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Riorganizzare la “realtà estesa”: un nuovo approccio alla tecnologia



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In che modo epoché filosofica, interrogativi controintuitivi, condizionali controfattuali e rappresentazioni, tecnologia inclusa, influenzano il nostro rapporto con la realtà, permettendone una riorganizzazione flessibile? La cultura funge da semplificatore, mentre filosofia, arte e tecnologie come AR/VR e robot interrompono le ripetizioni compulsive

Pubblicato il 23 feb 2024

Carmine T. Recchiuto

Università degli Studi di Genova, DIBRIS, RICE Lab

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

Antonio Sgorbissa

Università degli Studi di Genova, DIBRIS, RICE Lab



bonus cultura
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La filosofia, nel corso della storia, molto spesso ha posto in questione le cosiddette “posizioni predefinite”[1], quelle cioè che fanno da sfondo a ogni condizione del vivere, del pensare e del comunicare. Il dubbio si è scagliato sulla realtà, in primo luogo, e, in seconda istanza, sulla possibilità di conoscerla e di comunicarla.

Ruolo della cultura e delle tecnologie nelle simulazioni filosofiche

Il motivo del mettere tra parentesi l’essere e la sua dicibilità dipende dal fatto di avere esperienza solo del fenomeno, della nostra percezione, mentre la Cosa in Sé, quella che darebbe contenuto al pensiero, resta un’incognita x, intuibile, ma non conoscibile. Quest’ultimo punto di pensabilità-impensabile fu inteso dai post-kantiani come una contraddizione. Per conservare la consistenza del sistema, la x venne perciò eliminata, mantenendo solo il soggetto che oltre all’idea pone anche il contenuto della stessa. Ecco l’idealismo.

Searle[2] addita questo atteggiamento, considerandolo il frutto di una volontà di potenza in risposta al senso di inferiorità delle scienze dello spirito. Se tutto è idea, la scienza deve appoggiarsi a chi è maestro di idee: gli umanisti.

La filosofia e il dubbio metodologico nell’interrogare la realtà

Il dubbio metodologico (epoché) intorno ai presupposti, quelli che nell’agire concreto è doveroso dare per scontati, altrimenti, come minimo, si morirebbe di fame (e Berkeley non mi risulta si sia mai privato del cibo), a mio avviso non è solo figlio di un bisogno di potere e quindi di una sorta di morale del risentimento. Il significato del dubbio è quello di creare un attrito nell’agire altrimenti riflesso. Come l’arte sarebbe davvero inutile se l’unico valore fosse la sopravvivenza in un ambiente esteso privo di evoluzione, così la filosofia sarebbe inutile se esistesse solo il Panta Rei. Entrambe le discipline hanno funzioni differenti in risposta a motivi diversi[3].

Il fatto di essere organismi significa che siamo organizzati secondo attività di vario genere a cui partecipiamo di continuo. L’attrito è proprio un momento di ridefinizione delle attività spontanea primigenia, in cui quest’ultima si fa oggetto di rappresentazione. La coreografia rappresenta la danza spontanea, la filosofia rappresenta il pensare spontaneo, da cui riemergono, rispettivamente movimenti e un pensiero più calibrati, senza ridondanze, nell’agire di nuovo spontaneo da cui arte e filosofia hanno preso le mosse e, contemporaneamente, le distanze. Non sono parte della Vita, utili nell’immediato, ma come effetto secondario nel continuum noi-mondo-altri.

Lo stesso si dica di ogni forma di rappresentazione del mondo.

La funzione delle simulazioni e delle rappresentazioni nella comprensione della realtà

Le simulazioni non vogliono essere la sostituzione della Cosa in Sé, bensì metodi di comprensione e di ri-organizzazione dell’originale e di noi stessi rispetto all’originale. Lo stesso metodo con cui rappresentiamo, nell’arte, nella filosofia, nelle tecnologie, le azioni e i fatti del mondo, serve agli esseri umani per allenare la costruzione delle istituzioni, applicando la formula “questo X vale come Y in C”[4] e per esercitare le scelte su mondi possibili. Questi ultimi sono rappresentazioni alternative del mondo attuale, che occorrono la logica non è sufficiente a chiarire le proposizioni non assertive, nelle quali compaiono atteggiamenti modali: è necessario, è possibile, è obbligatorio, è permesso, è creduto, è saputo, e così via. Quando un agente può credere a una falsità, quando compaiono altri soggetti nelle descrizioni dei fatti, i mondi si moltiplicano tra rappresentazioni alternative. Vedremo più avanti come questa esplosione di mondi sia una euristica che semplifica la scelta e non una ridondanza che complica la realtà una.

