la riflessione

Saper scrivere nell’era di internet, la Scuola smetta di dare la colpa a social e chat

Lo spazio di esperienza e conoscenza su cui poggia lo scrivere (e il leggere) in rete è sostanzialmente diverso da quello su cui poggia lo scrivere (e il leggere) “tradizionali”. Per questo la scuola dovrebbe dovrebbe smettere di fare scaricabarile e cambiare assetto, riconoscendosi in un mondo plurale, complesso, dinamico

Pubblicato il 15 Ott 2019

Roberto Maragliano

docente di Tecnologie dell'Istruzione e dell'Apprendimento, Università Roma Tre

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E’ davvero colpa di internet se i ragazzi arrivano all’università senza saper produrre testi scritti neanche troppo complessi? O è piuttosto il classico esercizio di scaricabarile per cui la responsabilità è sempre da attribuire ad agenti esterni e che permette alla scuola di auto-assolversi?

Lungi dal voler dare l’idea di banalizzare un problema molto serio e complesso, quello che preme sottolineare è che bisognerebbe piuttosto riflettere sul vero nocciolo della questione, e cioè che oggi esistono diverse accezioni di scrittura – che sintetizzerò sotto l’etichetta di “scrittura fisica” (quella, diciamo, “tradizionale”) e ‘scrittura acquatica’ (quella che si esercita in rete) – e la scuola dovrebbe dotarsi di un nuovo assetto psicologico e mentale coerente con l’esigenza di vivere una condizione anfibia.

La diabolica scrittura di rete va, insomma, presa per le corna. Vediamo come, ma partiamo da un’analisi del “problema”.

I ragazzi non sanno scrivere?

Non c’è docente universitario, soprattutto di area umanistica, al quale non sia capitato di constatare quanto diffuse si presentino oggi nei giovani, e non solo tra i neo iscritti, le difficoltà a produrre un testo scritto di una qualche complessità. Né ce n’è uno, sempre tra quei docenti, che, ragionando sul preoccupante fenomeno e sulla necessità di porvi rimedio, sia propenso a negare il ruolo che le pratiche della lettura potrebbero svolgere, e soprattutto avrebbero potuto negli anni scolastici, al fine di scongiurare la lamentata incompetenza.

Partendo da queste due assunzioni un ingenuo si sentirebbe autorizzato a ritenere che nella formazione preuniversitaria pochissimo si investa sulle pratiche del leggere. Ma come sappiamo tutti, dunque lo sanno anche i docenti dell’università (non fosse altro perché a casa loro le cose non vanno diversamente), non c’è attività dello studio scolastico che prescinda dal ricorso alla mediazione sistematica della lettura.

Come si spiega allora che dopo tredici anni e più di apprendimento centrato sulla lettura, una volta usciti dalle aule scolastiche, tanti giovani incontrino così evidenti difficoltà a produrre un testo articolato, dotato di una qualche subordinata e di un vocabolario che non sia ridotto all’essenziale? E com’è che di fronte a testi un po’ più sostenuti di quelli correnti, perfino di poco superiori, per qualità di struttura, ai testi legati alla gestione della vita quotidiana, vengano regolarmente a galla le medesime lacune?

L’eterno gioco dello scaricabarile

Dover ammettere che sia la scuola a non funzionare sarebbe troppo devastante, ed ecco allora che, a soccorso dell’insegnante sull’orlo di una crisi di nervi, e dell’intellettualità diffusa che gli fa da cornice ed eco sui fogli stampati e la tv, sopraggiunge la classica formula magica che consiste nello scaricare ogni sorta di responsabilità per quello che capita dentro direttamente su ciò che sta fuori. Da sempre è così che vanno tante delle cose con cui si intrattengono i benpensanti dell’educazione.

