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Salute mentale, i social fanno bene o male? Gli ultimi studi

Molti studi hanno indagato gli effetti (positivi e dannosi) prodotti dai social media per la salute mentale e il benessere dei giovani. Come sempre accade, però, i social media non dovrebbero essere considerati a priori un bene o un male: la loro funzione è neutra e adattabile ai concreti utilizzi cui sono destinati

Pubblicato il 15 Set 2022

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

social

Sembra passata un’eternità da quando le piattaforme sociali hanno fatto il loro ingresso nel mondo digitale, inaugurando l’era della condivisione come emblema della Rete globale, portatrice positiva di una rivoluzione dalle straordinarie potenzialità divulgative in grado di propagare un’elevata quantità di informazioni nello spazio virtuale.

Tuttavia, contrariamente alle iniziali aspettative orientate a tratteggiare l’esistenza di un cyber-villaggio globale interconnesso, prospero e sicuro, con il passare degli anni, in tempi più recenti, probabilmente di pari passi con una progressiva regressione involutiva della complessiva società, i benefici percepiti dallo sviluppo pervasivo di Internet hanno ceduto il passo al dilagante lato oscuro della Rete, con effetti collaterali generalizzati che hanno determinato una profonda metamorfosi negativa dei social media.

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Quanto siamo social e quanti danni fa

Secondo l’ultima edizione del Report Digital 2022 (a cura di We Are Social), gli utenti dei social media hanno raggiunto la soglia di 4,62 miliardi (corrispondente a circa il 58,4% della popolazione mondiale) a fronte dei soli 1,48 miliardi di utenti rilevati nel 2012, con una media annuale del 12% in costante crescita nel tempo sino a registrare un incremento di oltre il 10% nel solo ultimo anno monitorato rispetto al 2021 (+424 milioni di persone).

Andando oltre la mera apparenza dei dati statistici, sino a scoprire che online “non tutto è oro quel che luccica”, sono emerse una serie di preoccupanti criticità legate all’uso delle piattaforme sociali al punto da giustificare una riflessione seria e particolareggiata sul loro effettivo impatto nella vita delle persone.

Mental Health and Social Media

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In questo senso, ad esempio, hanno suscitato notevole clamore – e, nell’ambito di un corposo ciclo di audizioni istituzionali, sono state persino oggetto di una formale testimonianza resa davanti ad una sottocommissione del Senato USAle recenti rivelazione di un ex dipendente di Facebook “su ciò che ha visto mentre lavorava” nel quartier generale di Zuckerberg al punto da abbandonare il proprio incarico professionale dopo aver constatato, anche sulla base di migliaia di documenti riservati consultati, l’esistenza – ritualmente smentita dalla “big-tech” – di rilevanti danni provocati dai prodotti sviluppati dal colosso californiano sulla salute mentale degli adolescenti, manifestando tra l’altro disturbi ansiosi e pensieri suicidi, come consapevole scelta aziendale (a detta dell’informatrice) volta a sacrificare la sicurezza degli utenti sull’altare dei profitti prodotti dal famelico business online. Sarebbe stata addirittura a lungo tenuta segreta una ricerca interna in grado di confermare l’impatto amplificativo dei social media sul peggioramento degli stati d’animo dei giovani e sui problemi di immagine corporea per le ragazze adolescenti, causando pertanto depressione, bassa autostima e disturbi alimentari.

I social e il problema del contagio emotivo

Al di là del singolo episodio in sé considerato, nella prassi stanno proliferando con sempre maggiore frequenza studi finalizzati a elaborare metriche metodologiche in grado di analizzare le variazioni che l’uso dei social media provoca sugli umori e sulle emozioni, anche alla luce del dilagante fenomeno emulativo di atti di autolesionismo che ha persino portato a casi di suicidio.