Insomma, come il dubbio a proposito della realtà non intende sostituire la partenza di cui si dubita, così la mappa non è il territorio e i mondi possibili non sono reali nel senso del realismo esterno, ma hanno conseguenze reali, causali, sulle azioni che poi vengono intraprese nel mondo attuale.

La realtà esterna e il realismo: presupposti e dubbi

Il realismo esterno afferma l’esistenza della realtà indipendente da noi, cioè di sedie, banchi, luna, quark i quali continuano ad essere anche quando non li percepiamo, ed è da dare per scontato. Possiamo farlo proprio perché non siamo un cervello in una vasca, se fossimo un algoritmo non potremmo paradossalmente dare per scontato alcunché: se voglio fare in modo che uno sprite di un videogame apra una porta, prima devo definire l’esistenza della porta, del soggetto e della fisica per aprirla. Noi, invece, possiamo dimenticarci che esistono le cose, la gravità e porle solo in certe condizioni in dubbio perché sono presupposte e reali.

Non è il realismo e i fatti bruti che meritano un’indagine, di questo se ne occupa la scienza. Quello di cui ci occupiamo è il motivo per il quale vengono messe in dubbio e simulate. Inoltre merita di essere problematizzato un altro tipo di dare per scontato, cioè quello che entra in gioco quando affermiamo che Napoleone era un uomo basso, che non riguarda l’esistenza di un soggetto umano maschile di nome Napoleone e che questo avesse la proprietà di essere dotato di bassezza, ma il fatto di non dover chiarire di quale Napoleone si tratti, giacché tutti sappiamo di attingere dallo stesso bacino di presupposizioni culturali, sociali, educative, esperienziali, specifiche, le quali fanno in modo, quando dico Napoleone + basso, di dirigerci tutti al capitolo della storia che segue la Rivoluzione Francese.

Come viene costruito questo bacino di presupposti? Quale status ontologico ha? Che cos’è questo secondo tipo di dar per scontato? Cos’è la soggettività che dubita e che è capace di allacciarsi all’oggetto secondo diverse modalità e forze? Ha una natura irreale o è reale? È reale nel senso dei muoni o della liquidità? Ha ancora senso utilizzare le categorie proprie degli approcci dualistici e monistici? Giacché anche chi invoca l’onestà intellettuale materialistica o idealistica (entrambi credono di star rasoiando con il gillette di Occam; eppure, il barbiere in questione finisce quasi sempre per rivelarsi quello di Russell[5]), usa i concetti del dualismo: materia o forma, idea o cosa, cervello o coscienza.

Noi qui proponiamo una forma di realismo ingenuo e di mente estesa, comprensibile solo negli usi situati, collettivi e corporei, e materializzata e realizzata nelle e con le affordances.

La coscienza e la mente estesa: una nuova prospettiva

Il dubbio ipertrofico fa emergere l’Io come presupposto innegabile, mentre il materialismo nega l’Io cosciente. Avere esperienza solo delle proprie percezioni viene problematizzato in quanto soggettivo, individuale.

Per uscire da questa antinomia, la via potrebbe essere quella di lasciare perdere tale troppo corta con cui o si copre la materia o si copre l’Io, abbracciando altri paradigmi. La messa tra parentesi e il sospetto sull’identità, sulla mente e sui legami intenzionali di questa con le cose non vanno intesi come teorie sostitutive ai presupposti. Per non incorrere in inganni, forse sarebbe bene utilizzare categorie differenti per definire il modo in cui esiste la coscienza e i suoi contenuti. Giacché utilizzare le categorie della tradizione filosofica rischia di generare incomprensioni, come quella di chi chiama “intelligenza” la rete neurale artificiale con cui si rischia sempre di essere scambiati per ingenui.

Torniamo ai realisti. Secondo loro il mondo è reale perché possiamo correggere gli errori, perché più individui nello spazio e nel tempo e più sensi concordano sui medesimi fatti (a parte alcune questioni residuali, su cui però non c’è mai stata intraducibilità) e la nostra stessa aspettativa è confermata (o rifiutata) nei piani ad agire in modo non caotico. È più semplice accettare esista un mondo esterno piuttosto che dubitarne e introdurre deus ex machina ad hoc. Tuttavia, il realismo di cui la semplicità di fa carico è quello che comprende fatti bruti insieme alla mente estesa. È solo in questo continuum che realizziamo la coscienza, nel senso sia di “attuazione” sia di “consapevolezza”.

Come sostengono gli enattivisti[6], non siamo confinati dentro di noi, ma distribuiti e dinamicamente estesi in diversi coinvolgimenti del mondo, che comprendono tecnologie, abilità e istituzioni (riassunti, concetti ausiliari delle singole attività individuali ma attuate con la credenza in un Noi)[7]. Il realismo generale tende a dimenticarsi delle menti e dei fatti dipendenti dagli osservatori; questo lascia troppo spazio a incomprensioni e all’idea che i non fatti bruti siano illusioni.

