economia dell'attenzione

Saremo tutti analfabeti funzionali? No, se impariamo a usare bene il nostro cervello

Contro il culto dell’ignoranza e l’analfabetismo funzionale in cui sguazzano le aziende del digitale che catturano la nostra attenzione con contenuti frivoli, ma che ci fanno produrre grandi quantità di dati, l’unica arma è imparare a sfruttare le potenzialità di quello strumento eccezionale che è il nostro cervello

Pubblicato il 01 Mar 2023

Francesco Russo

Esperto in economia dell'attenzione

Big data e Big drain: cervello, reti, intelligenza artificiale

Il nostro cervello potenzialmente ha una capacità di calcolo di un super computer. Il problema però è che la nostra mente è capace di processare poche cose per volta, come messo in evidenza dall’articolo Brain information processing capacity modelling pubblicato su Nature.com nel 2022.

In altre parole, fino a quando le informazioni da gestire sono state limitate, l’essere umano ha potuto averne il controllo, oggi, che la mole di informazioni è immane, e la velocità con cui le si fruisce è elevatissima questo controllo è sempre più un’illusione.

Non siamo fatti per essere multitasking: ecco il costo dell’economia dell’attenzione

Isaac Asimov, Tullio De Mauro e l’analfabetismo funzionale

Nel numero di gennaio del 1980 di Newsweek, nella rubrica My Turn apparve un articolo a firma di Isaac Asimov intitolato A Cult of Ignorance, in cui il famoso scrittore denunciava quel fenomeno che oggi conosciamo come analfabetismo funzionale.

Il grande scrittore di fantascienza osservava: “C’è un culto dell’ignoranza negli Stati Uniti, e c’è sempre stato. Una vena di antintellettualismo si è insinuata nei gangli vitali della nostra politica e cultura, alimentata dalla falsa nozione che democrazia significhi: la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”.

Nel marzo 2008 (lo stesso anno in cui Facebook viene reso disponibile in lingua italiana), sul numero 734 del settimanale Internazionale appare un articolo dal titolo Analfabeti d’Italia a firma del noto linguista Tullio De Mauro.

Si può sintetizzare questo articolo con la seguente affermazione: “solo il 20 per cento degli adulti italiani sa veramente leggere, scrivere e contare”. Affermazione non di poco conto.

De Mauro si basava sui dati emersi da due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2004-2005 in diversi paesi. Ad accurati campioni di popolazione in età lavorativa fu chiesto di rispondere a dei questionari: uno, elementarissimo, di accesso, e cinque di difficoltà crescente. Si poterono così osservare le effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo degli intervistati, e nella seconda indagine anche le capacità di problem solving.

Le ricerche avevano fatto emergere un quadro piuttosto sconfortante: otto italiani su dieci presentavano difficoltà a utilizzare quello che ricavavano da un testo scritto, sette su dieci presentavano difficoltà abbastanza gravi nella comprensione, cinque milioni di italiani presentavano, invece, una completa incapacità di lettura. In particolare, a uscirne provata dalle ricerche internazionali era la scuola italiana, non in grado di garantire un’istruzione adeguata agli studenti.

Le indagini internazionali citate da De Mauro erano state curate da Vittoria Gallina, ricercatrice del Cede, poi Invalsi, in due volumi, la prima, con prefazione di Benedetto Vertecchi, è La competenza alfabetica in Italia. Una ricerca sulla cultura della popolazione. Edita da Franco Angeli nel 2000, mentre la seconda è Letteratismo e abilità per la vita. Indagine nazionale sulla popolazione italiana 16-65 anni Pubblicata da Armando editore nel 2006. La terza indagine è intitolata: Research, Quality, Competitiveness. European Union Technology Policy for Information Society edita da Springer nel 2006.

L’analfabetismo dei laureati

Non solo. De Mauro osservava che alcuni mezzi di informazione riportavano un fatto particolare: parecchi laureati italiani univano la laurea a un sostanziale letterale analfabetismo.

Se Carlo V poteva reggere un immenso impero, riuscendo con difficoltà a fare la propria firma, oggi, è fondamentale possedere una profonda capacità di comprensione della società in cui viviamo per svolgere compiti meno gravosi di gestire un impero.