In altre parole, sulla base di quanto affermato da un recente articolo a cura del MIT – Technology Review – rispetto all’utilizzo generalizzato e pervasivo dei social media esiste un rilevante problema “strutturale” alimentato dal cosiddetto “contagio emotivo” che tali piattaforme generano sull’umore degli utenti, mutevole “a seconda della versione del prodotto cui sono esposti”, al fine di massimizzare il tempo trascorso online e catalizzare un costante coinvolgimento interattivo anche a costo di creare dipendenza psicologica, come allarmante criticità non superabile ricorrendo alla semplice moderazione dei contenuti (per quanto il relativo sistema di “filtro” delle informazioni possa risultare sofisticato e perfezionato in termini di sviluppo algoritmico).

Gli effetti tossici dei social sulla salute mentale dei giovani

Pur senza disconoscersi del tutto i benefici comunque esistenti con l’avvento di Internet e dei social media, prende forma “l’era digitale della vulnerabilità” – secondo il termine coniato da una ricerca di settore – per descrivere gli effetti “tossici” che le piattaforme sociali provocano sulla salute mentale dei giovani, stimolando il rilascio di dopamina che funge, come  “una sostanza chimica del benessere”, da neurotrasmettitore per creare una dipendenza continua (addirittura paragonabile a quella provocata da alcol e sigarette). Ne consegue che, oltre all’incremento esponenziale dei comuni sintomi di ansia e depressione, talvolta si manifestano anche più violenti atteggiamenti di aggressività o offensività nei contenuti condivisi online, ulteriormente inficiati da una percezione distopica di immagini modificate dai numerosi filtri disponibili in grado di alterare la realtà rispetto alla fittizia apparenza riflessa in rete. Il desiderio di un’attenzione continua, come “ricompensa sociale” di un risultato atteso misurato mediante la visualizzazione del numero di “like” e di commenti, mantiene sempre in condizioni di elevata ipereccitazione la costante interazione virtuale dell’utente nell’intento – secondo la sopracitata ricerca – di “aumentare la propria autostima […]con la speranza di ricevere feedback positivi” per ottenere una gratificazione immediata che lo induce ad aggiornare continuamente i propri profili. Sono questi, dunque, i tratti preoccupanti del lato oscuro della Rete che sembrano delineare una vera e propria sindrome patologica da paura di essere disconnessi e di perdersi online (cd. “Fear of Missing Out” – acronimo FOMO) strettamente connessa all’inedito paradigma “Digito ergo sum”, come nuova dipendenza configurabile nell’ambito dei disturbi comportamentali e cognitivi provocati dall’uso eccessivo di Internet (cd. “Internet Addiction Disorder”) declinabile anche come “Smartphone Addiction”.

In un certo senso è la stessa struttura tecnica delle piattaforme sociali a incentivare inconsciamente una sorta di “dissociazione” spazio-temporale, facendo perdere alle persone la “cognizione del tempo”, con deficit comportamentali sempre più infelici, abbattuti, conflittuali, violenti e aggressivi.

Gli studi su social e salute mentale

Il Report #StatusOfMind ha monitorato a lungo gli effetti (positivi e dannosi) prodotti dai social media per la salute mentale e il benessere dei giovani, identificando come specifici problemi causati da tali piattaforme: ansia, sentimenti di preoccupazione, nervosismo, disagio, depressione, solitudine, disturbi del sonno, crisi di identità, insoddisfazione della propria immagine, alterazione delle relazioni nel mondo reale. Tali evidenze trovano conferma anche in ulteriori studi da cui si evince che “le persone che usano frequentemente i social media si sentono più depresse e meno felici della vita rispetto a quelle che trascorrono più tempo in attività non legate allo schermo”, alimentando quindi la comparsa di cd. “sentimenti di mancanza” che si manifestano in specifici indici sintomatici di insofferenza, sensazioni di ansia e solitudine, alterazione del sonno, perdita di autostima e concentrazione interrotta.

Una ricerca curata dal Child Mind Institute, approfondendo la connessione tra infelicità e uso reiterato dei social media, afferma che “gli utenti adolescenti e giovani adulti che trascorrono la maggior parte del tempo su Instagram, Facebook e altre piattaforme hanno un tasso di depressione segnalato sostanzialmente (dal 13 al 66%) rispetto a quelli che hanno trascorso meno tempo”. Dello stesso tenore i dati rilevati dal The National Center for Health Research al pari di quanto emerge da più recenti indagini sui medesimi profili di approfondimento.