Il realismo generico

Realismo generico[8]: a , b , c e così via esistono, e il fatto che esistano e abbiano proprietà come F-ness , G-ness e H-ness è (a parte le banali dipendenze empiriche del tipo talvolta incontrato in vita quotidiana) indipendentemente dalle credenze, dalle pratiche linguistiche, dagli schemi concettuali di ciascuno e così via.

Ciò che si vuole sottolineare come rilevante all’interno di questa definizione di realismo è il fatto che oggetti e proprietà esistono, sono reali, ma indipendentemente dalle menti e quindi dalle convenzioni sociali che ne definiscono pratiche e usi concreti. Insomma, si tratta dell’oggetto in sé, con le sue proprietà primarie, senza che intervenga un soggetto, con i suoi dubbi e le condizioni di felicità o di soddisfazione. Il mondo del realista esterno pare costituito da semplici fatti, scomponibili in atomi osservabili da una non-mente e collegati a un linguaggio formale non praticato, in cui le cose sono o vere o false. È, tuttavia, solo una parte della realtà; è anche questa una scelta, una semplificazione. Anch’essa insomma è una delle rappresentazioni.

Dal momento in cui la soggettività si palesa nel dominio del realista, oltre a epistemologia e ontologia, anche la logica si complica: non esistono più proposizioni il cui senso si mostra facilmente nelle truth tables. Fanno capolino le probabilità, le valutazioni su diversi parametri, in cui la verità diventa qualcosa che somiglia più all’utile relativo. Intervengono condizioni di felicità, per le quali un’azione non è vera o falsa, ma attraverso cui essa va a buon termine o meno, nelle quali importanti sono i ruoli sociali e le convenzioni co-create e co-credute. Compaiono, in breve, i mondi possibili su cui valutare conoscenze, credenze, possibilità, obblighi e cambi temporali[9] e quindi relazioni di accessibilità tra quei mondi, con cui si possono tradurre i concetti di empatia (entrare nei mondi degli altri agenti) e di introspezione (conoscere e valutare quello che si sa e che si crede e assumere un comportamento razionale sulla base di quello che ancora non si conosce ma si crede tale).

Insomma, più un agente è coinvolto con il suo ego e con quello degli altri, più le scelte logiche si fanno ricche di simboli, operatori modali, tempo, dinamicità e variabili intervenienti che possono modificare le attese in corso d’opera. Si complica l’insieme di predicati, includendo, obblighi, possibilità, avverbi temporali e operatori epistemici. Parallelamente, per gestire questa ricchezza di modalità, i fatti del mondo, cioè gli a, b, c del realista, si riducono, per permettere un ragionamento più rapido ed efficace, che richieda una minore esplosione combinatoria sui mondi possibili. L’agente pre-esclude tutti quegli elementi di cui l’attenzione può farne a meno, tuttavia, perché ciò sia possibile deve sussistere un’attenzione preventiva e precosciente, che setacci ciò che è utile e ciò che non lo è. Come riesce ad attenzionare una riduzione della reale non potendo gestire la sua complessità? È un azzardo? Eppure quotidianamente constatiamo come ciò funzioni.

Se lo simulassimo al computer, avremmo un programmatore che costruisce l’ontologia pensata appositamente per l’obiettivo; traslando questo nell’essere umano dovremmo analogamente ipotizzare un omuncolo, con un regresso all’infinito. Oppure, per risolvere la preselezione escludendo il paradosso del terzo uomo, si fa appello a un intelletto sempre attivo che deve in qualche modo aver già elaborato la complessità per noi. Per “intelletto attivo” si intende non un intelletto divino o un’anima con idee innate pascolate nell’Iperuranio, ma un bacino di presupposizioni sociali, risultato della testimonianza collettiva, sempre aperto a modifiche in itinere, proprio perché agito individualmente e flessibile. Nasciamo con la capacità di vocalizzare in un gruppo che partecipa già all’istituzione linguistica (tra le altre istituzioni); pian piano impariamo anche noi a emettere vocalizzi specifici e a gestirli nelle relazioni, secondo le intenzionalità più proprie. Il linguaggio ci precede, è da sempre attivo, e decidiamo di abitarlo a nostra volta perché ovviamente ci è utile[10].

“Ciò che stiamo trascurando è il fatto che la coscienza non è solo una importante caratteristica della realtà. In un certo senso essa è la più importante perché tutte le cose hanno valore, rilevanza, merito, pregio soltanto in relazione alla coscienza”[11].

