Il lavoro offerto e svolto attraverso le piattaforme della gig economy rappresenta senza dubbio un’innovazione senza precedenti, da cui derivano alcuni lati positivi e molti aspetti negativi. Per comprenderne gli effetti positivi basti pensare a come, in certi casi favorevoli, esso offra una maggiore flessibilità al lavoratore. D’altro canto, però, l’emergere di queste nuove forme di lavoro ha dimostrato sia la debolezza dell’impianto normativo attuale, sia, nella stragrande maggioranza dei casi, le ripercussioni nocive di una flessibilità esasperata o di un lavoro spesso sottopagato.
Un’indagine ILO[1] – International Labour Organisation – ha rilevato che, a seconda del paese e della piattaforma, la paga oraria di un lavoratore gig si attesta in una fascia compresa tra un dollaro e 5,5 dollari, con un’elevata insoddisfazione relativamente ai compensi ritenuti troppo bassi.
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In particolare, dai dati emerge che in una settimana, in media, sono 28,4 le ore lavorate, di cui 21,8 quelle pagate, mentre 6,6 non lo sono affatto. Il 60% dei gig workers dichiara di lavorare sei giorni a settimana. È proprio l’assenza di una remunerazione adeguata che spinge queste persone a lavorare sempre di più[2]. Il sito di mutui Earnest, assieme a Priceconomics, ha stimato che l’85% dei gig workers guadagni meno di 500 dollari al mese.
Questi lavoratori, quindi, operano spesso a tempo pieno per una o due grosse imprese da cui dipendono pressoché totalmente per vivere, e che dettano loro i tempi di lavoro[3]. La maggior parte di coloro che lavora sulle piattaforme digitali è inquadrata come lavoratore autonomo e non come subordinato; «ciò fa sì che, in quanto tali, essi non possano accedere al sistema di tutele riservato ai lavoratori subordinati, anche quando le modalità di svolgimento della prestazione presentino degli evidenti tratti in comune con questa tipologia di lavoratori. […] Questi rapporti di lavoro, nella maggior parte dei casi, vengono instaurati mediante contratti atipici che si caratterizzano per l’accentramento del potere economico in capo alla piattaforma, escludendo qualsiasi possibilità di negoziazione da parte degli utenti»[4].
Lo sviluppo economico, fino a qualche decennio fa sembrava produrre miglioramenti contrattuali per i lavoratori. L’economia gig, invece, si è strutturata intorno alla dissoluzione dell’occupazione dipendente e ciò sta generando un “dualismo” nel mercato del lavoro, con una divisione fra coloro che beneficiano della piena sicurezza dell’occupazione standard – cioè a tempo pieno e indeterminato – e coloro che rimangono nella precarietà. I primi, tra l’altro, vengono sempre più spesso additati come “privilegiati” da parte dei precari.
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I numeri della gig economy
La gig economy è ormai nota al pubblico per lo spazio dato dai media alle storie dei riders che portano il cibo con bici e motorini oppure agli autisti-tassisti o ai corrieri che consegnano i pacchi coi furgoni.
Il tema, però, riguarda anche altre figure, spesso invisibili perché nascoste dietro le piattaforme: professionisti, baby sitter, artigiani, addetti alle pulizie, operai del clic e tanti altri. Non esistono, infatti, solo piattaforme legate al food delivery, al noleggio con autista o all’affitto di posti letto, ma negli ultimi anni sono nate piattaforme che vedono come utenti-prestatori una grande platea di mestieri e professioni.
Secondo Casilli[5], nel mondo i lavoratori gig potrebbero essere centinaia di milioni e sicuramente non meno di 40 milioni, ma dato che i giganti della tecnologia mantengono il riserbo sulla questione e moltissimi di questi lavoratori sono in Asia o in Africa, appare difficile avere numeri precisi.
Se da un lato la pandemia da Covid-19 ha prodotto effetti negativi soprattutto su quelle piattaforme strettamente correlate con lo spostamento delle persone (come Lyft e Uber, i cui valori di borsa sono crollati nella fase di lockdown di oltre il -30%) e come destinazione turistica (Booking.com -24,26% e Airbnb -46%), allo stesso tempo, tuttavia, l’incremento degli acquisti online e delle consegne a domicilio ha portato un incremento del +82,71% per Delivery Hero, società capogruppo di Foodora[6].