Particolarmente interessanti risultano inoltre i dati pubblicati dallo studio “Social Media and Mental Health: Benefits, Risks, and Opportunities for Research and Practice” che, nel riportare numerose evidenze empiriche risalenti al 2015, anche oggetto di comparazione statistica incrociata tra varie ricerche raccolte e citate nell’indagine curata, descrive l’esistenza di una frequente interrelazione tra malattie psichiatriche e utilizzo continuativo e malsano dei social media soprattutto tra i soggetti più giovani, riscontrando che “i tassi di utilizzo dei social media tra le popolazioni psichiatriche sono aumentati negli ultimi anni”, atteso che “il 47% dei pazienti ricoverati e ambulatoriali con schizofrenia ha riferito di utilizzare i social media” e, in generale, secondo gli esiti di un sondaggio somministrato agli individui affetti da un disturbo dello spettro della schizofrenia, il tempo trascorso sui social media tramite dispositivi mobili, pari a circa 2 ore al giorno, rappresenta una delle attività più “comuni” rilevate nella vita quotidiana di tali soggetti. Anche nei casi depressivi più lievi sembrano riscontrarsi tendenze di autoisolamento alimentato dal senso di solitudine prodotto da tali strumenti a discapito del benessere psico-fisico generato dalle interazioni reali che si instaurano tra gli individui.

Anche la ricerca “Associations Between Time Spent Using Social Media and Internalizing and Externalizing Problems Among US Youth” (pubblicata sulla rivista “JAMA Psychiatry”) ha rilevato che gli adolescenti che utilizzano i social media più di tre ore al giorno “possono essere maggiormente a rischio di problemi di salute mentale, in particolare problemi di interiorizzazione”, mentre un report pubblicato da Pew Research Center afferma che “il 59% degli adolescenti statunitensi ha subito atti di bullismo o molestie online” […] “Circa il 42% degli adolescenti afferma di essere stato chiamato con nomi offensivi online o tramite il cellulare. Inoltre, circa un terzo (32%) degli adolescenti afferma che qualcuno ha diffuso false voci su di loro su Internet, mentre quote minori hanno avuto qualcuno diverso da un genitore che chiede costantemente dove si trovano, con chi stanno o cosa stanno facendo (21%) o sono stati oggetto di minacce fisiche online (16%) […] “Inoltre, le ragazze sono più propense dei ragazzi a dichiarare di essere state destinatarie di immagini esplicite che non hanno richiesto (29% contro 20%)”.

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Le (scarse) iniziative politiche per contrastare i danni da social

Mentre si stabilizza la convergenza di tesi univoche nella letteratura scientifica prendendo atto di una casistica empirica sempre più diffusa, la politica si trova ancora in una fase embrionale di “meditazione” tendenzialmente statica alla ricerca di soluzioni regolatorie adeguate a garantire la protezione di interessi prioritari meritevoli di tutela, come quelli che riguardano la vita dei bambini e degli adolescenti.

Tra le poche interessanti iniziative, si segnala l’introduzione – “soft”- del nuovo codice “Age Appropriate Design Code”, ad integrazione della disciplina vigente in materia di “Child Safety Online”, adottato dall’autorità indipendente britannica ICO (Information Commissioner’s Office) con i colossi del web. Il codice obbliga le aziende tecnologiche a rispettare un elenco di 15 standard tecnici a presidio della privacy dei bambini, prevenendo i possibili rischi di contenuti dannosi che possono essere veicolati online.

Negli USA, invece, in un momento storico in cui il Congresso sembra – almeno in linea teorica – intenzionato a riformare la legislazione vigente (attualmente “pro Big-tech”), superando l’attuale disciplina “iper-protettiva” prevista dalla cornice generale della Sezione 230 del “Communications Decency Act” del 1996, sono in corso di esame una serie di proposte normative recanti interventi correttivi alla disciplina introdotta dal Children’s Online Privacy Protection Act, soprattutto nell’ottica di garantire adeguati standard di trasparenza e informazioni complete sulla conoscibilità integrale del sistema di classificazione algoritmica.

