme economiche approvato a Lisbona, nel 2000, dai capi di Stato e di governo dell’Unione Europea – avesse come obiettivo principale di raggiungere entro il 2010 una spesa del 3% in R&S da parte dei paesi membri. Mentre la Strategia di Lisbona non ha avuto seguito e sembra essere stata dimenticata dalla maggior parte dei paesi dell’Unione Europea (ma non dalla Germania e dai paesi scandinavi), i più ottimisti notano che l’Europa, con meno del 10% della popolazione del mondo, produce più del 30% della conoscenza (articoli scientifici) e che dunque la situazione per la scienza e la ricerca in Europa sarebbe molto prospera nonostante qualche difficoltà a livello regionale.
Tuttavia non è difficile convincersi che la ragione cruciale della differenza tra il Nord e il Sud dell’Unione Europea e della sua recente amplificazione risiede, in ultima analisi, nel diverso investimento in istruzione, ricerca e innovazione. Infatti, non c’è paese dell’area settentrionale che abbia investimenti in R&S inferiori al 2,0% del PIL e non c’è paese in quell’area che non investa moltissimo nell’università e nella ricerca. Grazie a queste politiche, perpetrate per alcuni decenni, i paesi dell’Europa settentrionale hanno realizzato una specializzazione produttiva di beni ad alta tecnologia. Vediamo qualche numero che sia rappresentativo della situazione.
A livello della Comunità europea, si possono distinguere quattro aree: teutonica (la Germania e i paesi dell’Europa settentrionale), anglo-francese (Francia e Gran Bretagna), mediterranea (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia), orientale (la Polonia e i paesi ex comunisti entrati nell’Unione) di cui non commenteremo poiché per la loro storia recente hanno delle condizioni economiche e politiche troppo differenti dal resto dei paesi. In maniera grossolana possiamo notare che l’economia ha rallentato in misura minore nell’area teutonica e maggiore in quella mediterranea, il reddito pro capite è maggiore nella prima area, il tasso di disoccupazione invece è molto più alto nella seconda, toccando punte drammatiche intorno al 50% per la disoccupazione giovanile in Grecia, Spagna, Portogallo e anche Italia. Inoltre vi sono grandi squilibri pure all’interno di uno stesso paese. Ad esempio, l’Italia meridionale è a rischio di desertificazione industriale e di sottosviluppo permanente: il tasso di disoccupazione nell’intero paese è arrivato nel 2014 al 12,7% (era del 6,5% nel 2008), ma c’è una differenza allarmante tra il 9,5% del Centro-Nord e il 20,5% del Sud.
La quantità d’investimenti nell’educazione superiore è molto diversa tra i diversi paesi: nell’area teutonica, dove ancora regge la competitività nel mondo globalizzato, si spendono 635 dollari per abitante, contro i 489 dell’area anglo-francese, i 340 dell’area mediterranea e i 202 dell’area orientale. Nell’Europa settentrionale si spende dunque il doppio per l’università rispetto ai paesi mediterranei e il 30% in più rispetto all’area anglo-francese. L’area teutonica, inoltre, investe in R&S 162 miliardi di dollari l’anno, una cifra superiore del 53% a quella dell’area anglo-francese e addirittura del 245% a quella dell’area mediterranea. L’investimento in ricerca nell’area teutonica è, in media, pari al 2,8% del PIL (come gli Stati Uniti), mentre si scende al 2,0% nell’area anglo-francese e all’1,2% nell’area mediterranea. Nell’area teutonica gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico sono dunque di oltre il 130% superiori a quelli dell’Italia o della Spagna.
Inoltre nell’area teutonica vi sono otto ricercatori ogni 1000 abitanti, il doppio di quelli dei paesi mediterranei. Data questa disparità nell’investimento e nel numero di ricercatori, non sorprende che la quantità di articoli pubblicati nel 2012 dagli scienziati dell’area teutonica (2530 per milione di abitanti) superi del 55% il numero di articoli prodotti nell’area mediterranea (1635) e del 18% quelli prodotti nell’area anglo-francese. E neppure dovrebbe sorprendere che i paesi teutonici esportino beni e servizi ad alta tecnologia per un valore che nel 2012 è stato di 337 miliardi di dollari: pari al 5,8% del PIL, contro il 2,6% del PIL dell’area anglo-francese (190 miliardi) e l’1,0% del PIL dell’area mediterranea (37 miliardi). Anche per la capacità d’innovazione troviamo una situazione analoga: nell’area teutonica in un anno si producono 254 brevetti per milione di abitanti, cioè 2,4 volte più che nell’area anglo-francese e addirittura 5,4 volte più che nell’area mediterranea.
