arte e scienza

Salvare il patrimonio culturale con la tecnologia: scenari e prospettive

Orientare la tecnologia verso la riscoperta di un sapere in via di estinzione, da tutelare o da rendere universalmente accessibile, è il modo più semplice di mettere la realtà digitale al servizio di quella materiale. Vediamo possibili vantaggi e scenari del binomio scienze-beni culturali

Pubblicato il 28 Giu 2019

Jacopo Ierussi

avvocato, Studio legale Salonia Associati

Clelia Piperno

docente di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Teramo

Science Art Puzzle Showing Scientific And Artistic

Intelligenza artificiale, droni, realtà aumentata, mappe tridimensionali. Le tecnologie digitali, già ampiamente utilizzate in diversi contesti sociali ed economici, potrebbero rivelarsi strumenti essenziali per preservare/riscoprire/promuovere beni culturali la cui identità è un patrimonio costituzionalmente rilevante, come stabilito dall’art. 9 della Carta Fondamentale: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

Lo testimoniano molte iniziative già in corso e il focus di molte startup orientate alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale, come vedremo di seguito.

Arte, tecnologia e l’eterno ritorno dell’uguale

Partiamo per questa nostra riflessione scomodando uno dei capisaldi del pensiero di Friedrich Nietzsche: l’eterno ritorno dell’uguale che si rifà al concetto di ciclicità del tempo, ovvero una delle teorie filosofiche più antiche al mondo. Il presupposto secondo cui in un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi N volte, non esclude (e, anzi, impone) che il futuro possa influenzare il passato e, volendo, rievocarlo. Questo concetto, che avvicinato superficialmente in questa sede sembra porsi in aperto contrasto con i dettami della fisica quantistica ed essere estraneo a temi logico-giuridici, in realtà si limita ad esprimere un’aspirazione cui dovrebbe essere rivolta ogni forma di tecnologia: il progredire del patrimonio morale, culturale e scientifico del genere umano.

Nell’Anno Domini 2019 che, a titolo esemplificativo, è stato segnato dal tragico rogo della cattedrale metropolitana di Notre-Dame è agevole al pensiero ipotizzare che potrebbe fare la differenza l’impiego di tecnologie quali la realtà aumentata (es. per preservare il fenomeno turistico nell’attesa della totale ricostruzione del sito storico), i droni e le mappe tridimensionali (es. per l’analisi dei danni strutturali e il coordinamento/monitoraggio dei lavori di ricostruzione).

Gli algoritmi al servizio di arte e cultura

L’intelligenza artificiale dal canto suo, ormai diventata appannaggio di qualsiasi pensiero pseudo-avveniristico, ha già dato prova di poter essere proficuamente impiegata per scopi più aulici rispetto alla mera sostituzione dell’essere umano nello svolgimento di lavoro manuali.

Ne è testimone uno degli autori che attualmente ricopre l’incarico di direttrice del “Progetto Traduzione Talmud Babilonese”, un’iniziativa finanziata dallo Stato italiano che ha portato alla riscoperta di un testo patrimonio non soltanto del popolo ebraico, ma della generalità.

Ciò è stato possibile anche grazie al sistema “Traduco”, ovvero un software che è stato messo a punto dall’Istituto di linguistica computazionale “Antonio Zampolli” del CNR di Pisa. Grazie a Traduco è possibile elaborare complessi algoritmi per il trattamento automatico del testo e della lingua nonché effettuare traduzioni collaborative di opere complesse quali il Talmud.

In definitiva, nel caso di specie, la tecnologia si è prodigata per salvaguardare un’opera che è una ricchezza in primis per la nostrana “società multiculturale”, dovendosi intendere con tale ultimo assioma «un elemento intrinseco, costitutivo, dello stato costituzionale di diritto, ovvero al carattere pluralistico del suo elemento personale, della plurisoggettività. Non solo come un “fatto storico”, ma come un elemento che assume rilievo giuridico. Anzi, se ci pensiamo bene, il riconoscimento del pluralismo, la rinuncia a qualsiasi semplificazione artificiale della pluralità e della diversità rappresentano la vera precondizione, l’humus, il fondamento dello stato costituzionale del secondo dopoguerra»[1].

Lungi dal voler propendere in considerazioni autoreferenziali, si dirà come l’esempio di cui sopra sia tutt’altro che un caso isolato. Recentemente “Monugram” è stata incoronata quale miglior idea imprenditoriale sviluppata all’interno del percorso di accelerazione per startup denominato “Dock3 – The Startup Lab” organizzato dall’Università degli Studi Roma Tre.

La mission di questa startup consiste nella realizzazione di un’applicazione, dotata anche di funzioni d’intelligenza artificiale, grazie alla quale, una volta scattata la foto ad un monumento, se questo è presente nel database, vengono visualizzate le relative spiegazioni sia in italiano che in inglese. Questo brillante concept, che ricalca quello del più noto “Shazam”, ovvero l’applicazione nata per l’identificazione di brani musicali, è indubbiamente in grado di rivoluzionare il modo di vivere l’esperienza turistica e culturale in ogni paese.