In particolare, è stato recentemente presentato il cd. “Kids Online Safety Act” per imporre, a presidio della privacy dei bambini, nuove stringenti restrizioni alle aziende tecnologiche che, anche all’esito di audit indipendenti previamente effettuati a fini di prevenzione, sono tenute a contenere e minimizzare il rischio di condotte illecite e dannose configurabili online, nonché di disabilitare le funzionalità di applicazioni che creano dipendenza.

Ma i social non sono il male assoluto

Se emerge, con sempre maggiore urgenza, la necessità di introdurre nuove regolamentazioni in grado di risolvere le criticità esistenti, a onore del vero, però, è fin troppo facile e superficiale considerare i social media il male assoluto, da capro espiatorio dei problemi segnalati, come fonte esclusiva di responsabilità per i danni che l’utilizzo di tali piattaforme provoca sui giovani. In realtà, nella prassi, alcune aziende “high-tech” risultano anche particolarmente attive nell’introdurre nuovi strumenti per proteggere i bambini, indipendentemente dall’esistenza di vincoli giuridici posti a loro carico. Secondo un articolo del “The Guardian”, ad esempio, TikTok ha disattivato le notifiche per i bambini durante la fascia notturna, mentre Instagram ha integralmente rimosso le pubblicità mirate per i minori di 18 anni, annunciando inoltre funzionalità di sicurezza per i bambini che includono nuovi strumenti (come “prenditi una pausa”) allo scopo di aiutare a limitare il tempo trascorso online (anche TikTok ha una funzione simile che appare quando gli utenti trascorrono troppo tempo sull’app.). YouTube invece ha disattivato la riproduzione automatica per gli utenti adolescenti.

Può bastare?

A prescindere dalle iniziative che i social network (si pretende o presume) debbano o possano intraprendere per superare le criticità riscontrate anche a costo di andare contro i propri interessi imprenditoriali nel perseguimento dei relativi profitti, sarebbe anzitutto auspicabile acquisire, sulla base di una solida cultura digitale, una maggiore conoscenza sulle insidie che si manifestano nell’ambiente digitale – a maggior ragione nelle relazioni educative che intercorrono tra genitori e figli, con la consapevolezza che l’iscrizione alle piattaforme sociali non rappresenta soltanto e semplicemente uno diversivo ludico, sociale e di intrattenimento per incrementare la cerchia dei propri contatti, facilitare le relazioni interpersonali e visualizzare contenuti testuali o multimediali divertenti, ma può costituire un pericoloso veicolo di potenziale lesività soprattutto nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili, come appunto i bambini, gli adolescenti e gli utenti giovani in generale.

Nell’ottica di fornire una panoramica completa a 360 gradi su una questione che resta di certo complessa, spinosa e delicata, va segnalata una ricerca a cura della “School of Public Heart of Harvard”, secondo cui “l’uso abituale dei social media, come parte della routine quotidiana […] è positivamente associato” al benessere delle persone, in ragione della “connessione emotiva” che tali piattaforme sono in grado di veicolare grazie alla costruzione di una “forte rete sociale” in grado di superare “barriere di distanza e tempo” con benefici tangibili nel mantenimento di relazioni interpersonali tra gli individui, unitamente alle opportunità di crescita professionale e creatività artistica e imprenditoriale che è possibile conseguire sfruttando le potenzialità dei social media, a condizione che ciò avvenga sempre entro i limiti della prudenza e della ragionevolezza.

Conclusioni

Che fare?

In medio stat virtus”: in altre parole, i social media non dovrebbero essere considerati a priori un bene o un male, ma assumono una funzione neutra adattabile ai concreti utilizzi cui sono di fatto destinati, senza dimenticare che, in ogni caso, tali piattaforme possono comunque realizzare indubbi effetti positivi, grazie alle maggiori opportunità di condivisione informativa che offrono per esprimere idee e confrontarsi liberamente, purché ciò avvenga sempre in modo pacifico e costruttivo.

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