Ieri era dunque l’insidia del male e del peccato a mettere a rischio la funzione e l’esito di una corretta formazione scolastica. Di conseguenza, si predisponeva uno spazio totalmente dominato dalla buona educazione (tutti i discenti allineati e in silenzio, senza possibilità alcuna di guardarsi reciprocamente, con orecchie e occhi indirizzati su, alla fonte ufficiale del sapere insegnante) e lo si arredava con apparati di conoscenza che nessun rapporto diretto potessero intrattenere con l’esterno (il latino, per esempio: leggetevi quel che pensava e scriveva a questo proposito Concetto Marchesi, da giovane e non solo, nel fondamentale saggio, Il sovversivo, Einaudi, che gli ha or ora dedicato Luciano Canfora).

Oggi il diavolo veste Internet e si serve, per i suoi intrighi, dello strumento della distrazione. Ma la musica non cambia.

Se infatti gli scolarizzati del presente, che sono in numero infinitamente superiore a quello ch’era in un tempo anche recente (per esempio due generazioni fa), e che godono di risorse didattiche più aggiornate e di docenti comparativamente più preparati (non fosse altro perché fuoriusciti da un curricolo di formazione piuttosto lungo), mostrano di non saper scrivere e nemmeno leggere ‘correttamente’ è perché sono irretiti dal consumo dei media: questo si sostiene, a volte implicitamente a volte a chiare lettere (e soprattutto negli allegati ‘colti’ dei giornali domenicali).

Usando questa carta di un esterno diabolico tutto sembra andare a posto. E si ottiene pure di assolvere ogni ipotetico colpevole, sul fronte della docenza: chi per il suo fare chi per il suo non fare.

‘Sembra’, ho scritto. Perché? Il motivo è presto detto.

Così ragionando – si fa per dire – non si procede al di là della proverbiale pentola e ci si dimentica del coperchio. Il quale coperchio, fuor di metafora, consiste qui nel fatto che quegli stessi giovani, colpevoli di incompetenza dello scrivere, nel mentre si distraggono dentro l’universo di rete, fuori del recinto scolastico, fanno costante e sistematico ricorso alla lingua scritta, sia in funzione ricettiva sia in funzione produttiva. Da tutto questo scaturisce, se si vuole essere onesti, un plateale paradosso, ed è precisamente questo che i ragazzi non sanno scrivere perché sono distratti dallo scrivere.

Scrivere sì, ma cosa?

Evidentemente, in tutto ciò, sono in gioco due diverse accezioni di scrittura.

Di qui si potrebbe, io dico si dovrebbe partire, se si volesse rinunciare al comodo alibi dei media digitali e di rete, e dei social soprattutto, che corromperebbero l’innocente allievo scolastico, altrimenti destinato, dopo tanti anni di grammatica, ad una luminosa carriera di dotto letterato. Sarebbe inevitabile farlo se si prendesse atto che i positivamente destinati ad un reale successo scolastico, nel presente, risultano essere, drammaticamente, di un numero pari a quello dello ieri, quando alla scuola del piano superiore approdavano in pochissimi, e dunque se ci si rendesse conto che non predisponendosi a cambiare i modi della produzione si rischia di ottenere, coll’immettere più materia prima di un tempo, risultati quantitativamente e qualitativamente non superiori se non addirittura inferiori rispetto a quelli di prima. Il che equivale a dover riconoscere che, all’università, approdano oggi sia quelli che sanno scrivere, i soli ad essere accolti prima, sia quelli, e sono la stragrande maggioranza al presente, che non sanno trattare la lingua scritta.

E la scuola immobile lì, a contemplarsi. Ecco allora da dove scaturisce l’idea di un suo degrado. Semplicemente, è avvenuto che nel territorio nel frattempo rimasto immutato sono entrati i ‘barbari’, e in numero ben superiore ai ‘gentili’ di un passato sentito (immeritatamente) come glorioso (‘gentili’, si badi bene, più per meriti extra che intrascolastici).

Scrittura fisica e scrittura acquatica 

Dicevo, più su, della presenza attuale di due differenti accezioni di scrittura.

