Tina M. è una ragazza nata negli USA ed è di origine armena. Ha il cuore spezzato perché nella terra della sua famiglia, il Nagorno Karabakh, a metà settembre l’offensiva dell’Azerbaigian ha portato alla fuga della popolazione armena e allo scioglimento dell’autoproclamata e non ufficialmente riconosciuta Repubblica di Artsakh. Sappiamo da TikTok che la giovane soffre: ha affidato al social network i suoi pensieri agrodolci sulla situazione. E così possiamo ammirare le foto delle rose a casa della nonna di Tina, rose che dice non vedrà mai più così come i tramonti della città di Stepanakert, “perché l’Artsakh non è più nostra”.
Tanti altri ragazzi armeni, nati e residenti all’estero così come entro i confini del loro Paese, nelle ultime settimane stanno facendo lo stesso. TikTok usato come diario di guerra, un luogo virtuale in cui raccontare cosa sta succedendo in quella terra di montagna nel Caucaso meridionale e le proprie sensazioni al riguardo, un megafono per farsi ascoltare dalla comunità internazionale. La quale si crea un’opinione con il materiale a disposizione.
Le vicende nel contesto della guerra raccontate sulla piattaforma cinese, per il loro contenuto e per come vengono presentate, possono assumere il valore di testimonianze nell’ambito della storia dal basso.
Al di là di esempi riconducibili al citizen journalism, come i video degli abitanti del posto che mostrano cosa accade in loco, molti contenuti coniugano elementi tradizionali della narrazione dei tempi di guerra, come la nostalgia per la propria casa, a quelli tipici del social network, come gli effetti sonori e i filtri per le immagini. Ne deriva una rappresentazione del conflitto personale, composta da singoli drammi che impattano inevitabilmente sulla percezione pubblica della vicenda.
Casa, monumenti, genocidio e religione: i temi degli armeni su TikTok
Il contenzioso tra azerbaigiani e armeni per la regione del Nagorno Karabakh ha origini antiche, ma è riemerso con prepotenza nel momento della fine dell’URSS. Si tratta di un’area in cui la maggioranza della popolazione è armena ma che si trova nei confini dell’Azerbaigian. Lì, nel 1992, è nata l’autoproclamata Repubblica di Artsakh al termine della prima guerra ingaggiata con l’Azerbaijan in seguito alla dichiarazione di indipendenza della regione. Dopo la seconda guerra nel 2020, in seguito all’accordo di cessate il fuoco, buona parte dei territori è tornata all’Azerbaigian. Il Paese caucasico a settembre 2023 ha avviato un’operazione militare che ha portato alla dissoluzione della Repubblica di Artsakh.
Alla luce di questi ultimi avvenimenti, creator armeni in patria e all’estero hanno toccato l’argomento seguendo filoni narrativi ricorrenti. In particolare, la nostalgia per casa, inteso spesso come luogo delle origini, le bellezze della regione al centro della vicenda e il ricordo del genocidio del popolo armeno, oltre all’elemento religioso. L’Armenia è stato il primo regno, ordinamento che aveva in passato, ad adottare il cristianesimo come religione, nell’anno 301 d.C.. Oggi non solo il cristianesimo è la religione più diffusa nel Paese, ma la stessa Costituzione pur riconoscendo la libertà di culto e la separazione tra stato e chiesa riconosce la Chiesa apostolica come fondamentale per lo sviluppo culturale del popolo e, del resto, molti studiosi oggi individuano il cristianesimo come importante per l’identità dell’Armenia.
Nei contenuti TikTok questi concetti si ripetono sotto diverse forme, a seconda del gusto, dell’intento e della creatività degli utenti, sfruttando gli strumenti messi a disposizione dalla piattaforma.
