Lo scenario

Robotica sociale: gli impatti de “La società dei robot” tra spazi ibridi ed etica

La robotica sociale si compone di robot badanti, robot tutor, robot educativi, ma “La società dei robot” comprende anche le interazioni degli automi con gli umani in spazi sempre più ibridi. Nel nuovo volume a cura di Renato Grimaldi lo stato dell’arte e le frontiere di ricerca

Pubblicato il 18 Apr 2022

Giulio Lughi

Consulente in media digitali, già professore nell'Università di Torino

robotica sociale - robofilosofia

L’immagine del robot meccanico e ripetitivo ha lasciato il posto alla robotica sociale, grazie al ricorso sempre più massiccio dell’IA nella progettazione dei dispositivi: i robot entrano infatti sempre più nella vita quotidiana, hanno capacità “intelligenti” di apprendimento e di decisione, interagiscono con gli umani in modalità nuove e a volte imprevedibili.

Si è aperto un territorio di studio e sperimentazione che estende il campo relazionale al di là del tradizionale ambito dell’interazione “uomo-macchina”, sviluppando nuovi e fecondi rapporti fra discipline tecnologiche e scienze sociali.

La robotica per un mondo che invecchia: sfide etiche e sociali

“La società dei robot”, volume di recente pubblicazione a cura di Renato Grimaldi (Mondadori Università, 2022), è un accurato ed esaustivo giro d’orizzonte sullo stato dell’arte della robotica, sulle sue implicazioni tecnologiche e sociali, sulle prospettive di sviluppo.

Il volume nasce nell’ambito del “Laboratorio di simulazione del comportamento e robotica educativa «Luciano Gallino»” del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’università degli studi di Torino.

Luciano Gallino (1927-2015) è stato un insigne sociologo, organizzatore, studioso del mondo del lavoro, che fin dagli anni Ottanta ha indagato le implicazioni sociali dell’informatica e ha evidenziato con largo anticipo quello stretto nesso fra aspetti tecnologici e umani che riscontriamo oggi negli studi più aggiornati sulla robotica, e che spiega e motiva il perché questo libro sia dedicato a lui.

“La società dei robot”: il nodo tra pensiero, linguaggio, intelligenza e conoscenza

“La società dei robot” nasce dall’analisi dei progressi della programmazione robotica negli ultimi cinquant’anni e raccoglie contributi di venticinque esperti e studiosi provenienti da ambiti e istituti di ricerca situati in varie parti d’Italia e d’Europa.

Tra le competenze scientifiche degli esperti: informatica, ingegneria, fisica teorica, logica, filosofia, psicologia, sociologia, cinema, realtà virtuale, teoria dei giochi, intelligenza artificiale, machine learning, percezione visiva, medicina, bioetica, robotica cognitiva, robotica educativa, tecnologie didattiche, interazione uomo-robot, progettazione, organizzazione della ricerca, innovazione sociale, risorse umane, sostenibilità, economia.

La robotica è infatti, a tutti gli effetti, un settore di studi e applicazioni in cui l’interdisciplinarità non è solo un’etichetta programmatica ma un effettivo terreno di scambio di conoscenze e sperimentazioni.

L’ampiezza del testo e l’elevato numero di contributi non consentono di dare in questa sede un ragguaglio completo di tutti i temi trattati, ma si possono individuare almeno quattro macro-sezioni che accorpano tematiche affini.

Nel blocco di introduzione si affronta il rapporto fra pensiero, linguaggio, intelligenza e conoscenza: un nodo problematico che consente di distinguere i robot ultraspecializzati, usati per impieghi specifici, dai robot biomorfi e sociali, in grado di attivare il riconoscimento di nessi logici (come, ad esempio, il nesso causa-effetto) e di muoversi in un contesto reale.

Sono problematiche di Intelligenza Artificiale che vanno affrontate non solo a livello teorico, ma inserendo i robot in reali contesti fisici: una linea di ricerca psico-sociale che fin dagli anni Ottanta studia il pensiero in quanto incorporato (embodied).