Scrive Asimov: “Certamente, l’americano medio sa firmarsi in modo più o meno intelligibile e recepisce i titoli degli articoli sportivi – ma quanti americani non-elitistici possono, senza indebita difficoltà, leggere mille parole consecutive stampate in piccolo, alcune delle quali potrebbero essere trisillabe? Per di più, la situazione sta peggiorando. I punteggi di lettura nelle scuole diminuiscono continuamente.” Una condizione che sembra descrivere in modo perfetto l’attuale situazione della scuola italiana (vedi quanto ho riportato sulla situazione delle scuole italiane nell’articolo L’alba dell’economia dell’attenzione).

Ma i moniti dello studioso diventano veramente virali con l’articolo Passaparola: Un popolo di analfabeti (funzionali), di Tullio De Mauro apparso sul blog di Beppe Grillo in cui dichiarava che: “il 70% degli italiani non capisce quello che legge”. Era il febbraio del 2016, 11 mesi prima della sua morte.

Una dichiarazione che fece il giro della rete e delle principali testate giornalistiche. Il grande linguista riportava i risultati incrociati dei tre studi scientifici internazionali che aveva citato nel suo articolo del 2008, in materia di comprensione e capacità di elaborazione dei testi scritti, dal quale ne usciva un risultato impietoso per gli italiani.

Una definizione di analfabetismo funzionale

La definizione di analfabeti funzionali fu coniata nel 1984 (appena quattro anni dopo l’articolo di Asimov), per un’indagine condotta dalle Nazioni Unite sui nuclei famigliari. Questo per distinguere un concetto di alfabetizzazione superiore rispetto a quello di alfabetizzazione minima (introdotto sempre dalla Nazioni Unite nel 1958).

L’analfabetismo funzionale fu definito come “la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.

La causa di questa situazione stava (e sta tutt’oggi) anche, e soprattutto, nello stile di vita che la nostra società anno dopo anno si è autoimposta dal secondo dopo guerra ad oggi.

Lo stile di vita che la società in cui viviamo ci suggerisce e ci porta ad assumere, predispone la gran parte di noi ad essere dei “perfetti burattini”, come è stato ben illustrato, ad esempio, nel documentario del 2019 “The Great Hack” e nel documentario del 2020 “The Social Dilemma”.

Quello che dobbiamo comprendere è che ogni persona, anche la più “intelligente” e/o la più “acculturata”, può essere un’analfabeta funzionale.

Uno stato di attenzione parziale permanente

A chi non è mai capitato a fine giornata di sentire le proprie energie cognitive “prosciugate”? Di provare un senso di stanchezza tale da non riuscire a riflettere, ed agire solo di “istinto”?

Quando le energie cognitive sono esaurite, e il cervello è in una condizione di stanchezza e/o di stress, si mette in una sorta di modalità “risparmio energetico”. La nostra mente ricorre a meccanismi istintivi, ad un pensiero superficiale e veloce, che non richiede grandi risorse cognitive, per prendere decisioni.

La perfetta condizione perché l’imbonitore o l’imbonitrice di turno possano “ingannarci”, manipolarci, la perfetta condizione per permettere alle aziende del digitale di catturare la nostra attenzione con contenuti leggeri, frivoli, ma che ci fanno produrre comunque grandi quantità di dati.

Asimov nel suo articolo scrive “io sostengo che lo slogan – l’America ha il diritto di sapere – è senza senso quando abbiamo una popolazione ignorante, e che la funzione di una stampa libera è praticamente nulla quando quasi nessuno sa leggere […] abbiamo un nuovo slogan da parte degli oscurantisti: – Non fidarti degli esperti! – […] è uno slogan assolutamente sicuro. Niente, né il passare del tempo né l’esposizione all’informazione, potrà mai tramutare questi paladini in esperti di qualche argomento che possa essere pur lontanamente utile.”

Perché viviamo in una condizione che la scrittrice Linda Stone ha descritto nell’intervista rilasciata a San Anderson e riportata poi nell’articolo di quest’ultimo In Defense of Distraction sul New York Magazine nel 2009 con le parole attenzione parziale permanente?

Come funziona il nostro cervello e perché è importante saperlo

Per capire questo dobbiamo fermarci a comprendere alcuni aspetti della fisiologia del nostro cervello. Osservando il cervello dall’alto, si può notare che è composto da due emisferi (divisi dalla scissura interemisferica) e ricoperto da una sottile pellicola di tessuto rugoso a pieghe detto corteccia cerebrale. Distesa, questa misurerebbe circa 60 per 60 centimetri. I due emisferi cerebrali ammontano approssimati­vamente all’85% del peso dell’organo.