La già citata Tina M. in un contenuto racconta che “essere nata in America non cambia il fatto che l’Armenia è casa”. E ancora, toccando nuovamente lo stesso tema: “La nostra casa è persa per sempre, spero che il mondo non si riprenda mai dall’esser rimasto in silenzio. Il sangue della nostra gente è sulle vostre mani”, scrive a corredo di un reel in cui mostra scene di vita quotidiana in Nagorno Karabakh. La “casa” è protagonista anche del video di E., una giovane utente che servendosi di un effetto sonoro in trend che recita “What do you dream about?” ha pubblicato un video con immagini dei luoghi simbolo del territorio e la scritta “Home”.
Le immagini del territorio sono protagoniste anche nei contenuti di Adriana T., un’altra utente di origine armena che vive in Europa. In un video in cui informa il suo pubblico della dissoluzione della Repubblica di Artsakh come entità statale indipendente, spiega: “Artsakh non era una regione contesa. Artsakh era casa nostra e il mondo ci ha lasciati senza casa”. In background la foto del Tatik yev Papik, il monumento simbolo di Stepanakert, principale centro urbano del Nagorno Karabakh, immagine che torna spesso nei video dei giovani armeni che parlano della guerra. “Prego per la mia gente”, scrive la ragazza in un altro post.
Anahit K., americana di origine armena e messicana, racconta in spagnolo che “La mia bisnonna era sopravvissuta al genocidio armeno (con riferimento alle deportazioni di inizio Novecento perpetuate ai danni del popolo armeno da parte dell’Impero Ottomano, ndr), scappò e si nascose mentre uccidevano la sua famiglia”. Anche quello del genocidio è un tema che ricorre nei video di molti creator, con riferimenti sia alla nota vicenda del passato sia definendo quanto sta accadendo ora “secondo genocidio”. Un tema affrontato anche dall’utente Maria J., che sul suo profilo ripropone immagini di cronaca relativamente a quanto accaduto a settembre in Artsakh, pubblicando foto di feriti, abitazioni distrutte e persone in fuga.
La percezione: le differenze con l’impegno per l’Ucraina
Tra i contenuti pubblicati non mancano i confronti con la mobilitazione mondiale, anche tramite i social, nell’ambito della guerra russo-ucraina. Una ragazza armena presente su TikTok con un nome utente composto solo da numeri si mostra in video accusando di indifferenza la comunità internazionale: “Sono veramente sconvolta, sono arrabbiata. Il mondo sta in silenzio, la gente, le persone all’estero tacciono, non vedo nessuno parlare (della situazione, ndr) e questo sinceramente mi fa impazzire”, spiegava il 19 settembre. “Ho visto la gente parlare dell’Ucraina, ma non dell’Armenia. Quanto è strano. Io non smetterò di fare video” aggiungendo che “faccio questo video in inglese così le persone in tutto il mondo lo possono capire, diffondere e capire che l’Armenia non è un aggressore, l’Azerbaigian ci sta attaccando”.
In un altro video, la stessa ragazza dichiara: “L’Artsakh sta venendo bombardata dall’Azerbaigian”, spiegando che “i bambini restano feriti” e si “bombardano le scuole, non cibo, non c’è wifi e internet” e, a proposito dell’isolamento imposto nei mesi precedenti dall’Azerbaigian alla regione, accusa di disinteresse gli utenti esteri: “Non ho visto un singolo creator dall’estero parlare di questo e ciò mi sconvolge, perché ho visto gli stessi creator parlare dell’Ucraina, ma non parlano di cosa sta succedendo a noi”. Il video ha ricevuto più di millesettecento approvazioni, oltre cento condivisioni e più di un centinaio di commenti, molti dei quali di utenti stranieri che ringraziano la creator per aver fatto informazione sulla situazione.
Secondo Giorgio Comai, Senior researcher and data analyst di Osservatorio Balcani Caucaso, “Per una serie di motivi, l’effettivo coinvolgimento della comunità internazionale è stato molto limitato nel contesto del Nagorno Karabakh. Sforzi di mediazione multilaterali, seppur presenti non hanno portato a risultati. Nel contesto attuale, sia durante la guerra del 2020, sia durante gli eventi di queste settimane, da parte di attori quali Unione europea e Stati Uniti vi sono state dichiarazioni, ma effettivamente scarsa capacità di intervenire in modo dirimente”.