La robotica sociale, al contrario di quella industriale, ha una dimensione complessa: l’uomo carica i robot di valenze emozionali che derivano in parte dalle forme antropomorfe dei robot stessi, in parte anche dai processi di identificazione suscitati dall’immaginario letterario e cinematografico, che agisce sullo sviluppo dei robot e contemporaneamente ne viene influenzato.

Robotica sociale: la dimensione affettiva nell’interazione uomo-robot

Secondariamente, vengono affrontati i principali snodi teorici e pratici che regolano i processi di interazione uomo-robot.

In genere, le persone hanno una tendenza innata a trattare computer e macchine come se fossero a loro volta persone reali, attribuendo loro obiettivi, intenzioni, ma anche emozioni e personalità: una considerazione che mette in luce l’importanza della dimensione affettiva nell’interazione uomo-robot, come pure l’importanza di sviluppare robot umanoidi per studiare, in una sorta di gioco di specchi, le capacità cognitive umane.

Un terreno di ricerca eticamente sensibile, proprio in quanto aperto ai rischi della mentalizzazione, cioè dell’attribuzione al robot di stati mentali simili ai nostri; ma anche un approccio con implicazioni teoriche e pratiche di grande impatto, in quanto apre uno scenario che possiamo definire di “umanesimo tecnologico”.

Uno scenario che assume particolare rilevanza, ad esempio, nel caso della robotica sociale con i robot badanti, in grado di portare assistenza alle persone anziane elaborando interfacce e modalità di rapporto che retroagiscono positivamente sulla ricerca, fornendo dati preziosi sulle fasi di sviluppo della conoscenza, sull’apprendimento del linguaggio, sulle modalità di riconoscimento delle intenzioni.

Robotica sociale: i robot a scuola e per l’apprendimento

In un terzo gruppo di contributi si affronta il tema dei robot educativi, e del loro inserimento nel mondo della scuola.

I robot possono dare notevoli contributi per la costruzione di ambienti di apprendimento inclusivi, in particolare svolgendo compiti di tutoraggio intelligente, per i quali è necessario costruire e aggiornare basi di dati modellizzate in una prospettiva di rigorosa formalizzazione della conoscenza.

Notevoli anche le implicazioni pratico-operative che derivano dall’introduzione a scuola dei robot:

  • lo sviluppo del coding, apprendimento e uso di linguaggi di programmazione di base;
  • le applicazioni di problem solving;
  • le applicazioni creative che richiedono la riorganizzazione del campo mentale e la connessione fra settori diversi del pensiero;
  • l’uso dei robot come strumenti che favoriscono la naturale predisposizione a scoprire, esplorare e sperimentare nell’apprendimento attraverso il gioco, stimolando curiosità e sviluppando diversi livelli di astrazione che permettono di approfondire aspetti logici e strutture profonde, di progettare e pianificare.

Robotica sociale: serve tutelare le fasce fragili

Infine, un quarto insieme di contributi affronta il complesso tema delle implicazioni etiche della robotica: si aprono questioni di grande rilevanza civile e politica, che toccano dalla medicina alla chirurgia, all’ecologia, alle applicazioni militari con le cosiddette armi intelligenti, alla biorobotica, alle applicazioni artistiche, ai giocattoli robotici, alle pratiche sessuali.

In un intreccio di problematiche morali, sociali e legali, è prioritario l’obiettivo di tutelare soprattutto le fasce fragili della popolazione: i bambini, i giovani, gli anziani, le persone svantaggiate che necessitano di un’educazione adeguata all’uso di queste tecnologie sofisticate, ma soprattutto della capacità di collocarle in un contesto più ampio di cultura digitale.

Prima della robotica sociale: dagli automi alla cibernetica

Il carattere “umano’ dei robot non è certo una novità: dobbiamo ricordare che dall’antichità fino a tutto l’Ottocento non si parla di robot ma sono diffusi gli “automi”, dispositivi meccanici la cui caratteristica (come indica anche l’etimologia greca) è di muoversi e agire “da soli’; e che il più delle volte (non sempre) presentano anche sembianze umane.