Searle sottolinea qui due aspetti fondamentali. Innanzitutto, una coscienza parte della realtà, superando in questo modo le categorie filosofiche della tradizione occidentale, con cui inevitabilmente si cade nei dualismi. Inoltre, la coscienza diventa ciò che, tramite l’intenzionalità, spiega la preselezione degli elementi utili per ulteriori scelte. Ogni essere umano usa la coscienza per relazionarsi al dominio di base (lo Sfondo di Searle), altrimenti ridondante di significati, selezionando con le euristiche concettuali più utili in ogni dato momento porzioni del dominio. È come se l’esperienza personale di ognuno, ma vissuta in un contesto sociale e pubblico, creasse una reazione, più o meno riflessa, di connessioni, pesi sinaptici e funzioni soglia con cui richiamare i pattern di attivazione in risposta a ogni input. Solo così le cose acquisiscono valore, e solo così, sulla base di quel valore (il peso), si può selezionare dalla memoria semantica e procedurale i piani migliori. È questo che chiamiamo azione intenzionale, ed è così che riusciamo a interpretare anche le scelte altrui da pochi indizi. Biologicamente parlando, sono gli stessi neuroni, quelli specchio, che si attivano quando immaginiamo un’azione, quando la eseguiamo e quando la vediamo eseguire. È grazie a questa capacità umana di simulare i comportamenti, di condividere le intenzioni e i loro legami con porzioni dello sfondo effettivamente comune che possiamo evitare preamboli quando parliamo di Napoleone perché siamo in grado di calarci immediatamente nei panni degli altri.

La soluzione, dunque, è intendere la realtà come qualcosa di molto più ampio, in cui il linguaggio, le pratiche e le semplificazioni stesse non sono esterni, ma da sempre aggiunte al dominio-realtà e comprese nel sistema. Le domande sul vero e sul falso andrebbero intese in senso non-assolutista, ma relativamente, in base ai motivi e al contesto in cui quei motivi trovano condivisione e senso. Pertanto, benché apparentemente simili nel contenuto, finiscono per essere tutte differenti nelle risposte e nelle condizioni di soddisfazione, a seconda degli scopi degli agenti. Insomma, l’esito è simile a quello di Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche[12]. La filosofia non è la scienza ed eliminare la prima perché non segue le regole della seconda è come dare il cartellino rosso secondo il regolamento del calcio a un atleta di kick-boxing che sta praticando quello sport sul ring, fermando la partita perché le squadre non sono in 22.

La vera domanda a cui si vuole rispondere in questa sede non riguarda il fatto che il mio braccio che voglio alzare sia di fatto alzato, ma come questo comunichi un’appartenenza fascista o, in un altro contesto, lo stesso braccio indica la richiesta di prendere parola in classe.

Rappresentazioni

Le tecnologie risolvono problemi sociali, quindi non possono essere indipendenti dalla mente\corpo, dalle credenze, dalla morale e soprattutto da sentimenti e condizioni di felicità che le fanno andare a buon fine. Sono le applicazioni di leggi di laboratorio e, al tempo stesso, sono oggetti sociali non meno concreti.

Per semplificare gli usi, gli oggetti vengono strutturati con indicazioni all’usabilità: la mente\corpo viene inscritta nel design. Un tastierino di un videogame è fatto per mani di un certo tipo e contiene simboli su cui una cultura del gaming concorda e si tramanda: “Questo simbolo X vale come SALTO nei videogame SONY”. Questo aspetto ci chiarisce ancora una volta quanto sia improprio parlare di oggetto materiale o sociale. L’oggetto è ibrido[13]; è il motivo per cui ci domandiamo del suo significato che ci porta a premiare alle volte gli aspetti bruti, altre quelli culturali, altre ancora quelli individuali, come un soggetto avente funzionalità corporee differenti che si trova a non poter usare una tecnologia, per esempio un individuo con una forma di disabilità, per il quale il controller diventa un ostacolo.

Analogo discorso vale per il linguaggio, usato, tra le altre cose, per creare continui livelli di interpretazioni, e per fare della realtà un’esplosione di documenti, di istruzioni e di rappresentazioni, che vanno al di là della descrizione di ciò che è. Per un documento, il valore di vero o falso ha spesso senso politico, economico, emotivo: pensiamo alla falsità della Donazione di Costantino, non è come la falsità di una realtà composta da omeomerie (a parte il dispiacere di Anassagora che tuttavia lascia il tempo che trova).

