Era tra il 1998 e il 2000 e i miei genitori, sull’ondata di eccitamento che travolse tutto il mondo, dagli under-6 agli anziani, mi regalarono un Furby. Era bianco e nero e lo chiamai Bounty (si capisce il perché). Sono sempre stata un’assassina seriale di Tamagotchi e a parte prendere l’iniziativa per conferire nomi (pratica che ho sempre trovato molto divertente, segno precoce del mio apprezzamento per la poesia e la parola) sapevo che non avrei dedicato molto tempo a curare quel piccolo robot sonnolento e ciarliero di una lingua per me assurda. Non apprezzavo nemmeno i bambolotti: troppo umani e creepy; troppo forieri di istinto materno. Preferivo le Barbie.
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Ricordo, però, che fu la mia amata nonna a cominciare a interagire con il piccolo robot, metà gufo e metà Gremlin. E vaglielo a spiegare, tu, alla nonna classe 1932, cosa erano i Gremlin e il rischio che correva a bagnarli. Un giorno, però, decisi di provarci anche io, decisi di dedicarmi all’educazione del Furby. Siccome già ai tempi esibivo un’attitudine al trolling, finii per insegnare al robottino (spione!) una serie di parole non convenienti. Quando Bounty mi tradì, gracchiando, tra i grazie e i prego beneducati, qualche turpiloquio, ricordo che provai senso di colpa. Un sentimento strano, se pensiamo che lo attribuivo a un robot.
Sviluppare empatia e compassione per un robot
La macchina, con il suo aspetto, aveva superato una specie di Test di Turing: sapevo che non era vivo, ma mi dispiaceva aver corrotto la sua crescita. Avevo provato dei sentimenti per quell’oggetto “come se fosse stato davvero un essere vivente”. A pensarci oggi era una cosa straordinaria. Quell’interazione bambino-robot si era caratterizzata affettivamente. L’oggetto, complici gli occhioni grandi, il pelo e la capacità di apprendere e reagire agli stimoli esterni, aveva fatto sì che io (sempre la stessa serial killer di Tamagotchi) sviluppassi empatia e compassione.
Nao Challenge alla Scuola di Robotica
A distanza di vent’anni, forse, non è una mera coincidenza che, tra le altre mie attività, mi occupi di robot. A tal riguardo, ho appena fatto da giurata per la Nao Challenge organizzata da Scuola di Robotica[1]. Con grande piacere ho assistito a interessanti proposte di team di ragazzi provenienti da tutta Italia. L’obiettivo era promuovere la cultura, il territorio, la bellezza per mezzo di Nao, il piccolo robot umanoide. Sono state molte le proposte creative.
Quel che risulta degno di nota è che a me Nao sembrava uno di loro: non era un oggetto, ma un compagno che faceva la sua parte per vincere l’ambito premio. Si percepiva che il robot umanoide era a tutti gli effetti un elemento del team con cui i ragazzi avevano condiviso memorie, frustrazioni e momenti esaltanti. Con uno schermo non sarebbe stato possibile questo. Abbiamo bisogno di riconoscerci per creare una connessione calda. Se ci basta intravedere una particolare disposizione di forme per leggerci un viso umano, pareidolia, con un robot appositamente disegnato per esserci familiare (sempre prestando attenzione al fenomeno dell’Uncanny Valley[2]) il processo di identificazione, e quindi di apertura, è molto più semplice, immediato: a noi non resta che costruire l’esperienza con il robot per consolidare la fiducia iniziale.
Robot e robopet nella sanità digitale
Il Giappone, animista, è facilitato all’accoglienza di robot e robopet nei contesti di cura[3]. I robot sono, per la cultura giapponese, animati, come qualunque altro elemento con cui si può interagire. L’unico limite è stare attenti che i kami degli oggetti non siano ostili: chi li ha progettati, chi li ha venduti e noi che li utilizziamo dobbiamo essere allineati con la Natura e non deviare, altrimenti potremmo condizionare l’anima delle cose. Durante la pandemia molti giapponesi hanno cercato conforto proprio da assistenti robotici, ma dall’aspetto familiare: ad Alexa preferiscono robopets, come Charlie[4]: robot canterino, simile a un pupazzetto di neve. Il design e il comportamento sono stati pensati proprio per quelle donne che volevano rilassarsi dopo gli orari di lavoro estremi. Yamaha dice, con orgoglio, che il robot è più chiacchierone di un animale ma meno gravoso di un amante[5].
