Una soluzione “tecnica” al dilagare di disinformazione e fake news esiste già: è lo standard RSS. Perché allora lo conoscono veramente in pochi e in molti lo hanno dato per defunto?
Proviamo a spiegarne le ragioni, proprio in virtù del fatto che il problema della qualità e della disponibilità delle notizie diffuse nei canali informatici, che riemerge periodicamente come cruciale, è una questione non solo di sapere, ma anche di potere. Sulla base delle notizie vengono prese le decisioni, vengono eletti i parlamenti, si crea un’opinione pubblica che può indurre trasformazioni sociali anche profonde. Si tratta di un problema certamente difficile e profondo (in altri secoli esso era semplicemente mascherato dal fatto che la stragrande maggioranza delle persone non ricevevano informazioni significative, o non avevano responsabilità politiche neppure indirette). Ma c’è un aspetto cruciale sul quale mi pare che la soluzione sia più a portata di mano di quanto comunemente si pensi.
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Fake news, se le cure sono peggiori della malattia
Diciamo subito che l’aspetto cruciale del quale tra poco parleremo non è l’unico. C’è per esempio quello della veridicità delle informazioni: quel grosso problema che oggi viene posto sotto l’etichetta d’ignominia di fake news. Diciamo subito che è un problema disperato, difficilissimo da affrontare in maniera diretta, se non altro perché le possibili cure appaiono peggiori della malattia. Una soluzione perfetta fu sì immaginata, ma come ahimè una parodia distopica: era il «ministero della verità» descritto da George Orwell. L’appello alla «scienza» che in casi critici viene spesso avanzato ha qualcosa di deliziosamente ingenuo: se c’è qualcosa a cui la scienza moderna (e tanto più contemporanea) ha definitivamente rinunciato è proprio la pretesa di avere una verità, sostituita da una più ragionevole affermazione di ipotesi ben fondate dai casi che le hanno corroborate. Ipotesi insomma più che sufficienti per decidere in mancanza di meglio il proprio comportamento, ma sproporzionate rispetto alla presunzione di bollare come falsa un’idea alternativa.
Altro problema raramente citato: quella della contestualizzazione delle notizie, della valutazione sulla loro rilevanza. Non è certo un caso che quando si discute su un progetto di legge i canali di comunicazione che intendono sostenere esso, o la parte politica che lo promuove, pullulino improvvisamente di notizie che intendono mostrare come si tratti di un’urgenza assoluta. Se il progetto, per un motivo o per l’altro, si eclissa dall’agenda politica, le corrispondenti notizie scompaiono pure d’incanto. Questo pure accade se la legge è approvata e (come i più sobri avevano previsto) non sortisce alcun effetto. Per carità di patria risparmio gli esempi. Qui la soluzione, oltre che nell’etica giornalistica, forse consiste (come recentemente è stato autorevolmente osservato) solo nell’insegnare sui banchi di scuola qualche rudimento di statistica.
Cosa c’entra la rete
La rete c’entra qualcosa? In entrambi i casi è in realtà di enorme aiuto. Neppure in essa vi è alcun criterio di verità, ovviamente, ma si trova una disponibilità enorme di fonti che possono essere confrontate e lette attentamente, gli strumenti sempre migliori di traduzione automatica permettono perfino di farsi un’idea di analisi scritte in lingue normalmente inaccessibili. Riguardo al secondo problema, fonti statistiche affidabili sono a portata di clic, come si usa dire.