Ampliare il senso di reale, di verità come corrispondenza e di rappresentazioni come metodo di organizzazione, ci consente di comprendere anche i condizionali controfattuali. Essi non vanno intesi sintatticamente o analizzati come asserzioni nella tavola di verità, altrimenti, come sappiamo, essi saranno tutti veri. Al contrario, il significato di tali proferimenti sta tutto del sentimento che li accompagna. Rallegramento, sollievo, pentimento: questo il significato emotivo di quando si dice: “Se non avessi fatto così, sarebbe stato meglio\peggio”. Da un punto di vista pragmatico, la funzione di tali sentimenti, con cui viene accompagnato il controfatto o con cui viene creata una contro-storia, è quella di diventare una guida per ripetere nuovamente quella condotta o per guardarsene ed evitarla in futuro. I condizionali controfattuali esistono perché, quando scegliamo, non valutiamo solo e soltanto sulla realtà del realista, ma grazie all’ego e all’incertezza che lo accompagna strutturalmente c’è un’esplosione di mondi possibili e credenze e possibilità da accogliere e scartare nella scelta. Dal momento in cui un’azione viene intrapresa, l’ego ritorna sui mondi possibili non più possibili e sperimenta il sentimento associato ai controfatti.

I mondi possibili sono il risultato dell’aver fermato il flusso della vita, rappresentandolo in innumerevoli modi, dell’aver esercitato il dubbio, l’antirealismo in opposizione al realismo, sapendo usare la comprensione della differenza tra credenza e sapere, tra futuro e passato. Ecco, allora, uno dei ruoli pratici del dubbio cartesiano, della filosofia, della rappresentazione.

Insomma, la capacità rappresentativa degli esseri umani consente l’anticipazione e ogni ragionamento su mondi possibili. È una guida per gestire la complessità. Lo sfondo su cui agiamo è un insieme di layer: si va da fatti più universali, specie-specifici o legati a qualunque forma di vita, fino a scelte individuali, basate su personalità, esperienze passate, abilità corporee personali, idioletto. In mezzo esistono categorie sfumate da cui attingere, che possiamo chiamare culturali o di appartenenze a gruppi sovraindividuali. Esse non esistono in quanto tali, non c’è un quid netto che faccia esistere la cultura come categoria a sé. Ognuno di questi concetti si sfuma dentro a quel gruppo di soggetti che li metterà in pratica quando l’obiettivo lo richiede.

La cultura intervie a semplificare, flessibilmente, le scelte, ritagliando quel dominio altrimenti esageratamente complesso con strategie che probabilmente saranno utili in quel momento. Insomma, grazie al fatto di convivere in un gruppo, apprendiamo a semplificare la realtà in modo pre-attentivo, consentendo anticipazioni e interpretazioni delle scelte altrui che altrimenti richiederebbero troppo tempo e conoscenza. La cultura, diversamente da ciò che si potrebbe pensare, non aggiunge significato, ma aiuta gli esseri umani a selezionare informazioni da un mondo condiviso, reale, altrimenti ingestibile per le nostre risorse computazionali. È una riduzione automatica per gestire la ridondanza e superare il pensiero difettoso.

Cultura come euristica nella semplificazione della realtà

La cultura può essere considerata una sorta di euristica (una fra le tante). Non c’è un relativismo forte, ma debole; è una semplificazione che interviene in contesti specifici (sociali) ed è sempre aperta a cambiamenti da parte degli esseri umani nel corso delle loro azioni e goal in divenire. Qualsiasi influenza della cultura sulla cognizione può essere eliminata a favore di altre strategie apprese nei processi filogenetici o ontogenetici. Elisabetta Lalumera[14] ha dimostrato che il condizionamento del linguaggio sulla decisione dipende da come è stata impostata la task. Si chiama “flessibilità concettuale”. Significa che un concetto è un insieme di strategie o procedure, alcune fornite dalla cultura, che l’individuo usa in modo flessibile, a seconda del tipo di compito. Essere linguisticamente competenti non può prescindere dalla situazione, dagli interlocutori o dalla società che li ha dotati di strategie. La competenza culturale è allora strettamente legata all’empatia e alla capacità di mettersi nei panni degli altri e ragionare dalla loro prospettiva: è legata alla rappresentazione, più o meno automatica, della realtà e al figurarsi mondi possibili su cui valutare le credenze più probabili.

Ecco allora il ruolo del dubbio, dell’allontanamento, delle simulazioni e dei controfatti: non sostituiscono la realtà, ma allenano la scelta flessibile dei piani ad agire più utili su una realtà strategicamente (e flessibilmente) ridotta.

Il ruolo delle tecnologie digitali: videogiochi, robotica e realtà virtuale/aumentata

Come ogni tecnologia, sia videogiochi, sia robot, sia la realtà virtuale e aumentata sono tipologie di rappresentazioni[15].