La contrazione delle risorse umane nei settori dell’università e della ricerca nei paesi mediterranei – accentuatasi ulteriormente per effetto dei tagli alla spesa pubblica dovuti alle politiche di austerità – finisce persino con l’essere coerente con la scarsa richiesta che ne fa il sistema economico, dato il maggior peso che in questi paesi detengono i settori tradizionali. In altri termini, l’arretramento dei sistemi nazionali d’innovazione nei paesi dell’Europa meridionale, una volta innescatosi, non fa che autoalimentarsi, aggravando sempre più le prospettive di sviluppo di queste economie. Le differenze di crescita tra i paesi europei sono, dunque, chiara espressione di una disomogenea capacità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e d’innovazione dei loro sistemi produttivi. Nei paesi dell’Europa meridionale, la bassa spesa in ricerca attribuibile all’industria è il segno della marginale presenza di settori avanzati, nei quali è invece più elevata la propensione all’investimento in ricerca.
La marginalità dei settori avanzati implica dunque, a sua volta, una crescente marginalità di questi paesi, con una perdita complessiva di potenziale di sviluppo economico. La situazione, anziché migliorare, negli ultimi anni si è aggravata: basti considerare che in Germania la spesa pubblica in ricerca è aumentata del 15% dal 2009, mentre in Italia, nello stesso periodo, è diminuita di quasi il 20%. Per effetto delle cosiddette politiche di austerità la dinamica della crisi non ha fatto altro che accentuare divergenze strutturali tra le economie dell’eurozona, che a loro volta precedono perfino l’introduzione della moneta unica. Le politiche anticicliche d’investimento in R&S hanno avuto un unico obiettivo: abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul potenziale d’innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l’Europa. L’investimento pubblico in R&S è, infatti, un attrattore d’investimenti privati; in uno «Stato innovatore» come gli Stati Uniti più della metà della crescita economica è avvenuta grazie all’innovazione, che ha radici nella ricerca di base finanziata dal governo federale. Le politiche attuate in Europa si poggiano invece sull’irrealistica aspettativa che l’aumento della spesa in R&S necessaria per raggiungere l’obiettivo del Trattato di Lisbona del 3% del PIL sarà raggiunto grazie al solo settore privato, mentre l’investimento pubblico in R&S viene ridotto. Una scelta in netto contrasto con il rilevante calo del numero di aziende innovative in alcuni di questi paesi e con la prevalenza di aziende a dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, senza alcuna capacità d’innovazione.
In seguito alla crisi finanziaria 2008-2009, le misure di austerità in paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo o l’Italia hanno influenzato negativamente i loro sistemi di ricerca, compromettendo il futuro di diverse generazioni di giovani ricercatori. Situazioni simili erano già state osservate nei paesi dell’Est e dell’Europa centrale e, in forme diverse, in Irlanda e in altri paesi dell’Unione Europea. Il risultato è uno sviluppo scientifico ancora più squilibrato degli Stati membri della UE, che contribuisce sempre più a una crescente divisione economica e sociale dell’Europa e che mette in crisi la sua stessa sostenibilità.
La possibilità di attuare politiche pubbliche per il rilancio della ricerca e dell’innovazione nelle aree più depresse d’Europa è allora fondamentale, essendo necessaria una vera e propria ricostituzione della base scientifica e tecnologica di questi paesi, che solo dall’intervento pubblico può discendere, considerate l’ingente dimensione dell’impegno finanziario e l’incerta redditività economica che caratterizzano l’investimento in tali contesti. È necessario ricordare che il problema in molti paesi in condizioni economiche critiche, come appunto quelli dell’Europa meridionale, non è rappresentato dal fatto che lo Stato abbia speso troppo, ma che abbia speso in maniera troppo poco produttiva.