Prendere in considerazione la questione comporterebbe qualcosa di più e di diverso rispetto ad un discorso tecnico di tipo linguistico. Certo, in gioco ci sono, nei due diversi universi, quello consacrato dall’azione scolastica e quello mondano dei comportamenti di rete, due diverse grammatiche, due diverse retoriche, due diverse pragmatiche. Ma al di là di tutto questo c’è una questione di ‘enciclopedia’, intesa semioticamente come spazio di negoziazione e costruzione del senso. Cosa voglio dire, con ciò? Che lo spazio di esperienza e conoscenza su cui poggia lo scrivere (e il leggere) in rete è sostanzialmente diverso da quello su cui poggia lo scrivere (e il leggere) a scuola. Chi fa seriamente esperienza completa dell’uno e dell’altro mondo ha modo di rendersene conto. Testualità vs reticolarità. Monomedialità vs multimedialità. Non sono differenze da poco.

Nel mio libriccino Scrivere (da poco uscito per la collana Collassi, diretta da Alberto Abruzzese, Paolo Gervasi e Mario Pireddu, per Luca Sossella Editore) ho provato a distinguere la ‘scrittura fisica’ (quella tradizionale cui si ispira la scuola) e la ‘scrittura acquatica’ (quella che si esercita in rete) invitando tutti noi, e in particolare gli insegnanti, a darsi un assetto psicologico e mentale coerente con l’esigenza di vivere una condizione anfibia, riguardo appunto lo scrivere (ma non solo riguardo questa attività, tutto sommato parziale se confrontata con l’insieme delle attività che qualificano il vivere).

Il triplice impegno che i docenti dovrebbero assumersi

La diabolica scrittura di rete, dicevamo, va presa per le corna.

Questo porta con sé tre postulati.

Il primo è che ci si predisponga a considerare lo ‘scrivere’ alla stregua di un verbo transitivo. Insomma, scrivere sì, ma che cosa? Un adulto scolasticamente fatto e compiuto, per esempio, potrebbe incontrare difficoltà a far funzionare adeguatamente la sua presenza di scrivente all’interno di un social, per esempio limitandosi a pubblicare dei post e mai interagendo con chi interagisca con essi. Se si usasse lo stesso parametro (il verbo intransitivo) che ci fa dire che i giovani scolarizzati sono incompetenti dovremmo ammettere che anche il nostro adulto (e potrebbe pure essere docente universitario) è incompetente, che non sa scrivere. Errore imperdonabile. Di fatto, non sa praticare quella scrittura, anche se sa, al limite, produrre saggi e libri.

Il secondo è che, riprendendo una (s)fortunata espressione del tempo che fu, sarebbe opportuno assumere un atteggiamento democratico nei confronti della problematica linguistica. Non c’è una sola norma di comportamento in fatto di scrittura e lettura, ce ne sono molte e molto diverse tra di loro, e nessuna di queste è fissa. Le lingue vivono nel tempo e del tempo; e interagiscono con gli spazi fisici ed umani che le accolgono e le alimentano. Dunque, se le si dispone secondo un ordine definito, per esempio dalle più semplici alle più complesse, sarebbe onesto riconoscere il carattere relativo e provvisorio del parametro (di lingua e di enciclopedia) in base a cui le si ordina.

Il terzo postulato impone che si impari a collegare positivamente l’informale con il formale, costruendo continuamente e serenamente ponti di collegamento tra l’uno e l’altro. E dunque, questo ci si dovrebbe chiedere e si dovrebbe chiedere al giovane, anfibio suo malgrado: qual è l’informale reale e vero della formalissima grammatica (apodittica e non rispondente) ancora in uso nelle classi scolastiche e qual è il formale cui ispirarsi nell’uso informale (e massimamente rispondente) delle scritture di rete, con i ‘famigerati’ social?

È, questo che ho illustrato, un triplice impegno che i docenti (di scuola e università) nonché gli studiosi e gli opinionisti delle agonizzanti terze pagine farebbero bene ad assumere, riconoscendo e riconoscendosi in un mondo plurale, complesso, dinamico. Dove, dunque, anche lo scrivere ha a che fare con le dimensioni del plurale, del complesso, del dinamico.

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