Il termine robot prende invece origine dalla parola ceca “rabota”, che rimanda ai lavori forzati: venne introdotto all’inizio degli anni Venti del Novecento dallo scrittore Karel Čapek in una sua opera teatrale, dove indicava un essere umano artificiale, composto da pezzi di corpi assemblati, più un mostro alla Frankenstein che un umanoide metallico.

Da allora, il tema del robot è strettamente legato a quello della spersonalizzazione dell’essere umano, e alle problematiche sociali ed etiche connesse con lo sviluppo della civiltà industriale, come nel classico cinematografico “Metropolis” (Fritz Lang, 1927), celebre esempio di narrazione distopica in cui, sullo sfondo di una società rigidamente divisa in classi, gioca un ruolo fondamentale proprio un’androide femminile.

Queste inquietudini saranno riprese in maniera esplicita negli anni Quaranta dallo scrittore di fantascienza Isaac Asimov – a cui si deve tra l’altro l’invenzione della parola “robotica” – che in un suo racconto propose le cosiddette tre leggi della robotica”, indicazioni di stampo etico e comportamentale che dovrebbero regolare il rapporto “sociale” fra robot e umani.

La svolta nella storia dei robot si ha tuttavia con l’avvento della cibernetica (quella che oggi chiamiamo informatica): da una dimensione meccanico-orologistica (quella degli automi), o biologico-fantascientifica (quella di Frankenstein) si passa ad una dimensione di “controllo” e “regolazione”.

Robotica sociale: oltre l’industria, l’evoluzione attraverso il digitale

Facciamo ancora ricorso alla etimologia greca, in quanto cibernetica deriva da un termine greco che significa “timoniere”: ecco quindi che negli anni Sessanta una prima forma di rudimentale “intelligenza” si installa nei nuovi robot dell’età moderna e ne guida e gestisce (il “timoniere”) il comportamento.

Naturalmente siamo ancora nel pieno del sistema produttivo industriale, basato sulla catena di montaggio e sulla esecuzione rigida di compiti ripetitivi: i robot industriali di allora hanno perso le loro sembianze umane, non sono altro che bracci meccanici in grado di svolgere con estrema precisione, senza sbagliare mai, e a velocità elevata, lavori anche molto complessi ma sempre uguali. La loro “intelligenza” è puramente esecutiva, al servizio – e a garanzia – della riproducibilità immutabile e automatica del prodotto.

Questi robot industriali sono tuttora vivi e vegeti, anzi, continuano a rappresentare uno strumento fondamentale nei processi di ottimizzazione delle filiere produttive.

Ma la parola “robot” indica ormai una multiforme varietà di dispositivi: da quelli che cercano di simulare i movimenti e il comportamento degli umani, a quelli che replicano altri esseri viventi, a tutte le varie forme di movimento autonomo (droni, veicoli indipendenti), fino a robot incorporei, fatti di solo software, in grado di interagire con gli esseri umani a livello di processi comunicativi.

In questo sviluppo, rapidissimo negli ultimi anni, gioca un ruolo decisivo l’avvento del digitale nelle sue varie forme: dalla capacità di modellizzazione del mondo reale, alla raccolta e gestione dei big data, alla capacità di apprendimento autonomo (il machine learning), alla potenza predittiva e procedurale consentita dall’Intelligenza Artificiale.

In questo senso, possiamo dire che i robot di oggi rappresentano perfettamente il processo di trasformazione produttiva, comunicativa e culturale che ha caratterizzato la transizione dall’età industriale a quella digitale.

Vivere con i robot negli spazi ibridi

Quando si parla di robot, c’è un duplice retaggio figurativo con cui bisogna fare i conti: da una parte l’immagine concreta di un umanoide metallico, proposto da tanti libri e film di fantascienza e dai fumetti; dall’altra l’occhio senza corpo, impersonale e implacabile di Hal, l’intelligenza artificiale protagonista di “2001: Odissea nello spazio” (Stanley Kubrick, 1968).

