Possiamo chiedere ai social network di difendere la democrazia: entro certi limiti ciò è possibile e sensato, ma chiedere ai social network e alle piattaforme di ritirarsi dal mercato del nemico, credendo che in tal modo il “popolo della rete” apra gli occhi e prenda coscienza dell’oppressore, non è una visione fin troppo visione ingenua?
Guerra in Ucraina, Big tech Usa in prima fila nel conflitto ibrido: strategie e incognite
Informazione/disinformazione
“Una alluvione di video su Facebook, Telegram, TikTok e Twitter ha indebolito la propaganda del Cremlino e spinto il mondo ad affiancare l’Ucraina nel difendere la sua democrazia dal colosso militare” scrive il Washington Post sottolineando l’importanza della guerra della comunicazione combattuta sulla rete ed il ruolo attivo dell’informazione diffusa dagli ucraini per cercare vie di fuga, documentare la brutalità dell’attacco, mobilitare la resistenza. “Si è detto che la Russia era la volpe più astuta su internet…ma ora l’Ucraina ha cominciato a superare la Russia sul suo terreno”[1]
La Russia è considerata, infatti, una protagonista della disinformazione su internet, condotta spesso da agenzie nascoste, ed è dotata di un supporto governativo totale da parte dei media di stato con una propaganda che prescinde da ogni dato di realtà per indebolire i nemici.
La risposta dell’Ucraina su questo terreno, secondo il New York Times, ha aperto una dimensione nuova della guerra: “Quando i carri armati cominciano a muoversi, è il momento in cui devono intervenire le Nazioni Unite, i capi delle banche centrali e gli amministratori delegati di Google, Facebook, Apple e Microsoft”[2].
Naturalmente, non sarà quella cyber la dimensione risolutiva, anche se quella dimensione sopravviverà alla conclusione della guerra e lascerà tracce, insegnamenti, memorie, cronache. Sarà utile a ricostruire la vicenda e forse anche a determinare le responsabilità di delitti contro l’umanità commessi sul campo.
Questa lettura della guerra Ucraina ha, tuttavia, un sapore fortemente californiano sospinta da un vento che spira dalla Silicon Valley: vi è del vero in quanto dicono i grandi media democratici, ma sul terreno la storia è ben più articolata, come vediamo dai reportage. La visione “progressiva” della rete, come strumento di emancipazione e di libertà, cara ai liberal americani, è una visione semplificata. Ed è diversa anche la vicenda cyber: anche qui è tutto vero quello che dicono New York Times e Washington Post, ma lo spaccato di realtà aperto al nostro sguardo disabituato alla guerra così vicina è fatto anche di grandi impedimenti, di violazioni, di serrate e di oggettive difficoltà che la rete incontra nel raggiungere l’opinione pubblica russa più ampia, come vedremo nelle conclusioni di questa nota.
La reazione delle Big Tech
Le Big Tech si trovano in una situazione di richieste contrastanti che provengono dalle diverse parti in campo.
Venerdì 25 febbraio, il giorno successivo all’avvio dell’attacco russo, la leadership ucraina chiede ad Apple, Meta e Google di tagliare i servizi in Russia. A seguito di questa richiesta Google e Meta bloccano la pubblicità dei media di stato russi sulle piattaforme social. Il Ceo di Google discute anche con i rappresentanti dell’Unione europea sui modi per contrastare la disinformazione russa.
Telegram, app utilizzata anche in Russia e in Ucraina per la messaggistica, minaccia di chiudere i canali connessi alla guerra a causa della disinformazione russa.
Twitter, la settimana successiva, annuncia che segnalerà i link legati ai siti dei media di stato russi per mettere in guardia il lettore, mentre Meta e YouTube intendono ridurre in ambito europeo l’accesso a quei siti per ridurre lo spazio della propaganda russa.
Da un lato, gli ucraini utilizzano i social network e chiedono di impedirne l’uso ai russi.
Dall’altro, l’Unione europea provvede a limitare l’accesso ai media ufficiali russi sui canali di comunicazione occidentali.
Infine, anche l’amministrazione americana sostiene la richiesta ucraina di bloccare l’accesso ai social network da parte della disinformazione russa e invita a sospendere i servizi in Russia, in analogia con quanto avviene per altri settori, dalle linee aeree, ai semiconduttori, ai servizi finanziari.