Ma c’è un altro problema cruciale (a questo volevamo arrivare) sul quale parrebbe che la rete sia invece irrimediabilmente colpevole: la selezione e la diffusione delle informazioni. Chi è che controlla quali informazioni circolano nei canali sociali o nei motori di ricerca? Non sono essi la fonte oggi “principalissima” di diffusione delle notizie e delle analisi? Il caso è uno di quelli in cui pare trovarsi in un vicolo cieco. Da una parte, pare improprio che il primo deficiente (come Umberto Eco protestava nei suoi ultimi anni) abbia casualmente diritto ad un uditorio che il miglior studioso e ricercatore neppure si sogna: e questo appare particolarmente grave nel caso delle notizie. Dall’altra, immaginare che il canale di diffusione eserciti un controllo sui contenuti diffusi (ciò che, beninteso, sta di fatto avvenendo) presenta uno scenario ancor più inquietante, in cui un uditorio praticamente universale è a disposizione degli interessi di un’impresa privata, che per di più non viene obbligata a rendere pubblici i criteri in base a cui decide la presenza e priorità dei contenuti. Dall’altra ancora, l’ipotesi teoricamente migliore, e cioè che eventuali criteri siano stabiliti dallo Stato (e quindi in ultima analisi sulla base di un controllo democratico), ispira comprensibile ritrosia, vista da una parte la goffaggine sovente mostrata dal legislatore nel campo delle nuove tecnologie, dall’altra la possibilità di abusi diversi ma non affatto minori rispetto a quelli possibili ad un’azienda multinazionale privata.
Mettendo tra parentesi la questione generale della gestione dei canali sociali e dei motori di ricerca, qui il problema specifico sembra però consistere nel fatto che le notizie (non opinioni o chiacchiere o commenti) hanno il loro posto migliore altrove. Le notizie hanno il loro luogo originario in una miriade di siti disseminati nell’intera rete. Ovviamente non tutte le sedi sono affidabili e corrette, ma già la possibilità di osservarle, di selezionarle, di scegliere tra di esse le notizie che interessano, di scartare gradualmente le fonti che si mostrano inaffidabili o ripetitive, è un’arma formidabile nelle mani di un utente della rete. Ma come sarebbe realistico fare tutto questo?
E se la soluzione esistesse già?
Immaginiamo una soluzione tecnica. Bisognerebbe creare un protocollo, rigorosamente aperto e libero da copyright, il più semplice possibile, che consenta ad ogni fonte di pubblicare i suoi contenuti in modo parallelo rispetto al suo sito: ogni nuovo contenuto sarebbe così immediatamente accessibile secondo lo stesso standard, che comunicherebbe come minimo fonte, autore, data di pubblicazione, e ovviamente testo. Dall’altra parte, dato che si tratterebbe di uno standard aperto (così come lo è l’HTML), chiunque potrebbe scrivere programmi di lettura nei quali è possibile selezionare quali fonti si desiderano, leggere i loro contenuti in tempo reale senza bisogno di alcuna autenticazione, e poi eventualmente raggrupparli tematicamente, porre dei filtri in maniera che siano integrate solo quelli che per esempio contengono o non contengono alcune parole chiave, o adottare qualsiasi altra forma di organizzazione. Dato che abbiamo ipotizzato un protocollo semplicissimo, programmi di questo tipo potrebbero essere numerosi e venire incontro ad ogni preferenza e ad ogni grado di sofisticazione voluto. Praticamente, ogni utente sarebbe in grado di costruirsi il suo giornale, che combina tutte e solo le notizie delle fonti che lui giudica rilevanti, e che nessuno potrebbe vincolare in nessun modo. Questo andrebbe perfettamente d’accordo con lo spirito decentralizzato non solo della rete, ma di Internet stesso. Poi ovviamente bisognerebbe convincere le fonti di notizie ad usare effettivamente questo standard, e possibilmente ideare anche un ulteriore microstandard che permetta di scoprire automaticamente se un sito lo usa o meno. Come bonus, un ulteriore microstandard per trasferire il profilo del proprio giornale personale da un programma di lettura all’altro, in modo da poter cambiare strumento quando si vuole portandosi dietro il proprio profilo informativo. Se si facesse tutto questo, ogni utente della rete avrebbe a disposizione uno mezzo potentissimo.
