Siamo molto lontani da robot che possano davvero aiutare nella vita quotidiana persone variamente fragili, robot capaci di portare a casa una spesa, aiutare a vestirsi, o cambiare un pannolone. Non abbiamo questi robot perché non sappiamo, a oggi, costruirli: non sappiamo costruire manipolatori sufficientemente agili e non sappiamo come fornirli di sufficiente intelligenza e abilità motoria da salire due rampe di scale portando una cassa di bottiglie d’acqua.
Non lo sappiamo fare, ma ci stiamo lavorando e potremmo anche riuscirci. E se ci riuscissimo? Se avessimo successo? A quali condizioni saremmo disposti a condividere la nostra vita o la vita dei nostri cari con macchine di questo tipo?
L’antronomia, tassello nella via all’AI di un’Europa che invecchia
In un articolo recente, don Luca Peyron ha introdotto ai lettori di agenda digitale il concetto di antronomia, non propriamente una nuova disciplina, ma una visione dei saperi legati all’innovazione, che pone l’umano come norma all’interno del processo di innovazione. L’antronomo, ovvero l’esperto in antronomia, è un professionista che attinge da competenze trasversali di vari saperi e scienze e li applica affinché un’innovazione tecnologia, soprattutto digitale, possa essere a servizio dell’umano e delle sue istanze, possa in altri termini essere una innovazione antropica. Nel suo articolo, Luca Peyron ha spiegato come l’antronomia possa essere un tassello nella via europea antropocentrica all’intelligenza artificiale, una prospettiva che si sta dispiegando, con la recente proposta di regolamentazione.
In questo contributo vorrei portare qualche argomento ulteriore, derivato da alcuni trend e scenari ormai condivisi, per sottolineare come una figura ponte di questo tipo, tra sapere tecnologico e sapere umanistico, sia necessaria per risolvere uno dei problemi fondamentali che dovremo affrontare nei prossimi decenni.
È un dato al momento indiscutibile che la popolazione mondiale stia invecchiando: secondo l’Istituto Nazionale di Statistica[1] del governo britannico (l’ISTAT degli inglesi), nel 2015 vivevano nel mondo circa 900 milioni di persone con più di 60 anni, il 12,3% della popolazione mondiale. Entro il 2030 questo numero aumenterà a 1,4 miliardi, ovvero il 16,4% della popolazione ed entro il 2050 (riscaldamento globale e pandemie permettendo) a 2,1 miliardi, ovvero il 21,3% della popolazione globale. Questo fenomeno è accelerato nelle nazioni più ricche dell’emisfero nord, ma la popolazione di persone più anziane crescerà in tutto il mondo, in particolare Cina e America Latina, ma anche nel continente Africano.
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Invecchiamento della popolazione, un trend globale
Forse è utile ricordare che in questo trend globale, l’Europa e l’Italia sono capofila, con una proiezione che porta le persone con più di 65 anni da poco più del 20% a oltre il 30% nel 2035 (un terzo degli italiani tra 15 anni saranno in pensione o molto vicini a esserlo) e le persone di più di 85 anni, da poco più del 3% passeranno a quasi il 6% della popolazione.
Gli effetti di questo invecchiamento, sono molteplici, ma, semplificando molto, due conseguenze sono evidenti:
- Se fate i conti, sono più di tre milioni di persone, che avranno bisogno dell’assistenza e delle cure tipiche dei grandi anziani, in un momento storico in cui i giovani disponibili a darle sono diminuiti significativamente
- Il mercato del lavoro si restringe naturalmente (e allo stato non sembra che i fenomeni migratori siano sufficienti a risolvere il problema), in particolare per quelle professioni per la quali la “prestanza fisica” è particolarmente necessaria, lavori fisici, faticosi, spesso usuranti, dalla manifattura all’edilizia all’agricoltura.
Peraltro, sempre più le coorti di lavoratori più giovani si troveranno in un mercato di lavoro in cui la produzione e i servizi, in particolare i servizi alla persona, competono per le loro abilità.
La soluzione vien dai robot?
L’industria dei robot è convinta di avere la soluzione: saranno automi sempre più sofisticati, sia nelle capacità motorie e fisiche che percettive e cognitive a prendere i posti lasciati liberi dagli umani nelle fabbriche e a prendersi cura delle fragilità di una popolazione invecchiata. Consideriamo questo secondo aspetto. L’industria definisce “robot di servizio”, ovvero tutti i robot che non sono coinvolti nella produzione industriale o agricola. Oggi nel mondo, secondo i dati della Internation Federation of Robotics[2], i robot dedicati ai servizi alla persona venduti nel mondo nel 2019 sono stati poco più di 23 milioni, con un crescita del 25% rispetto all’anno precedente. Ma oltre 4 milioni di questi sono giocattoli di vario tipo e i restanti 18 milioni sono quasi tutti robot tipo Roomba, oggetti si meravigliosi, ma soltanto in grado di spazzare e lavare i pavimenti.
Un robot di servizio dedicato ad attività di cura si situa in una posizione in cui siamo convinti, e a ragione, che la relazione umana, tra chi riceve e chi dà, sia fondamentale: la cura, anche quando è professione, è carità e amore e non può non esserlo. Nella relazione di cura c’è uno spazio per l’artificiale, ma è uno spazio di cui non abbiamo ancora definito i confini e siamo certi che questi confini non potranno essere definiti esclusivamente in termini tecnologici. Ma se affidare una parte dei servizi di cura delle persone è una necessità ineluttabile, dettata dai trend demografici, è probabile che lo faremo.
Ed è quindi necessario farlo nel modo giusto: dobbiamo iniziare oggi a formare e introdurre, nei processi di innovazione delle aziende che stanno provando a soddisfare questo bisogno, figure in grado di portare l’umano al centro: l’antronomia è un ingrediente fondamentale per la robotica dei prossimi anni.
- https://www.ons.gov.uk/peoplepopulationandcommunity/birthsdeathsandmarriages/ageing/articles/livinglongerhowourpopulationischangingandwhyitmatters/2018-08-13 ↑
- https://ifr.org/downloads/press2018/Presentation_WR_2020.pdf ↑