Numeri notevoli hanno coinvolto anche le piattaforme che si rivolgono a lavoratori più qualificati. Solo nel 2017 imprese come Airbnb, Dropbox, GE e Samsung hanno pubblicato oltre 30 mila “annunci” su Upwork, la principale piattaforma dei professionisti freelance[7]. Non si hanno ancora numeri dettagliati relativi al 2020, ma a causa della pandemia i numeri sono certamente aumentati. Pare che Upwork abbia registrati ben dieci milioni di gig workers.
Notizia recente è che anche LinkedIn, il più celebre social network legato alle professioni, che conta più di 630 milioni di utenti nel mondo, ha in progetto di entrare a breve in questo mercato offrendo i medesimi servizi di intermediazione[8].
Secondo i dati elaborati dalla società di consulenza PWC, nel 2025 il fatturato della gig economy ammonterà a circa 325 miliardi di dollari, mentre, secondo il McKinsey Global Institute, per quella data le piattaforme produrranno circa il 2% del PIL mondiale[9].
È quindi scontato che nei prossimi anni nasceranno sempre più piattaforme e, quindi, sempre più lavoratori saranno gig.
I lavoratori gig
I gig workers hanno mediamente titoli di studio elevati. I conducenti statunitensi di Uber hanno una quota pari a circa il 37% di autisti laureati e addirittura l’11% con un titolo di studio post-lauream[10]. Dati analoghi sono stati rilevati anche tra gli autisti Uber e gli altri conducenti di autovetture in Francia[11]. Questa percentuale di laureati risulta ancora più elevata tra i lavoratori che utilizzano piattaforme di intermediazione di servizi professionali qualificati come UpWork[12].
Anche dall’indagine ILO[13] emerge che solo una piccola percentuale dichiara di avere un titolo di studio inferiore al diploma e una buona percentuale stava perseguendo un titolo di studio universitario mentre veniva intervistato. Il dato più sorprendente riguarda l’India dove, per quanto riguarda la piattaforma Amazon Mechanical Turk, ben il 90,7 % degli intervistati dichiara di avere un titolo di studio post-laurea[14].
Sempre dalla ricerca ILO emerge che il 37% degli intervistati dichiara come il lavoro su piattaforma rappresenti la propria unica fonte di reddito e, fra questi, una buona percentuale afferma di essere approdato sulle piattaforme a causa di un licenziamento.
Più in generale, oltre ad avere numeri più chiari e una fotografia più esaustiva della situazione, sarebbe opportuno chiedersi come mai, ad un certo punto della storia economica, per molti si è reso ancor più necessario “arrotondare” con altri lavoretti, rispetto a quello principale. Come sostiene Staglianò[15], calando i lavori “di una volta”, quelli con cui si poteva sfamare una famiglia, si è manifestata la crescita dei lavoretti, che sono come piccoli snack che si ingurgitano, senza che questi riescano a dare sazietà. È l’avvento, tipico di questo secolo, dei working poors (lavoratori poveri). Secondo la definizione del Dipartimento del Lavoro statunitense, «è tale chi ha lavorato per almeno la metà dell’anno precedente, ma il cui reddito non è stato sufficiente a fargli superare la soglia di povertà››. Il fenomeno, secondo i dati Eurostat relativi al 2018, è in costante crescita dal 2008. Tra gli Stati membri dell’UE i tassi più alti di povertà relativa sono stati osservati in Romania (15,3%), seguita da Lussemburgo (13,5%), Spagna (12,9%) e Italia (12,2%), mentre i tassi più bassi sono stati registrati in Finlandia (3,1%), Repubblica Ceca (3,4%) e Irlanda (4,9%). In media, in Europa, un lavoratore su dieci è un working poor. I dati sono evidentemente precedenti all’attuale situazione di crisi sanitaria, ma dai primi numeri che stanno emergendo, relativi agli ultimi mesi, pare evidente che questi numeri siano notevolmente cresciuti a causa della crisi economica in atto.
Ripercussioni sulla vita personale
Nella gig economy, come ormai tipico dell’economia attuale, il tempo di lavoro s’intreccia sempre più con il tempo della vita privata, sino a diventare un unico tempo inscindibile. Ad esempio, non vi è più distinzione tra giorni festivi e lavorativi, e l’orario è sempre continuato.