In Giappone c’è Robohon, il robot umanoide in smoking
Tra i compagni meccanici, uscito solamente per il Giappone, c’è Robohon[6]. Si tratta di un robot umanoide in smoking, avente le prestazioni di uno smartphone, ma che in più balla, si siede e cammina. Come SIRI è dotato di riconoscimento e sintesi vocale. Inoltre incorpora un sistema di facial ed emotion recognition[7], così che l’interazione uomo-macchina risulti sempre più realistica e caratterizzata affettivamente. L’affective computing si occupa proprio di costruire sistemi che tengano conto delle emozioni dell’user, così da offrire un’IUM sempre migliore. Fare in modo che l’essere umano provi empatia e fiducia è fondamentale perché la relazione con il robot abbia effetti davvero positivi per la persona, specialmente nei contesti di cura e riabilitazione.
Mentre in Giappone gli impiegati hanno il permesso di accarezzare un gatto in carne e ossa, tra una pratica e l’altra in ufficio, quando rientrano nei loro appartamenti minuscoli preferiscono non avere a che fare con l’incombenza di un terremoto a quattro zampe. Qoboo[8] è la soluzione perfetta: un gatto-cuscino robotico capace di muovere la coda e reagire alle carezze. Benché il gatto sia più indipendente di altri animali domestici, necessita comunque di molta cura e attenzione. La società odierna, soprattutto quella dell’Estremo Oriente, non può permettersi tempo da dedicare a felini e animali in generale. Vaccini annuali, lettiera, antiparassitario, unghie, peli ovunque, cocci, morsi, ferite, calore, sterilizzazione, cibo in quantità industriale, vomito, lunatismo, miagolii notturni, fughe, a volte bisogni sul divano, problemi di salute e la morte, inevitabile per ogni essere biologico: tutto questo è fare i conti con il dolore e la rabbia. Insomma sarebbe un investimento emotivo esagerato. Ci deconcentrerebbe dall’alienazione, l’unica alleata in grado di farci sopravvivere ai ritmi lavorativi odierni.
AI, 50 sensori e deep learning: il robot offre un’interazione più realistica e simil-empatica
Come avviene nel contesto domestico, anche tra i bar di Tokyo c’è sempre più competizione tra quelli dedicati ai pet e quelli che accolgono le loro versioni robotiche. I cat cafè nacquero per la prima volta in Giappone (neko cafè) e poi esportati in tutto il mondo, eppure, oggi, nella capitale nipponica, fanno loro concorrenza i Lovot Coffees. Lovot[9] è un robot alto quanto un bambino piccolo, ma simile a un pinguino con le ruote. Coniuga Intelligenza Artificiale e ben 50 sensori, tra cui un sistema interno di calore che permette di dare una sensazione di conforto e piacevolezza quando lo si stringe a sé. Il deep learning incorporato gli permette di decidere autonomamente, compiendo azioni in tempo reale, riconoscendo il coinvolgimento dell’utente. Ciò offre un’interazione molto più realistica e simil-empatica. La telecamera può riconoscere gli oggetti intorno, stimare ostacoli, distanze e peso. I movimenti, compresi quelli degli occhi, sono fluidi e ben strutturati. La voce di Lovot è studiata per riprodurre la cavità orale, dando la sensazione di star interagendo con un essere vivo a tutti gli effetti.