Il videogame, per esempio, simula un contesto, un ambiente di azioni, reazioni, oggetti e leggi fisiche credibili o incredibili, a seconda di quello che vogliamo ottenere; il robot, più del videogame, deve tener conto di quelle leggi fisiche, meccaniche, altrimenti non funzionerebbe, simulando sia l’agente sia come l’agente potrebbe simularsi il contesto. Nel videogame abbiamo il solo vincolo del computer, dell’hardware: esso deve rispondere alle sue regole fisiche e ai suoi limiti.

Diverso è il caso della Realtà Aumentata (AR). Essa è una tecnologia che mostra come avviene la formazione di layer documentali sui singoli oggetti. L’AR si sovrappone a ciò che ci circonda, a una realtà che resta sempre ben visibile da noi e della telecamera del device e, che, perciò, è necessario sia visibile come base su cui il software, dopo il riconoscimento, proietterà il contenuto digitale sovrapposto. Diverso ancora è il caso della realtà virtuale (VR) che tende a darsi come unica realtà, La VR è un paraocchi che ci isola a livello visivo da ciò che ci circonda. Come il paraocchi, essa ha la funzione di non far distrarre l’animale, portandolo a concentrarsi solo sul rettangolo di sentiero immediatamente davanti a lui, così il visore ha lo scopo di distogliere da ogni stimolo visivo esterno, dando una apparenza di partecipazione a una realtà altra. È una sorta caverna platonica, ma luminosa, di pixel, ma ben rappresenta la prova che la coscienza non è riproducibile in una capsula di Petri, secondo stimolazione appropriata.[16] Infatti, quando siamo calati nel contesto virtuale, la separazione dalla realtà estesa, che il visore cerca di celare, è smascherabile. Il nostro corpo è collocato e aperto tramite gli altri sensi nella realtà parzialmente obliterata, e quindi essa è esperibile in ogni istante; la vista da sola non è sufficiente a dare percezione del reale, ma agisce in concerto ad altre modalità sensoriali e alle possibilità su di esse. Nel mondo virtuale le intenzioni, il libero arbitrio sono limitati: le azioni e la creatività sono quelle incluse nel gioco, eseguibili entro i limiti della macchina stessa: insomma i gradi di libertà concessi sono sempre inferiori a quelli del sistema. Ogni volta che si prova ad agire al di là dei vincoli di default e ogni volta che i sensi non si allineano (quello che si vede non è quello che si tocca, sente, annusa) si genera una dissonanza cognitiva che porta al risveglio.

Infine, il robot. Esso è ancora differente. Il robot ha il limite del mondo esterno e degli altri, con il loro terreno comune di presupposti con cui hanno dato senso al mondo stesso, nel quale un robot deve calarsi (envelope[17]). Ogni singola macchina robotica, a seconda del contesto, non simulato, in cui va a inserirsi, viene dotata di sensori e motori; nel farlo, prende ispirazione dalle strategie di risposta e quindi di sopravvivenza per quell’ambiente degli individui già selezionati dalla Natura da milioni di anni. Il robot per essere tale deve essere autonomo o semiautonomo quindi deve avere connessioni con l’ambiente, tramite sensori e motori e quindi deve avere una certa estetica che meglio lo fa rispondere ai vincoli ambientali, ma anche sociali. In effetti se ci aspettiamo che un robot si interfacci con gli esseri umani (social robots) allora deve funzionare anche socialmente, incorporando caratteristiche anche culturali. Rappresentare la mente e il corpo degli esseri umani, interrogarci su come possa funzionare, assume un valore anche ingegneristico, per far funzionare meglio il robot ed adattarlo all’envelope degli esseri umani. Insomma, il robot deve rispondere alla necessità di adattamento al mondo. In questo caso diventa come un’asserzione. Il suo descrivere, rappresentare, la mente e la realtà intenzionata risponde a quella direzione di adattamento mente-a-mondo tipica delle credenze. Il robot è una parola, esprime la forza di una credenza vera o falsa se si adatta ai mondi possibili (su cui gli atteggiamenti epistemici sono veri o falsi), pertanto includerli nell’architettura cognitiva potrebbe essere ingegneristicamente vincente[18].

Abbiamo detto che la cultura ci fornisce euristiche già testate dal gruppo per semplificare l’elaborazione delle informazioni nelle stesse condizioni. Il tipo di compito è come uno stimolo che ci fa richiamare i processi correlati, facendoci utilizzare le migliori strategie per risolvere ogni compito. Ogni lingua e ogni cultura hanno sicuramente peculiarità specifiche con cui interpretano il mondo. Dotano gli individui di piani d’azione, ma nessuno di essi è inevitabile: non siamo burattini nelle mani del linguaggio e della cultura, come se indossassimo occhiali con i quali potremmo vedere il mondo solo attraverso un tipo di lente colorata. Invece, ciò che chiamiamo ‘categoria’ non è altro che un database di rappresentazioni e procedure apprese in modi diversi, ognuna richiamabile in base alla sua utilità e rinforzo.