L’idea è geniale. Peccato che essa non mi farà diventare famoso, però, perché è già stata inventata e realizzata più di vent’anni fa: si chiama RSS (Really Simple Syndication) o, in una sua reincarnazione sostanzialmente equivalente e interscambiabile, Atom. I programmi per leggere i «flussi» RSS si chiamano in genere «aggregatori» (o anche «RSS readers», o «newsreaders», o qualcosa del genere). E riguardo all’ultimo problema, quello di convincere le fonti di notizie ad usare questo standard? Già fatto: un numero enorme lo usa, e così anche la stragrande maggioranza dei blog e perfino molti forum. Ovviamente, anche Agendadigitale lo usa. Più che per convinzione, probabilmente molti siti lo fanno solo perché la funzione è prevista come standard da molte piattaforme. Quanto agli aggregatori, grazie alla semplicità di scrittura informatica ne esiste un numero spropositato: una rapida ricerca sul Play Store di Android me ne ha fatti contare più di cento, sul deposito alternativo F-Droid sono molti di meno ma pur sempre una quindicina, tutti open source. Molti aggregatori sono realizzati sotto forma di estensione per i navigatori: per Firefox ne ho contati circa una quarantina diversi (l’ultima versione di Vivaldi ne integra già uno). Meno numerosi ma ottimi anche alcuni aggregatori per desktop. Diversi aggregatori online permettono poi di avere la propria rivista personale sincronizzata su tutti i dispositivi. Fin troppa scelta!
RSS, uno standard pressoché sconosciuto
Che bisogno allora di starne qui a parlare? Il motivo è che questo standard, seppure onnipresente dietro le quinte, facilissimo da usare, e, come abbiamo visto, decisivo per un uso libero e critico delle informazioni, è molto meno conosciuto di quanto meriti. Me ne accorgo quando vedo che molti mi chiedono: ma come fai ad essere così aggiornato su tutte le cose che ti interessano? Semplice: RSS. In effetti, cercando nella rete si trovano perfino molti articoli degli ultimi anni che annunciano la «morte di RSS». Ma, se questo standard è usato da milioni di siti (tra cui quelli che periodicamente parlano della sua morte) e non c’è nessun cenno di regresso, vale la replica di Mark Twain, che alla lettura del suo necrologio si premurò di avvertire: «Le notizie della mia morte sono grandemente esagerate».
Conviene però vigilare. A partire dal 2005 uno dei maggiori promotori dello standard RSS fu Google, con il suo ottimo aggregatore Google Reader. Benché molto apprezzato, nel 2013 venne dismesso con il pretesto inverosimile di un suo scarso uso. Il motivo si seppe solo molti anni dopo, quando un dipendente rivelò che la squadra di sviluppo e manutenzione venne smantellata per ridirigere gli sforzi su Google+ (questo sì rivelatosi poi un fallimento, e chiuso a sua volta!). Evidentemente ciò che permise questa decisione fu il fatto che da uno standard aperto e libero è ben difficile guadagnare. Qualche mese fa sempre Google ha riscritto le sue norme per il Play Store, introducendo vincoli per tutti i programmi che si presentano come dedicati alle News: da adesso possono farlo solo se offrono per ogni notizia informazioni di contatto valide e verificabili, e hanno un sito dedicato con informazioni altrettanto valide e verificabili. È ovvio che il protocollo RSS, essendo completamente decentralizzato, funziona diversamente, e la conseguenza di queste nuove norme è stata che alcuni dei migliori aggregatori RSS, solo perché (lecitamente) portavano nel titolo la parola News, sono stati bloccati sul Play Store.
Conclusioni
È l’effetto di norme distrattamente mal formulate? Dato che chi le ha scritte è detentore di uno dei maggiori poteri nella diffusione delle notizie su Internet, c’è perlomeno da dubitarne. Non bisogna sperare che chi ha (leciti) interessi economici voglia favorire un bene gratuito concorrente, non bisogna sperare che chi guadagna (forse un po’ meno lecitamente) dall’inserimento delle persone in un ecosistema tecnologico chiuso voglia favorire uno strumento libero basato sull’interoperabilità.
I problemi che si aprono sono evidentemente difficili. Ma una cosa semplice è alla portata di tutti: se non lo abbiamo ancora fatto, istallare subito un buon aggregatore RSS (meglio se scegliendolo tra i tanti open source), e goderci il lusso di poter leggere nel minuto stesso in cui viene pubblicato ogni articolo delle fonti serie e attendibili che ci interessano. Inclusa agendadigitale.eu, ovviamente.