I miliardi di neuroni dei due emisferi sono connessi da fasci di fibre di cellule nervose del cosiddetto corpo calloso, che trasferisce incessantemente infor­mazioni fra di essi. Quelle che arrivano in uno sono disponibili quasi istan­taneamente per l’altro, e le risposte di entrambi si armonizzano strettamente in quella che a noi appare come una percezione del mondo esterno senza soluzione di continuità.

Anche se non identici, dal punto di vista fisico i due emisferi sono in larga misura l’immagine speculare uno dell’altro. La loro funzione è stata oggetto di grande interesse e di numerose ricerche da parte dei neuroscienziati. Ognuno di essi pare possedere particolari abilità, punti di forza e di debolezza e un proprio modo di elaborare le informazioni.

Forse in conseguenza dell’entusiasmo e dell’interesse suscitati dalla ricerca sulle differenze tra gli emisferi, si è sviluppata ed è diventata popolare una vi­sione eccessivamente semplificata del loro funzionamento. È emersa una serie di dicotomie decisamente troppo rigide, che vorrebbero una serie di funzioni attribuite in via esclusiva all’emisfero sinistro (logica, capacità scientifica, ra­gione, cognizione) o al destro (arte, creatività, intuizione, emozione).

Le neuroscienze si sono spinte ben oltre, ma nella percezione del grande pub­blico questo eccesso di semplificazione persiste.

Le regioni cerebrali hanno funzioni determinate a causa dei sistemi cerebrali integrati di cui fanno parte. Tali funzioni sono caratteristiche di questi sistemi integrati e non di aree isolate del cervello. Le funzioni mentali comportano che regioni del cervello interconnesse agiscano insieme.

Cosa succede al nostro cervello quando siamo stressati

Allo stato attuale della ricerca sulla mente umana, sappiamo che ogni pensie­ro, emozione ed azione risulta dal funzionamento e dall’azione congiunta di molte aree diverse del nostro cervello.

Nonostante l’idea di una divisione rigida fra le funzioni degli emisferi sia trop­po semplicistica e la costante interazione tra le due parti renda arduo definire con precisione che cosa succeda e dove, l’imaging cerebrale mostra che l’a­deguatezza degli emisferi a specifiche funzioni o abilità corrisponde approssi­mativamente all’opinione popolare, nonostante funzioni e capacità non siano suddivise rigidamente in un emisfero o nell’altro come molti credono.

Il cervello umano non è cambiato in modo significativo da quando il primo homo sapiens sapiens ha camminato su questo pianeta.

A livello inconscio le situazioni stressanti dei giorni nostri, pur non essendo pericolose per la no­stra vita, sono trattate dal nostro cervello come delle vere e proprie minacce. Quando il nostro cervello vive una situazione di minaccia, il sistema limbico diventa dominante e la corteccia razionale non è più in grado di funzionare efficacemente. Insomma, per quanto giriamo in giacca e cravatta o tailleur, rimaniamo esseri estremamente istintivi.

Per anni si è ritenuto che l’area più sviluppata del cervello fosse la neocortec­cia e quindi qualsiasi azione di persuasione era pensata per “convincere” la parte razionale dell’uomo. Nel corso degli anni invece si è capito che gli esseri umani compiono scelte “istintive”; quindi, sarebbe poco produttivo continuare a sviluppare ed applicare tecniche volte a stimolare esclusivamente la parte “razionale” del cervello.

Nel corso degli ultimi anni le neuroscienze hanno elaborato un modello che parte dal presupposto che il nostro cervello si è dotato di due “menti distinte” che collaborano costantemente tra loro.

Mente arcaica e mente consapevole

Per capire questo concetto immagina un computer. Il computer è composto da una parte fisica, che possiamo toccare che è comunemente chiamata hardware (nel nostro caso l’organo, il cervello) e da una parte software che non possia­mo toccare. Per poter funzionare il nostro computer (cervello) ha bisogno di un sistema operativo, il software, qualcosa di non materico, di intangibile, che di fatto non possiamo né toccare né vedere: cioè la nostra mente.