Nei suoi studi, Elisabetta Lalumera[19] ha dimostrato che il condizionamento del linguaggio dipende da come viene impostata il task. I risultati del determinismo linguistico derivano sempre dal contesto e dal tipo di compito, quindi cambiando le richieste, possiamo anche annullare gli effetti cognitivi del linguaggio. Quando categorizziamo, quando svolgiamo compiti di risoluzione dei problemi e facciamo esercizi di inferenza e riconoscimento, utilizziamo gli indizi che, ad esempio, la nostra lingua ci fornisce. È un principio di risparmio economico. Siamo computer limitati in termini di potenza e calcolo, quindi naturalmente sfruttiamo le euristiche che già conosciamo.

Un concetto non è qualcosa di fisso, ma un insieme di strategie e procedure che l’individuo ha sempre a disposizione e può utilizzare in modo flessibile, a seconda del tipo di compito. Possedere un sistema concettuale è come avere una rete di competenze con uno scopo comune. Si tratta di interazioni con il mondo, che possono realizzarsi in modi diversi. I concetti sono flessibili, il che significa che non sono rappresentazioni mentali unite da un’essenza fissa; invece, sono funzioni la cui realizzabilità è molto ampia. Insomma, interrogarci su come possa essere simulata tale caratteristica della mente e dell’intenzionalità consente da un lato di diventare più organizzati nel farlo, acquisendo un habitus, dall’altro diventa una semplificazione per il robot o per l’avatar dotarlo di un’architettura flessibile, capace di ragionare su mondi possibili, probabilità e di adeguare i piani in base a pesi diversi associati a motivi diversi, cambiando quegli stessi pesi alla luce di feedback esterni, e quindi di permettere la personalizzazione[20].

La Realtà Aumentata AR è una tecnologia che mostra come avviene la formazione di layer documentali sui singoli oggetti. A differenza della Realtà Virtuale VR che tende a spacciarsi per unica realtà, l’AR si sovrappone a ciò che ci circonda, a una realtà che resta sempre ben visibile da noi e della telecamera del device e, che, perciò, è necessario sia visibile come base su cui il software, dopo il riconoscimento, proietterà il contenuto digitale sovrapposto.

Il VR è un paraocchi che ci isola a livello visivo da ciò che ci circonda (ci risveglia dalla capsula di Petri la dissonanza cognitiva con gli altri sensi e dal libero arbitrio ridotto). Come il paraocchi degli equini ha la funzione di non far distrarre l’animale, portandolo a concentrarsi solo sul rettangolo di sentiero immediatamente davanti a lui, così il VR ha lo scopo di distogliere da ogni stimolo visivo esterno, dando una apparenza di partecipazione a una realtà altra. È una sorta caverna platonica, ma luminosa di pixel.

L’AR è molto più affine alla teoria degli effetti di Gadamer[21]: entrambe aggiungono interpretazioni al testo originale, il quale si aumenta di sensi (taciti o espliciti), prendendo vie inattese rispetto all’intenzione primigenia. La realtà aumentata può aggiungere un contesto di lettura all’oggetto-base, spostandone completamente il senso, o chiarendone la leggibilità come un’affordance con legenda.

Per altri versi l’AR somiglia alla pratica memica: c’è un originale ma aperto alle declinazioni e applicazioni degli altri soggetti, che ne replicano innumerevoli volte la struttura. L’AR ha una struttura (il fatto) a cui si aggiungono layer interpretativi. Anche il meme consta di una base di partenza, che non è il riferimento, ma il senso. Il riferimento, il contenuto, viene dato successivamente dagli agenti che inseriscono la figura del meme in infiniti contesti. Il meme-struttura è un atto perlocutorio: Bernie Sanders (Figura 1) con le muffole è come una figura retorica analizzata nella pragmatica; è l’equivalente di un romano medio che dice “stic***” quando Cesare oltrepassa il Rubicone, ma lui deve pensare a come arrivare a fine giornata. Bernie Sanders con le muffole, nel diventare meme, viene ritagliato da Capitol Hill e si inserisce in qualunque situazione altra, con il senso implicito di schernire la serietà di quel dato contesto. Quando una struttura memica è declinata secondo contesti diversi, il contenuto cambia ma non gli effetti sui parlanti o la forza e le intenzioni primigenie (una promessa è sempre una promessa come Bernie Sanders con i guantoni significa disinteresse cinico per il contenuto a cui si applica).