Relativamente ai motivi, “vi è certo una dimensione di volontà politica: si tratta di un conflitto che è percepito come periferico. Vi è una dimensione legata alla complessità strutturale del conflitto: si fa pressione per la tutela dei diritti della popolazione armena, ma si riconosce che dovrebbe essere tutelata nel contesto di una sovranità dell’Azerbaigian sulla regione che è incontestata a livello internazionale”. Il problema di fondo per Comai “è che l’Azerbaigian non sembra effettivamente intenzionato ad offrire tutele adeguate, creando delle contraddizioni difficili da gestire. Infine, l’Azerbaigian si trova ora in un contesto geopolitico straordinariamente favorevole: è difficile per l’Occidente fare pressioni effettive sull’Azerbaigian per “costringerlo” ad un comportamento effettivamente in linea con gli obblighi di tutela di minoranze e diritti umani”.
Per il ricercatore la limitata attenzione internazionale “è dovuta alla complessità e apparente marginalità del conflitto, al fatto che non vi è una ovvia dimensione geopolitica (come vi è non solo in Ucraina, ma come vi è stata anche ad esempio nella guerra in Georgia del 2008), e infine, al fatto che non c’è un ruolo immediato evidente per gli stati occidentali. La tragedia umanitaria in corso è di grandi dimensioni a livello regionale, e di portata storica per il popolo armeno, ma ciononostante rimane tema nel complesso marginale per i media internazionali”. Una circostanza ben rappresentata dai creator armeni su TikTok, che accusano apertamente il mondo di ignorare la loro situazione.
La tragedia degli azerbaigiani: “Un doppio standard narrativo”
La percezione di disinteresse nei propri confronti ha riguardato anche la controparte quando, in passato, la contesa per la regione era stata vinta dagli armeni. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta infatti si è svolto il conflitto storicamente noto come “prima guerra del Nagorno Karabakh”, che si concluse con la vittoria degli armeni e la cacciata dei residenti azerbaigiani, che divennero sfollati interni.
Aynur Jafar, avvocata azerbaigiana che oggi vive e lavora negli Stati Uniti, era una bambina e abitava con la famiglia nel distretto di Agdam, la città diventata nota come la Hiroshima del Caucaso. Di Agdam infatti dopo la guerra restarono solo macerie: “Il Nagorno Karabakh è riconosciuto internazionalmente come territorio azerbaigiano. Dall’aprile al novembre 1993, alla luce del conflitto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato quattro risoluzioni che chiedevano il ritiro delle forze militari armene da questi territori azeri. Purtroppo, queste risoluzioni sono rimaste inascoltate – racconta l’avvocata Jafar ad AgendaDigitale.eu -. Nonostante i sinceri sforzi dell’Azerbaigian per risolvere pacificamente la controversia, la comunità internazionale sembrava accontentarsi dello status quo, non riuscendo a esercitare alcuna pressione sostanziale sull’Armenia affinché aderisse alle risoluzioni dell’ONU. Solo nel 2020, in seguito all’inequivocabile dichiarazione del Primo Ministro armeno che il Karabakh è dell’Armenia, punto e basta, e all’evidente mancanza di volontà di compromesso, l’Azerbaigian ha deciso di ricorrere all’intervento militare per reclamare i territori occupati”.
Per quasi tre decenni, ricorda Jafar, “l’approccio dell’Occidente a una risoluzione pacifica è sembrato quasi passivo. Eppure, quando l’Azerbaigian ha agito per ripristinare i suoi territori sovrani, l’Occidente ha risposto con una resistenza e una critica palpabili”. Oggi ritiene che l’Occidente stia adottando un doppio standard nel valutare la tragedia del suo popolo e quella attuale degli armeni, una valutazione resa possibile in larga parte dai media, social network compresi: “La rappresentazione del conflitto e degli eventi recenti sui social media riflette un più ampio pregiudizio occidentale, che spesso si riflette nelle posizioni dei governi e dei media occidentali. Molti in Occidente non conoscono l’intricata storia del conflitto e si affidano in gran parte ai media nazionali che, purtroppo, possono diffondere informazioni distorte o imprecise”.