Il dilemma delle Big Tech
Come sottolinea il New York Times, queste aziende si trovano di fronte a un dilemma. La scelta di aderire alle sanzioni, chiudendo i servizi o ritirandoli dal paese nemico, può essere utile a dimostrare che i social network hanno a cuore la democrazia, come accadde con le primavere arabe e può aiutare a rimuovere la memoria delle accuse di favorire la diffusione di fake news, come accadde in diverse occasioni durante la presidenza Trump. L’altra opzione è di continuare ad operare in Russia, dando voce alle posizioni indipendenti diverse da quelle ufficiali, assumendo un ruolo profilato, ma importante nel momento in cui vengono meno le altre fonti di informazione indipendenti.
La risposta russa
Il problema, tuttavia, sembra ormai risolto dalle decisioni russe.
Il regolatore russo delle comunicazioni, Roskomnadzor, ha bloccato Facebook il giorno 5 marzo, motivandolo con le restrizioni che Meta aveva adottato contro i media di stato impedendo ai media di stato di acquistare pubblicità sulle piattaforme, e così hanno fatto anche Google e Snap. Questo è avvenuto dopo che le autorità russe avevano rallentato le connessioni per impedire l’accesso ai social network occidentali, da Twitter a Facebook, da Google a Telegram, a cui avevano richiesto di eliminare le segnalazioni di inattendibilità che le piattaforme applicavano alle notizie false della propaganda russa[3].
Putin chiude i rubinetti dell’informazione indipendente
Il Cremlino, allora, ha deciso di imporre l’isolamento ai propri cittadini rispetto dalle fonti di informazione indipendenti, che non siano quelle ufficiali, ha dapprima rallentato l’accesso a Facebook, a Twitter, a Google e ha proibito ai giornalisti la citazione di fonti diverse da quelle ufficiali e l’uso di parole chiare come “invasione” e “guerra”. Poi il 4 marzo Putin ha firmato un decreto che sanziona con 15 anni di reclusione la diffusione di notizie false; come ha detto il presidente della Camera bassa del Parlamento Russo “da domani questa legge punirà in modo molto duro coloro che mentono o discreditano le nostre forze armate”[4].
La legge liberticida ha costretto emittenti di stato come BBC, RAI, e quelle tedesche ARD e ZDF Canadian Broadcasting Company, e compagnie private come Bloomberg News a rinunciare alla copertura dalla Russia.
“La misura si rende necessaria al fine di tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto e la massima libertà nell’informazione relativa al Paese. Le notizie su quanto accade nella Federazione Russa verranno per il momento fornite sulla base di una pluralità di fonti da giornalisti dell’Azienda in servizio in Paesi vicini e nelle redazioni centrali in Italia” ha annunciato la RAI.
Ma la BBC ha fatto un passo in più, ha risuscitato le trasmissioni in onda corta (quelle a lunghissima distanza) per raggiungere gli ascoltatori russi. Ha detto il direttore generale di BBC: “Spesso si dice che la verità è la prima vittima della guerra. In un momento in cui la disinformazione e la propaganda dilagano, c’è bisogno di una chiara informazione fattuale e indipendente di cui la popolazione possa fidarsi…altri milioni di russi stanno aggiungendosi all’audience della BBC”[5].
La Russia ha risposto rallentando il funzionamento dei siti web dei media e dei social media: “Presto, milioni di cittadini russi si troveranno tagliati fuori da una informazione attendibile, spogliati delle loro connessioni quotidiane con famiglie e amici e imbavagliati nel comunicare il loro pensiero” ha affermato Twitter.
Il ruolo della pubblicità nel conflitto
La pubblicità dimostra, come spesso accade, di avere il polso del pubblico e di essere innovativa nell’interpretarlo. WPP, il colosso britannico della pubblicità, ha chiuso le sue attività in Russia, mettendo in sicurezza i propri dipendenti (1.400) e supportando quelli che ha in Ucraina (200), e segue molte altre multinazionali che hanno sospeso le attività in Russia: Apple, Ford, Dell, Accenture, Mc Kinsey, per citarne alcune. Intanto, Interpublic Group, Dentsu e altre compagnie di pubblicità stanno pianificando il ritiro. WPP sta lavorando con l’agenzia per i rifugiati delle nazioni Unite, “per aiutare le persone forzate a lasciare le loro case i cerca di salvezza in altre parti dell’Ucraina o delle nazioni vicine”[6].
Infine, mentre i social network occidentali tentavano di escludere le pubblicità dei media di stato russi, uno dei maggiori strateghi della pubblicità britannici, Rob Blackie, ha deciso di fornire informazioni imparziali sull’Ucraina. La sua soluzione per evitare la censura russa è di utilizzare la pubblicità digitale: con un gruppo di volontari compra con tecnologie automatiche pubblicità che veicola eludendo il controllo della censura russa: “La pubblicità online è una grande opportunità perché è difficile fermarla”[7].