Da una parte il robot come oggetto solido dotato di un corpo fisico, possibilmente simile a quello dell’essere umano; dall’altra la dimensione incorporea, che con un azzardo potremmo definire come puramente “mentale”, di software, governata da una logica di programmazione costituita esclusivamente da flussi di bit.

In questo senso la riflessione sulla robotica rappresenta uno snodo fondamentale per affrontare proprio i rapporti fra fisico e digitale, una delle questioni teoriche più importanti della cultura digitale e anche una delle più complesse.

Va detto innanzitutto che la cultura digitale, ai suoi inizi, ha insistito a lungo sulla differenza e sul distanziamento della virtualità dalla fisicità, elaborando ad esempio concetti come de-localizzazione, de-territorializzazione, de-spazializzazione: le prime applicazioni della Virtual Reality, ad esempio, apparivano come immersioni in una dimensione totalmente alternativa a quella reale, anche se non mancavano riflessioni più meditate (Maldonado, “Reale e virtuale”, 1992) che mettevano in guardia da facili confusioni metodologiche.

Fenomeni come quello degli hikikomori, adolescenti e giovani adulti giapponesi che si chiudevano nella propria stanza rifiutando ogni contatto con il mondo esterno, venivano certamente spiegati in parte con motivazioni risalenti alla cultura tradizionale locale, ma fondamentalmente erano attribuiti al rifiuto del corpo causato dalla diffusione delle tecnologie digitali.

E uno dei grandi pensatori della prima età del digitale, Manuel Castells (“La nascita della società in rete”, 1996) individuava come conseguenza diretta del networking digitale la nascita di un nuovo spazio operativo virtuale, lo spazio dei flussi, decisamente contrapposto al tradizionale e fisico spazio dei luoghi.

Tuttavia, già all’inizio degli anni Duemila si registra un’inversione di tendenza: Paul Dourish (“Where the Action Is: The Foundations of Embodied Interaction”, 2001) recupera la complessa tradizione di riflessione fenomenologica sul concetto di embodiment per applicarlo alle ricerche di Human Computer Interaction: da quel momento le haptic technologies – la possibilità cioè di registrare il tocco fisico, le vibrazioni, l’orientamento, il posizionamento dei devices nello spazio – diventano fondamentali per definire il ruolo del corpo nei Media Digitali, incrociandosi con le ricerche di Sherry Turkle (“The Inner History of Devices”, 2008) che mettevano in luce l’importanza del rapporto con gli oggetti tecnologici per definire i processi di costruzione dell’identità personale e mediata.

Se vogliamo considerare un esempio più pratico, legato alla vita quotidiana, dobbiamo ricordare anche l’apparizione sul mercato, nel 2006, della console Nintendo Wii che consentiva di “entrare” nei videogiochi con il movimento del corpo, seguita nel 2009 dalla PlayStation Move e nel 2010 dalla Microsoft Kinect.

La Nintendo Wii ha modificato non solo l’approccio partecipativo ai dispositivi tecnologici, ma più in generale ha aperto la strada a tutta una serie di applicazioni mediatiche, artistiche e spettacolari (Chow, “Animation, Embodiment, and Digital Media: Human Experience of Technological Liveliness”, 2013) caratterizzate da percezione sensoriale e azione corporea dentro lo spazio digitale.

Oggi, una visione più matura dei media digitali ci porta ad una considerazione equilibrata del rapporto fisico-digitale, nell’ambito di quello che viene definito come paradigma mobile-locative: la presenza del corpo fisico in un contesto di mobilità e posizionamento entro lo spazio mediatizzato.

I neologismi dell’ibridazione fisico-digitale

A riprova, possiamo citare la diffusione di neologismi concettuali, forme ibride che indicano proprio la sempre più stretta connessione fra mondo fisico e mondo digitale.