E’ vero, allora, quanto già ravvisato in dottrina, ovvero che «L’innovazione tecnologica sta investendo il settore dei beni culturali su più fronti. Da un lato, lo sviluppo delle metodologie di recupero e di restauro contribuisce ad accrescere l’offerta dei beni da destinare alla fruizione pubblica (esemplare il caso della Coronation Hall di Aquisgrana, i cui celebri affreschi sono stati di recente restaurati usando la fotografia digitale sulle stampe di un libro del 1941); dall’altro, i nuovi mezzi di comunicazione comportano un continuo aggiornamento del concetto di fruizione, e quindi di valorizzazione. Si pensi alle tecniche della realtà virtuale che ampliano le modalità di godimento del patrimonio culturale, presentando inoltre il vantaggio di risolvere alcuni dei problemi in ordine alle limitazioni di accesso ai beni e alla loro conservazione; pur se la fruizione del bene nel suo contesto o nella sua realtà materiale costituisce da sempre un unicum insostituibile»[2].

Il dialogo tra arte e scienza

E’ auspicabile che riprenda il dialogo tra arte e scienza, così come nel Rinascimento, affinché il progresso tecnologico sia guidato dall’elevazione dell’animo, senza rigidi vincoli, ma con la spontaneità del pensiero migliore che ricerca la téchne per il bene comune, avendo quest’ultima ormai «conquistato una vera e propria egemonia che incide nel mondo dei comportamenti sociali e personali, determina lo sviluppo dell’economia, accresce ma, al tempo stesso, comprime i territori della libertà»[3].

A nostro avviso, infatti, il diritto – soprattutto avendo a mente le fonti di rango costituzionale – può soltanto circoscrivere il raggio d’azione della scienza, eppure all’interno di esso questa deve essere ambiziosa e libera perché non esiste legge morale o codice deontologico che resista alla naturale evoluzione del pensiero comune, sempre più influenzato proprio dal dato tecnologico. Viceversa, non c’è cosa più immortale dell’arte, che spontaneamente disciplina e nobilita il pensiero tanto del sapiente quanto dell’uomo comune, parimenti a Virgilio quando si è prestato a far da guida a Dante.

Se lo scomparso Stefano Rodotà prospettava l’importanza di una “Costituzione per Internet”, dall’altra parte, vi è chi ritiene che la Rete sia soltanto un aspetto, uno strumento attribuibile ad un universo (quello digitale) che sta assumendo in certi frangenti della nostra quotidianità un valore preminente e superno. In breve, è opportuno guardare oltre la Rete ed aprirsi alla prospettiva che la cultura digitale abbia ormai assunto un peso giuridico rilevante, tanto da tendere verso un grado di dignificazione equiparabile a sottocategorie dei diritti fondamentali di cui la nostra Costituzione è già portatrice (volendo ipoteticamente identificare la conoscenza dell’informatica come una delle discipline tutelate dal diritto all’istruzione inferiore di cui all’art. 34 Cost.).

In questo ordine di idee si muove il D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (cd. “Codice dell’Amministrazione Digitale”) che «dopo aver introdotto con la previsione di cui all’art. 4 la possibilità di esercitare la partecipazione e il diritto di accesso mediante l’uso delle tecnologie, afferma, all’articolo 9, che “Lo Stato favorisce ogni forma di uso delle tecnologie per promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini”. In questo senso l’accesso ai mezzi informatici diventa un “vero e proprio diritto sociale strumentale all’esercizio di altri diritti fondamentali” secondo quanto affermato nella sentenza n. 307 del 13-21 ottobre 2004 della Corte Costituzionale»[4].

L’era digitale è caratterizzata principalmente dalla dematerializzazione dei rapporti commerciali, con specifico riguardo al settore del terziario, ed alla diffusione di nozioni di “facile consumo”, fedeli all’epoca d’oro del qualunquismo che sta conquistando le masse, rendendo persino la cultura generale vittima di una perversa forma di consumismo.

Orientare la tecnologia verso la riscoperta (e non la mera condivisione) di un sapere in via di estinzione, oppure da tutelare o ancora da rendere universalmente accessibile, è il modo più semplice di mettere la realtà digitale al servizio di quella materiale, così da ridare sostanza all’individuo medio o accrescere quella di cui questi è già in possesso, seppur proprio tramite la sua alfabetizzazione digitale[5].

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  1. T. Groppi, “Multiculturalismo 4.0”, in Osservatorio costituzionale, Fasc.1/2018, 18 febbraio 2018, pag. 3, http://www.osservatorioaic.it.
  2. L. Casini, “La valorizzazione dei beni culturali” in Riv. trim. dir. pubbl., fasc. 3/2001, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, pag. 675.
  3. L. D’Avack, “Scienza e ricerca scientifica: conflitto di valori tra benefici e rischi” in Diritto di Famiglia e delle Persone, fasc. 4/2017, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, pag. 1257.
  4. P. Piras, “Organizzazione, tecnologie e nuovi diritti” in Dir. informatica, fasc.3/2005, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, pag. 594.
  5. In quest’ottica sono interessanti le considerazioni espresse su Agenda Digitale da G. Salmeri, “Minimalismo digitale, conoscere la tecnologia per ridurne l’uso: ecco come”, che sintetizza le riflessioni di Cal Newport nei seguenti termini: «Questo significa che bisogna solo perseguire e sviluppare un’adatta «filosofia» di uso della tecnologia informatica, quella che appunto egli chiama «minimalismo digitale». Bisogna ridurre l’uso al minimo indispensabile, selezionando accuratamente le poche cose che sono necessarie o che portano un effettivo vantaggio alla propria vita. Alla fine, ciò che conta è solo quest’ultima».

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