Inoltre, la combinazione di lavoro ad alta mercificazione e la presenza di un mercato globale per lo stesso lavoro fa sì che molti lavoratori digitali temano che altre persone possano scavalcarli e rubargli il posto di lavoro se essi pretenderanno condizioni di lavoro migliori[16]. Ad una determinata proposta, infatti, possono rispondere persone da più parti del mondo, anche da zone nelle quali il costo del lavoro è notevolmente più basso.
I lavori precari erodono, così, una parte notevole delle sicurezze personali, dato che quando l’incertezza diventa una norma, essa può avere tra i suoi effetti anche la fragilizzazione della persona.
Inoltre, chi lavora con un contratto atipico tende a ridurre le attenzioni per la propria salute. Fa di tutto per lavorare, sperando così di accrescere la probabilità di accaparrarsi il lavoro, sottovalutando il proprio stato di stress, o trascurando una visita per recarsi al lavoro, o, addirittura, svolgendo il lavoro anche quando si è ammalati. Ciò incide notevolmente sullo stato di salute a lungo termine[17]. Senza contare i ritmi sostenuti che certi lavori richiedono e che possono portare a conseguenze tragiche, come quando un autista all’ennesima ora di lavoro rischia di addormentarsi al volante.
Un interessante studio, in tal senso, è quello curato dall’agenzia d’informazione dell’Unione Europea nel campo della sicurezza e della salute sul lavoro[18] che ha elaborato un rapporto in cui spiega le possibili implicazioni in tema di salute e sicurezza, per i lavoratori delle piattaforme.
I principali rischi segnalati derivano dall’utilizzo di dispostivi informatici, che portano a disturbi come l’affaticamento visivo e problemi muscoloscheletrici.
Inoltre, il gig worker va frequentemente in overworking, lavorando senza sosta oltre ai normali ritmi dei lavoratori subordinati.
Per quanto riguarda le problematiche di natura psico-fisica, spesso sono causate dalla pressione che si viene a creare per il rispetto di scadenze ravvicinate o semplicemente per il raggiungimento di un reddito necessario al sostentamento, oltre a non aver a disposizione un datore di lavoro fisico a cui attribuire delle responsabilità in questo senso. È evidente come i lavoratori non siano nemmeno informati in maniera adeguata sui rischi connessi al proprio lavoro[19].
La precarietà, pertanto, è una condizione che col tempo finisce per modificare la mente che subisce un’elevata pressione psicologica causata dalla possibilità di perdere il lavoro da un momento all’altro, dal controllo continuo, dalle costanti valutazioni fornite dalle recensioni e dall’importanza di accaparrarsi l’attività prima degli altri.
Una gig economy più equa?
La gig economy non è un fenomeno così marginale, ma una dinamica che riguarda tutti, quantomeno come consumatori e cittadini. Inoltre, non è un processo incontrollabile, ma è governabile attraverso scelte politiche e sociali che guardino alla sostenibilità.
In tal senso la politica può agire per tutelare i diritti di questi lavoratori, in primis quelli volti a preservare la salute (fisica e mentale). Inoltre, si possono intraprendere iniziative, ad esempio volte a stabilire un compenso allineato ad un tariffario minimo specifico, misurato sulla zona in cui il professionista svolge la prestazione, o per porre in atto azioni volte ad un’adeguata tassazione dei giganti delle piattaforme.
I sindacati e le associazioni professionali, poi, possono continuare a porre pressioni per vedere riconosciuti diritti e tutele.
Dal punto di vista della società, invece, bisogna ricordarsi che un individuo privato del proprio futuro, spogliato di tutele, sicurezze e dignità può innescare un circolo vizioso che accentua le disuguaglianze. È necessario, allora, trovare nuove strategie e, al contempo, sensibilizzare una coscienza sociale maggiormente attenta ad un lavoro dignitoso.
Costruire un nuovo sistema economico richiede organizzazioni innovative, politiche adeguate, incubatori, sperimentazioni, ricerca e capacità di attivare un senso di comunità.
Bisogna agire e reagire per tempo, altrimenti un giorno ci sveglieremo tutti e tutte gig workers e con il rimorso di non aver cercato di costruire un mondo del lavoro migliore.
Bibliografia
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