Nella percezione di Jafar sembra esserci disinteresse per quanto accaduto in quel periodo rispetto a quanto sta succedendo ora agli armeni: “L’apparente indifferenza nei confronti della nostra sofferenza è angosciante. Per la maggior parte della mia vita sono stata una sfollata, desiderosa di tornare a casa. Una casa che, dopo la liberazione, abbiamo scoperto essere stata completamente distrutta. Questo è il vero volto della pulizia etnica, che sembra non essere un grosso problema per molti occidentali – ha commentato -. È profondamente inquietante assistere all’approccio selettivo del mondo occidentale alla giustizia”.
Jafar spiega: “Ricordo vividamente il 1992, quando le forze militari armene occuparono il mio villaggio, Abdal Gulabli, rendendo me e innumerevoli altri azerbaigiani sfollati interni. La dolorosa ironia è che proprio i governi occidentali e le altre istituzioni, così come i media, che oggi lanciano campanelli d’allarme sulla presunta pulizia etnica contro gli armeni, sono rimasti vistosamente in silenzio sul nostro tragico destino di allora. La narrazione che viene presentata oggi è piena di discrepanze”. Jafar racconta che “contrariamente alle circostanze in cui si trovavano gli azerbaigiani come me nel 1992, gli armeni hanno attualmente la possibilità di rimanere nelle loro case. Coloro che scelgono di andarsene possono spesso essere visti partire con le loro auto, il che è in netto contrasto con l’agonizzante partenza che molti azerbaijani hanno dovuto affrontare nel 1992, dove molti sono dovuti fuggire a piedi”. Molte immagini dell’esodo degli armeni dal Nagorno Karabakh sono state diffuse in vari contenuti su TikTok.
Il ruolo del nazionalismo
Le vicende del passato rievocate da Jafar trovano spazio su TikTok nei post dei creator azerbaigiani. Molti intervengono sotto ai contenuti degli utenti armeni, spesso i toni si inaspriscono e, da una parte e dall’altra, non è insolito notare la disattivazione dei commenti. I contenuti di entrambe le parti tuttavia sono spesso accomunate da un’impronta nazionalista. Nei video degli armeni come spiegato si notano spesso vedute di Stepanakert, dei monumenti e degli edifici religiosi, ma anche foto che ritraggono momenti della precedente guerra vinta dall’Armenia negli anni Novanta. I video degli azerbaigiani puntano invece sul tema della riconquista, del ricordo, del ritorno alla terra contesa, il tutto corredato dalle bandiere del proprio Paese e da immagini di soldati in festa.
Il nazionalismo del resto “trova grande spazio nei media e nella retorica ufficiale dei due Paesi – racconta Comai -. Evidentemente, in questa fase è più facile notare il nazionalismo trionfante della parte azerbaigiana; vi sono persone che esprimono posizioni pacifiste o conciliatorie, ma si tratta di posizioni tipicamente marginalizzate. È giusto rilevare come in passato, anche da parte armena fosse difficile trovare effettiva solidarietà nei confronti delle centinaia di migliaia di sfollati azeri che avevano perso le proprie case durante la guerra degli anni Novanta, da cui l’Azerbaigian era uscito sconfitto”.
Su questo fronte, spiega Comai che “è stata anche la parte più nazionalista dello spazio politico armeno che ha reso difficile creare lo spazio per compromessi nei decenni scorsi. Nel complesso, la questione del Nagorno Karabakh è parte della più ampia rivalità tra Armenia e Azerbaigian. La superiorità militare dell’Azerbaigian ha determinato una risoluzione della contesa territoriale in questa fase, ma per superare questa rivalità vi è bisogno di un percorso molto più lungo, di cui ancora non si vede l’inizio”.