Le vendite di Lovot sono aumentate di dieci volte durante la pandemia
Come sostiene la teoria dell’Uncanny Valley, più un robot o un personaggio disegnato sembrano realistici, più è richiesto che vengano curati tutti i dettagli, animando alla perfezione i comportamenti senza tralasciare alcunché. Se si coniugassero aspetti realistici ad altri non realistici, ciò stimolerebbe nei soggetti una dissonanza cognitiva, la quale si tradurrebbe subito in senso di angoscia, come quando si ha a che fare con una salma o un essere morente. Groove X, la casa produttrice di Lovot, ha rivelato che benché i prezzi siano alti, circa 3000 dollari più le spese di mantenimento del software, le vendite sono aumentate di dieci volte durante la pandemia: è il segno che i robot hanno saputo compensare l’assenza di contatto a cui ci ha costretto il Covid-19 dimostrandosi alleati alla solitudine e alla cura, al di là dei contesti specifici di cura e riabilitazione.
I robot nelle case di cura
Non è una novità che i robot vengano usati nelle case di cura, come strumento ideale per individui affetti da qualche malattia neuro-degenerativa. E non è nemmeno nuovo che vengano preferiti come compagnia per anziani soli. Una delle problematiche maggiori è proprio l’angoscia di morire, lasciando solo il proprio animale domestico. Con un robopet questo interrogativo non sussisterebbe più, alleggerendo di molto l’esistenza degli anziani.
I parenti stanno cominciando a preferire i robot anche per controllare l’anziano a distanza. L’alternativa è quella di affidarsi a un collaboratore o di disseminare la casa di telecamere e speaker, tuttavia queste soluzioni portano i soggetti in età avanzata a sentirsi privati della privacy e della propria umanità. Il robot, pur essendo dotato di telecamere, non impatta sull’immagine che l’essere umano ha di sé, permettendogli di conservare la sensazione di aver mantenuto l’autonomia e di aver, inoltre, guadagnato un compagno di giochi con cui distrarsi senza fatica.
Il robot viene in aiuto per rammentare scadenze, medicine e per interfacciarsi telefonicamente con i parenti lontani. Il tutto sempre con discrezione, abbattendo la freddezza di schermi, speaker e telecamere. Tombot Jennie[10] per esempio è un cane robotico scelto da molte strutture per assistere individui affetti da demenza e per controllare gli anziani semi-autonomi nei loro appartamenti. È stato eletto da Time come una delle cento invenzioni più rivoluzionarie del 2020[11]. Jennie è controllabile vocalmente e tramite un’app su smartphone, inoltre contiene tantissimi sensori e la capacità di reagire a seconda dello stato emotivo del soggetto, contribuendo, oltretutto, a monitorare la salute fisica e mentale dell’anziano.
La questione etica
Le ricerche[12] hanno dimostrato i robopet sono effettivamente in grado di migliorare il grado di stress e l’ansia. Eppure non tutti gli esperti sono d’accordo che la scelta di impiegare robot come cura alla solitudine sia etica. Per esempio Sister Imelda Maurer ritiene che dare un robot ad anziani con problemi di demenza facendo loro credere sia un vero animale non è affatto giusto: è ingannarli servendosi proprio della loro fragilità. Dal “basso del mio cinismo”, posso aggiungere che probabilmente il robopet serve di più agli assistenti che all’anziano. Un cane robotico è fantastico per alleggerirsi, contemporaneamente, del peso dell’anziano e di quello di un vero animale domestico. Come sostiene anche il filosofo australiano Robert Sparrow, è analogo a comprare una televisione per “parcheggiarci” il vecchio davanti, così da renderlo muto per ore. Anzi, suggerisco di applicare un animale robotico su Roomba. L’aiuto sarebbe ancora maggiore: mentre distrae il nonno, pulirebbe anche casa!
Senza cadere nell’apocalisse, penso che in futuro i robopet non sostituiranno affatto gli animali domestici, così come i robot non prenderanno il posto degli esseri umani, né sul lavoro né in famiglia.
