Il Bonus Cultura per i diciottenni sarà modificato da nuovo governo. A partire dal 2o24, non toccherà più a tutti i diciottenni indistintamente, ma solo a quelli più poveri e a quelli più bravi. In tempi di ristrettezze sembra una limitazione ragionevole. La scelta snatura la logica del bonus e ci dà modo di fare una considerazione di metodo sulle prospettive della nostra società.
A caval donato
Poiché il bonus è considerato un regalo sembra inopportuno contestarlo, ma in verità non era un regalo, non era un premio, non era il riconoscimento di un sacrificio né un’elemosina. Era, o almeno dovrebbe essere una misura politica di trasferimento economico dalla fiscalità generale alla disponibilità di alcuni, i diciottennim per un motivo politico.
Il motivo per cui si offriva a questi giovani questa modesta somma da spendere, era chiaro dalle limitazioni: incentivare le spesa culturale (non era certamente un caso se fosse il ministero della cultura ad offrirla). Anche se le maglie si erano nel tempo rilassate, il segnale dello stato era chiaro: ragazzi, investite in cultura! E infatti con il bonus sono stati acquistati non solo libri, anche “musica, teatro, danza, cinema, musei e parchi archeologici”, fa sapere l’ex-ministro della cultura.
Il segnale più forte era che tutti, ognuno, avrebbe partecipato alla distribuzione, buoni e cattivi, poveri e ricchi, primi della classe e asini. A tutti sarebbe spettata, in egual misura, la possibilità di scegliere un po’ di cultura, secondo il proprio interesse e sensibilità.
Questa uniformità indiscriminata è forse un aspetto che può essere considerato indigesto parlando in termini generali, ma nel limitato ambito della cultura non dovrebbe far accendere gli allarmi rossi sull’incipiente avanzata del comunismo, ammesso che questo fosse il problema.
Noi sentiamo intimamente che sarebbe ruolo della Repubblica permettere a tutti accesso alla cultura e alla conoscenza, stimolare l’istruzione, pagare i bisogni culturali minimi e se possibile anche ogni altra richiesta per migliorare nella scienza, nelle arti e nella cultura in generale. Noi sentiamo che volendo migliorare se stessi, i cittadini dovrebbero potersi rivolgere allo stato per ottenere il migliore dei trattamenti possibili per farlo. La città ideale potrebbe essere quella in cui, nelle pause di una occupazione che realizzi personalmente e aiuti socialmente, si possa partecipare o godere di tutto il bene conoscitivo e culturale disponibile.
Neppure la Costituzione
Purtroppo non è così. Neppure nella Costituzione c’è scritto che la Repubblica debba trattare con particolare benevolenza l’istruzione e la cultura (memore probabilmente del periodo in cui istruzione e cultura si erano facilmente trasformati in indottrinamento e propaganda). La parola più associata a istruzione è libertà e le uniche due volte in cui si cita la cultura lo si fa per impegnarsi, alquanto genericamente, ad un suo sviluppo o per garantire autonomia alle istituzioni culturali. Questa non è una critica, ma è solo il riconoscimento che anche una costituzione avanzata come la nostra è comunque figlia di un tempo che non è certamente quello della conoscenza.
D’altro canto, nella realtà materiale della Repubblica, si è fatto molto per sostenere, e andare ben oltre, questi principi espressi in una forma che oggi possiamo considerare un po’ guardinga. Non solo con il finanziamento a moltissime attività culturali, con la concessione di premi e assegni per artisti che il mercato ha premiato meno, e anche tutelando con fondi pubblici le violazioni dei contratti privati del diritto d’autore e… appunto anche con il bonus cultura.
Misure buone o cattive, funzionali o disfunzionali, la Repubblica le ha provate un po’ tutte, con alterne fortune. Ad esempio qualcuno sostiene che il finanziamento pubblico al cinema lo abbia drogato e sia addirittura la causa della decadenza del cinema italiano, che ha fatto scuola quando il finanziamento non c’era. Per esempio, il Partito Pirata, sostiene che la drastica tutela penale del copyright sia un concreto vulnus alla equa diffusione della conoscenza e comporti costi diretti e indiretti per la collettività mentre avvantaggi solo i più grandi editori la cui cattiva volontà alla condivisione culturale è evidente. Altri sostengono che la scuola pubblica metta in ombra la libertà di quella privata, e altri ancora che quella privata si troppo benvoluta dal potere tradizionale. Quale che sia la realtà, questa è però una buona dialettica per uno stato democratico.
Quindi non dovrebbe neppure scandalizzare il fatto che dal Bonus Cultura generalizzato si voglia passare a due misure specializzate, una a valere sul reddito (che sembra si dovrebbe chiamare Carta Cultura) e l’altra sul merito (il cui nome, non molto fantasiosamente, dovrebbe essere Carta del Merito), complessivamente dovrebbero coprire, con un valore doppio a quello del precedente Bonus Cultura (cioè fino a 1000€), tra l’8 e il 10% dei diciottenni (a spanne, due per classe). È chiaro che sia una misura per restringere notevolmente l’esborso con un risparmio tra l’80 e il 90% quindi, cercando con l’effetto annuncio di non perdere il consenso dovuto al taglio. D’altro canto se avessero voluto mantenere la stessa platea si sarebbe notata con chiarezza la riduzione da 500 € a 50 €, con la conseguente evidente figuraccia.
Ogni governo dà l’impronta che crede alla propria politica. Chi commenta però deve sottolineare il fatto che la logica della misura è cambiata. Non più quindi un trasferimento “per la cultura” ma una forma di premio, per alcuni individui, e di elemosina, per altri. Qualcosa che si trasforma in un doppio simbolo di discriminazione, un visibile indice puntato su qualcuno e il fatto che la cultura non sia un merito di tutti. Non è un gran segnale, ammettiamolo.
Conclusioni
Come il reddito universale di base avrebbe alle spalle una prospettiva e idealità molto diversa da ciò che è stato il reddito di cittadinanza, che è una mera misura assistenzialistica (se non uno strumento di scambio elettorale), così le nuove carte finiranno per essere solo contentini a basso costo per tappare una potenziale falla di comunicazione politica.
Newton volle chiarire che ciascuno, anche il più grande, deve tutto a quelli che gli sono accanto, a chi è venuto prima di lui, e per quanti meriti si potessero attribuire ad un successo “siamo solo nani sulle spalle dei giganti”. Il poeta John Donne scrive quel “Nessun uomo è un’isola” che Hemingway adotta nell’epigrafe del suo libro più famoso. Per chi non si sente un’isola, l’unico utilizzo saggio di questa “vincita” sarebbe intavolare con tutta la propria classe una discussione sull’uso collettivo di questi soldi per acquistare, ad esempio, beni facilmente liberabili e condivisibili per tutti. Diventerebbe una occasione di consapevolezza culturale, un vero bonus culturale per tutti, e mostrerebbe l’indisponibilità a propagare questa logica mortifera di segregazione individualista che pende come uno spettro dietro la modifica di questa misura.
I primi della classe, ovvero gli studenti più maturi, e i meno abbienti dovrebbero avere tutta la sensibilità per dare questa lezione di condivisione ai propri compagni e anche ai nostri un po’ cinici governanti.