L’impatto debole dei fenomeni propagandistici
Nello scenario generale relativo alla narrazione della guerra in Nagorno Karabakh sembra che la propaganda non abbia, al momento, un impatto importante nell’indirizzare l’opinione pubblica. Comai sottolinea che “le narrative proposte dai relativi governi e media sono evidentemente molto differenti. Non mi sembra però che nell’attuale fase sia la dimensione propagandistica a dare forma alla percezioni degli eventi. Al di là degli sforzi di propaganda, il contorno degli eventi di questi giorni sono chiari sia localmente che a livello internazionale: l’Azerbaigian utilizza la sua posizione di forza per prendere il pieno controllo del Nagorno Karabakh; la popolazione locale sta vivendo una situazione drammatica dal punto di vista umanitario”.
Anche online, dunque pure sui social, da parte dell’Azerbaigian “è più comune trovare celebrazione per quest’azione militarmente di successo, che non sforzi per raccontare quanto l’Azerbaigian sia intenzionato a tutelare la popolazione locale, né di convincere altri che davvero si è trattato di un’operazione anti-terroristica locale iniziata in seguito a una provocazione armena, come l’attacco di questi giorni era stato inizialmente definito da Baku: è chiaro a tutti e non si cerca neppure troppo di nascondere che si è trattato di un attacco su ampia scala pianificato con lo scopo di dissolvere ciò che rimaneva del Nagorno Karabakh”.
Da parte armena, invece “si evidenzia la tragicità della situazione: si tratta di una tragicità innegabile e di preoccupazioni comprensibili, anche in questo caso difficilmente categorizzabili come propaganda. Più che di fenomeni propagandistici, emergono davvero i due lati di una guerra: da una parte, azerbaigiani che celebrano un momento percepito come una vittoria. Dall’altra, gli armeni in lutto per la tragedia in corso”.
Conclusione
I contenuti dei creator armeni su TikTok offrono la possibilità di documentare le idee e le emozioni di questi utenti riguardo alle vicende belliche del Nagorno Karabakh, fornendo materiale di microstoria utile per analizzare gli aspetti sociali e culturali del conflitto, in particolare gli impatti sui giovani. Sono soprattutto i ragazzi infatti a produrre tali contenuti sulla piattaforma cinese, con l’intento da un lato di sfogarsi, dall’altro di attrarre gli sguardi internazionali sulla vicenda.
L’evoluzione del conflitto e la sorte degli sfollati armeni sarà ovviamente da definire in futuro. Jafar in base alla sua esperienza passata spera “che il governo azerbaigiano mantenga le sue promesse, assicurando una qualità di vita decente ai residenti armeni del Karabakh, che hanno il diritto di vivere nelle loro case. Spero anche che gli armeni che se ne sono andati prendano in considerazione la possibilità di accettare la cittadinanza azera e di tornare alle loro case. Avendo sperimentato le difficoltà di essere uno sfollato interno a causa della guerra iniziata dall’Armenia e della successiva occupazione, non augurerei una vita simile a nessuno, compresi gli armeni. I bambini armeni del Karabakh, per i quali la regione è l’unica casa conosciuta, meritano giustamente un’esistenza dignitosa nella loro casa”.
L’augurio dell’avvocata è che un giorno l’Azerbaigian e l’Armenia “firmino trattati di pace, riconoscendo reciprocamente i propri confini. Entrambe le nazioni sono state profondamente colpite da questo conflitto, mentre altri Paesi, che guardano all’importanza strategica della regione del Caucaso meridionale, ne hanno tratto beneficio. È giunto il momento per queste due nazioni di abbracciare la pace. Sebbene le cicatrici del passato rendano difficile dimenticare, l’atto del perdono è essenziale e a portata di mano”.
Intanto, tra gli effetti in trend usati dai creator armeni, uno tratto da “Charlie”, film di animazione di Don Bluth, rappresenta tutta l’amarezza di dover abbandonare casa propria ma senza perdere la speranza del ritorno: “You know – dice la voce in sottofondo ai video che mostrano il Nagorno Karabakh -, goodbyes aren’t forever“.