Con la Realtà Aumentata la figura-marker che la attiva è il riferimento; le informazioni digitali sono il non-detto della pragmatica: esiste un oggetto, che, se inquadrato, si arricchisce di nuovi elementi, quelli che nella comunicazione sono date per scontate: le implicatore, che pertanto mutano in esplicature.

Figura 1Bernie Sanders

La Realtà Aumentata mostra su schermo le aggiunte al testo di partenza, aggiunte ipertestuali che aumentano o cambiano il significato. Essa ci chiarisce che a. La base è reale b. Il significato, il meta-dato sono reali essi stessi e flessibili. Insomma, la Realtà Aumentata va a rappresentare esattamente il modo in cui si creano istituzioni e fatti sociali, documenti, quindi le rappresentazioni e come intenzionalmente la coscienza performa i suoi molteplici legami con il reale.

Conclusioni

Epoché, domande filosofiche controintuitive e rappresentazioni (comprese le tecnologie) organizzano i nostri legami con la realtà, la quale resta indipendente e disponibile a nuove negoziazioni. Insomma, l’antirealismo non va inteso quale sostituto della realtà, la quale, anzi, risulta oltremodo indispensabile al fine di produrre la sua negazione, come resta indispensabile per triggerare la Realtà Aumentata o per collocarvi i robot, tecnologie che rendono visibili le pratiche sommerse con cui gli esseri umani costituiscono i legami intensionali con le cose, accelerando la comprensione senza necessità di fare preamboli.

In questo articolo abbiamo preferito evitare categorie come mente-corpo, mostrando come invece la realtà emerga esattamente nella triangolazione di menti, non dissimili, e mondo in comune. Nell’agire quotidiano le attese vengono ricalibrate costantemente, co-creando uno sfondo effettivamente comune in cui layers di vario tipo e strategie concettuali molteplici si innestano semplificando azioni ed empatia. In questo processo la filosofia, l’arte, le tecnologie diventano strumenti, metodi, per fermare temporaneamente la coazione a ripetere e riorganizzare le attività di base che rappresentano, aggiornando o confermando i presupposti dell’intenzionalità collettiva.

Bibliografia

  1. J. Searle, Mente, Linguaggio e Società, Scienze e idee, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000.
  2. Ibidem.
  3. A. Noë. Strange Tools: Art and Human Nature. First edition. New York, Hill and Wang, a division of Farrar, Straus and Giroux, 2015.
  4. J. Searle, Mente, Linguaggio e Società, Scienze e idee, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000.
  5. Paradosso del barbiere. (2023, April 22). Wikipedia. https://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_del_barbiere
  6. A. Noe, Perché non siamo il nostro cervello, 2010, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  7. Popper, K.R., The poverty of historicism, London 1957 (tr. it.: Miseria dello storicismo, Milano 1975²).
  8. Realism, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2019, December 13. https://plato.stanford.edu/entries/realism/
  9. Frixione M., Iaquinto S., Vignolo M., (2016) Introduzione alle logiche modali, Laterza, Roma Bari.
  10. Tomasello, M. (2009, June 30). Constructing a Language. Harvard University Press.
  11. J. Searle, Mente, Linguaggio e Società, Scienze e idee, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 88.
  12. Wittgenstein L., Ricerche Filosofiche, tr. It. Einaudi, Torino, 1967.
  13. Latour, B. (2012, October 1). We Have Never Been Modern. Harvard University Press.
  14. Lalumera. E, 2013, Concetti, relativismo e strategie flessibili, Rivista italiana di filosofia del linguaggio, vol. 7, n. 3.
  15. Saettone, L. (2023, June 26). Videogame, robotica ed education: un rapporto sempre più stretto. Agenda Digitale. https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/videogame-robotica-ed-education-un-rapporto-sempre-piu-stretto/
  16. Noe A, 2010, Perché non siamo il nostro cervello, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  17. Per envelope si intende lo spazio tridimensionale in cui il robot deve agire. Non sempre si può strutturare uno spazio a misura di robot a cui gli esseri umani si adattano, ma si deve rendere il robot a misura di uno spazio già organizzato nel continuum con la mente estesa.
  18. L. Saettone, R. Fedriga, E. MIcheli. (2023), Linguistic and Cultural Competencies in Dynamic Possible Worlds, ROMAN conference, Robontics Workshop, Busan.
  19. Lalumera E., op. cit.
  20. L. Saettone et al, Cultural Competence through Dynamic Epistemic Logic: a proposal for robotic implementation, IRIM conference, 2023, Rome.
  21. Grondin, J. (2003, January 1). Hans-Georg Gadamer. New Haven : Yale University Press.

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