Al migliorare delle performance dei pet meccanici, anche grazie all’IA, molte famiglie e molte strutture di cura potranno scegliere di affiancarsi a un robot, perché più igienico (il robot non trasmette il Covid) e semplice. I nostri figli potranno giocare anche con un animale meccanico; un robot più interattivo e “puccioso” di un microonde, senza che ciò sovrascriva l’interazione uomo-animale, reciprocità che esiste da quando abbiamo cominciato a diventare stanziali e che è parte di una necessità culturale pressoché atavica e universale. Gli apocalittici, con la stessa foga, gridavano alla fine delle interazioni in presenza, eppure, la pandemia ci ha dimostrato (a posteriori) che si trattavano solo di geremiadi senza fondamento, storie sci-fi. Una vita totalmente a distanza non potrà mai sussistere. La zoom fatigue e la poca sopportazione del distanziamento sociale sono la prova che non siamo fatti per essere hikikomori. Pensare che robot e visori siano sostitutivi degli animali è come credere che si debba per forza scegliere tra partorire un figlio e adottare un gatto. Sono relazioni indipendenti una dall’altra. Non credo potremo mai fare a meno di animali in carne ed ossa.
Certe volte le giustificazioni che portano alcuni a scegliere un robot piuttosto che un animale vivo devono farci riflette. Da sempre l’essere umano cerca modi per rimuovere l’idea di morte e la possibilità del dolore, distraendosi in attività mondane o convincendosi che quando accadrà sarà come non avvertirla, proseguendo una vita migliore in una dimensione altra. Gli animali, avendo vita più breve della nostra, ci riportano sovente alla dura realtà, sono maestri molto più simili ai filosofi di quanto crediamo (altro motivo per cui Diogene mangiava n una ciotola?). Ci inducono a non rimuovere, constatando quanto sia fragile la vita e temporanea. Pertanto, la scelta di preferire un robopet per evitare l’esperienza del lutto può essere effettivamente deleteria. Ci impedisce di sviluppare la coscienza di sé e la sana resistenza agli urti.
Gli animali robotici, da questo punto di vista, sono in tutto e per tutto palliativi per fuggire la dolorosa contraddizione tra finitezza e desideri infiniti. L’intelligenza artificiale, gli ologrammi, i deep fake, i profili social, ricerche mediche, tecnologia genica e Transumanesimo sono tutti modi per sperare di continuare a esistere al di là del timer di cui la biologia ci ha dotati. L’essere umano non vuole né morire né soffrire, e allora si inganna, ma questo ha sempre un prezzo. Nei racconti del folklore e nei miti di ogni cultura, l’eternità prevede ogni volta un contrappasso. Dal tentativo di evitare piccoli momenti di frustrazione si ottiene solamente un dolore senza tregua e senza uscita. È banale, ma una vita che non fa esperienza del male non fa esperienza nemmeno del bene ed è proprio una cicatrice che rende la nostra pelle unica anche superficialmente.
Come diceva la mia amata Emily, la solitudine si cura solo quando ci rendiamo conto di essere soli in due. Pertanto un robot, non potendo davvero avere bisogno di noi, della nostra compagnia, non potrà mai essere una reale cura alla solitudine.
Note
- https://www.scuoladirobotica.it/nao-challenge-2021-la-premiazione/. ↑
- https://www.verywellmind.com/what-is-the-uncanny-valley-4846247. ↑
- https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/io-robot-di-fronte-al-covid-tecnologia-fra-scienza-e-animismo/. ↑
- https://www.yamaha.com/en/about/design/synapses/id_128/. ↑
- https://www.japantimes.co.jp/news/2021/03/04/national/social-issues/robots-virus-isolation/. ↑
- https://robohon.com/global/. ↑
- https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/emotion-recognition-a-scuola-ma-anche-su-spotify-chi-lo-usa-perche-e-con-quali-rischi/. ↑
- https://qoobo.info/index-en/. ↑
- https://lovot.life/en/. ↑
- https://tombot.com/. ↑
- https://time.com/collection/best-inventions-2020/. ↑
- https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/13607863.2020.1758906. ↑