Uno di questi neologismi è phygital”, fusione di fisico e digitale, la cui prima attestazione mi risulta essere del 2014 nel manifesto di un Digital Festival tenuto a Torino, e che negli anni successivi ha avuto larga diffusione soprattutto nell’ambito aziendale e del marketing, diventando la parola chiave di incontri, festival, seminari, corsi di formazione.

Esempio classico di phygital è la stampante 3D, in grado di trasformare una sequenza di linee di codice in un oggetto concreto; ma vengono definiti phygital anche gli occhiali di Realtà Aumentata, i dispositivi touchless, i codici QR e tutte le varie interfacce “soft” che si sono affiancate allo schermo, al mouse, alla tastiera.

Un altro neologismo – presente soprattutto nelle riflessioni filosofiche e sociologiche – è “onlife”, termine coniato da Luciano Floridi (“The Onlife Manifesto”, 2015) per mettere in evidenza come il nostro mondo mentale e relazionale ha ormai un’identità ibrida, in cui non si distingue più tra online e offline, in cui il rapporto con le macchine digitalizzate diventa sempre più complesso, contraddittorio e affascinante, e in cui la vita reale (life) si intreccia sempre più con la vita in rete (line).

Va sottolineato il carattere fortemente interdisciplinare di questo approccio teorico, in quanto elaborato inizialmente da studiosi di antropologia, scienze cognitive, informatica, ingegneria, giurisprudenza, neuroscienze, filosofia, scienze politiche, psicologia e sociologia, in un progetto portato avanti dal 2011 al 2013 dalla Directorate General for Communications Networks, Content & Technology della Commissione Europea.

Infine, tra gli elementi che marcano il legame sempre più stretto tra mondo fisico e mondo digitale, va ricordata la cosiddetta Internet delle Cose (IoT), lo scenario in cui la presenza di oggetti fisici digitalizzati – capaci cioè di ricevere input, elaborarli, ed emettere output – trasforma l’ambiente fisico stesso in uno spazio informazionale dove risalta ulteriormente il ruolo dei corpi fisici che in quel contesto si muovono.

Già Bruce Sterling (Shaping Things, 2005) aveva proposto il termine spime, dalla contrazione di space e time, per definire i “metaoggetti” in grado di assumere le più diverse forme ed essere costruiti con i più diversi materiali: dal punto di vista funzionale hanno “coscienza” delle loro coordinate spaziali (space) e del momento temporale in cui stanno operando (time), in quanto sono dotati di:

a) sensori in grado di ricevere dati dall’ambiente in cui si trovano;

b) sistemi di memorizzazione per conservare ed elaborare i dati raccolti;

c) sistemi trasmissivi per scambiare dati con altri spime o con sistemi più complessi.

Piccoli elementi comunicativi destinati a formare la smart dust in cui la nostra vita quotidiana è ormai immersa; è l’età dell’ubiquitous computing, caratterizzata da gadget computazionali sempre più piccoli, più potenti e più specializzati, destinati ad innervarsi nella nostra stessa vita: smartphone, dispositivi GPS, connessioni wireless, domotica diffusa.

È una trasformazione che non è più solo tecnologica, ma richiede un nuovo approccio economico, sociale, politico e culturale in quanto va a toccare problemi di privacy, di mobilità delle persone, di rapporto con i luoghi abitati, di organizzazione domestica, ma anche di costruzione identitaria.

Conclusioni

L’orizzonte attuale della robotica porta un ulteriore contributo alla saldatura fra mondo fisico e mondo digitale.

I robot di oggi sono impensabili se non nella loro identità complessa: da una parte saldamente radicati nella realtà fisica, in quanto oggetti concreti (macchine, involucri, cavi, circuiti, sensori, attivatori); dall’altra sempre più capaci di prestazioni “mentali”, in quanto dispositivi logici in grado di apprendere, valutare, decidere, operare.

In qualche modo rappresentano il punto di saldatura conclusivo di quella separazione tra fisico e digitale che ha caratterizzato ai suoi inizi la società dell’informazione e della comunicazione.

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