La società stratificata
Assistiamo ad un attivismo in rete che sembra avere un effetto significativo nel sostenere il coraggio e le ragioni dell’Ucraina. Ma non si può attribuire a Big Tech e alla rete un ruolo eccessivo nella guerra complessiva: informazione e disinformazione, da sempre armi collaterali delle guerre combattute nella storia, sono certamente al centro dell’attivismo sulla rete intorno all’aggressione russa dell’Ucraina. Non ci si può illudere, tuttavia, che le piattaforme social possano fare più di questo: alimentare sia l’informazione sia la disinformazione, con il prevalere dell’una sull’altra a seconda dei momenti e delle aree.
In Russia la disinformazione promossa dal governo e dai suoi media può essere contrastata dall’uso intelligente della rete e dei social network che ne fanno gli ucraini e i loro sostenitori. Ma questa possibilità è limitata alle grandi città, dove i social network e le informazioni dei media occidentali in qualche modo arrivano. Nel cuore della Russia periferica, come sappiamo anche dalle esperienze occidentali, la possibilità e la capacità di accedere e leggere fonti diverse con mente critica, sono ridotte.
L’uso dei social in Russia +++BOX+++
L’uso dei social network in Russia ci fornisce un quadro del ruolo dei social network internazionali e di quelli locali. Gli utenti di social media sono circa il 50% della popolazione (82% negli Stati Uniti), ma i russi trascorrono mediamente due ore e 16’ al giorno, ossia 12’ in più rispetto agli americani[8].
La piattaforma più popolare è YouTube con l’87% di utenti di internet che accede, seguita da Instagram (59%), VKontacte (VK) di origine russa, con il 56%, e OdnoKlassniki (OK) con il 55%. Gli altri social network americani sono più lontani: Facebook con il 46% e Twitter con una quota inferiore alla metà di quella di Facebook[9]. Telegram ha una audience piccola ma in crescita, da quando nel 2018 il governo ha ristretto l’accesso alla sua messaggistica chiedendo che i dati di coloro che accedono vengano forniti al Servizio di Sicurezza della Federazione Russa. La diatriba legale tra Telegram e le autorità ha portata acqua al mulino di questa piattaforma in termini di riconoscibilità e audience.
Ma le piattaforme internazionali sono più popolari a Mosca e nelle altre aree urbane: nel 2017 la metà degli utenti di Facebook viveva a Mosca. Le piattaforme russe, invece, sono più diffuse nelle aree rurali e nelle piccole città. Non dobbiamo pensare che le manifestazioni contro Putin , che vediamo nelle piazze di S. Pietroburgo e Mosca siano altrettanto diffuse in tutto il corpo enorme della Russia.
Conclusioni
Il quadro delineatoci restituisce non una società omogenea che accede alla rete, ma più strati, diverse articolazioni di una stessa società. Queste diverse società che si presentano non restituiscono una nitida immagine “progressiva” del ruolo della rete, come viene proposto dai media e dal pensiero “liberal” americano.
Purtroppo, l’esistenza di queste stratificazioni restituisce alle autorità di ogni stato autoritario uno spazio di intervento, di censura, di contrapposizione artificialmente cresciuta o reale da sfruttare.
La rete diviene allora un campo di battaglia, non un’arma per la vittoria delle forze progressiste e della democrazia, anche se non ci può essere democrazia senza rete, come non c’è stata democrazia senza carta stampata.
La rete non è di per sé né progressiva né regressiva: il risultato dipende da come la usiamo e dalle politiche, in particolare dell’istruzione, al cui interno essa e i suoi straordinari strumenti sono inseriti.
Note
- Drew Harwell, Rachel Lerman, How Ukrainians have used social media to humiliate the Russians and rally the world, The Washington Post, March 1, 2022. ↑
- Shira Ovide, Should Tech Stay or Go in Russia? The New York Times, March 2, 2022. ↑
- Elizabeth Culliford, Russia blocks Facebook, accusing it of restricting access to Russian media, Reuters, March 5, 2022. ↑
- Reuters, Italian, German public broadcasters suspend reporting in Russia over new media law, March 5, 2022. ↑
- Sian Cain, BBC website blocked in Russia as shortwave radio brought back to cover Ukraine war, The Guardian, March 4, 2022. ↑
- Megan Graham, Ad Giant WPP Ceasing Operations in Russia, The Wall Street Journal, March 4, 2022. ↑
- Ivi. ↑
- Nico Prins, An Analysis of the Russian Social Media Landscape in 2019, Linkfluence. ↑
- Deloitte, Media Consumption in Russia 2020, CIS reasearch Center Moskow, October 2020. Il dato su Twitter è tratto da Nico Prins, cit. ↑