Dobbiamo quindi immaginare il nostro cervello come l’hardware di un compu­ter, mentre le due menti come due sistemi operativi distinti che per funzionare hanno bisogno l’uno dell’altro. Un po’ come era nei computer che utilizzavano i microprocessori x86, in cui MS-DOS “conviveva” con Windows 95.

Queste due menti, questi due sistemi operativi, sono state chiamate in modo differente nel corso degli anni. Fra le definizioni più famose c’è quella di Daniel Goleman che le ha definite con i termini “Bottom-Up” e “Top-Down”, e quella di Daniel Kahneman, che le ha chiamate “Fast Thinking” e “Slow Thinking”.

Per una questione di comprensione e di efficacia comunicativa, in questo testo utilizzerò i termini “mente arcaica” e “mente consapevole”. La prima, la mente arcaica, corrisponde ai termini “mente istintiva”, “Bottom-Up” e “Fast Thinking”. Mentre il termine mente consapevole corrisponde ai termini “men­te razionale”, “Top-Down” e “Slow Thinking”.

La mente arcaica è quella che si è sviluppata per prima, è tra i due sistemi del nostro cervello quello più veloce. Opera al di là dell’orizzonte della coscienza, e di fatto determina la gran parte delle nostre scelte quotidiane. Governa l’at­tenzione a livello riflesso e le abitudini meccaniche. La mente consapevole invece governa l’attenzione volontaria, la forza di vo­lontà e la scelta intenzionale.

Se ci riferiamo ad un linguaggio più comune, la mente arcaica è quella che normalmente definiamo la parte “irrazionale” del nostro cervello (anche se in realtà non ha nulla di irrazionale), mentre la mente consapevole appartiene alla sfera razionale del nostro cervello. Il cervello è limitato nella sua capacità di elaborare tutti gli stimoli a cui è sottoposto. Utilizza il processo cognitivo dell’attenzione per concentrare le risorse neurali secondo le contingenze del momento ed usarle quindi al meglio. Per riuscire in questo, la nostra capacità dell’attenzione è governata sia dalla mente arcaica sia dalla mente consape­vole.

Bob Samples, nel suo libro The Metaphoric Mind: A Celebration of Creative Consciousness edito nel 1976 scrive: “La mente metaforica è un cane sciolto. È sel­vaggia e indisciplinata come un bambino. Ci segue ostinatamente e ci affligge con la sua presenza mentre vaghiamo nei corridoi artificiosi della razionalità. È un legame metaforico con l’ignoto chiamato religione che ci fa costruire cattedrali – e le cattedrali stesse sono costruite con piani razionali e logici. Quando qualche crisi personale o il caos sconcertante della vita quotidiana si chiude su di noi, spesso ci precipitiamo a venerare la cattedrale pianificata razionalmente e ignoriamo la religione. Albert Einstein chiamava la mente intuitiva o metaforica un dono sacro. Aggiunse che la mente razionale era un servo fedele. È paradossale che nel contesto della vita moderna abbiamo cominciato ad adorare il servo e a contaminare il divino”.

In questo passo la mente metaforica non è altro la mente arcaica, mentre la mente razionale è di fatto la mente consapevole. È la mente arcaica ad intervenire nella gran parte delle decisioni che prendia­mo quotidianamente. Tant’ è che lo psicologo Daniel Kahneman ha osservato ironicamente nel suo libro Thinking, Fast and Slow pubblicato nel 2011 che la mente consapevole è un personaggio secondario di un’o­pera convinto però di essere il protagonista della storia.

Perché Baggio ha sbagliato quel rigore decisivo (e cosa c’entra la mente arcaica)

Nel corso degli ultimi anni le conoscenze sulle due menti si sono accresciute, grazie a una serie di esperimenti neurofisiologici. Infatti, non è possibile in modo consapevole utilizzare direttamente le capacità della mente arcaica. Attraverso però una serie di esperimenti è possibile percepirne la presenza e, di conseguenza, è possibile sviluppare delle tecniche per poter utilizzare (indirettamente) le sue capacità a nostro vantaggio. Tecniche che si rivelano fondamentali anche nella gestione dei bias cognitivi e di conseguenza nel creare dei meccanismi di difesa dai tentativi di manipolazione. Ricordi il famoso rigore sbagliato da Roberto Baggio durante la partita contro il Brasile ai mondiali USA ’94?

Perché un giocatore esperto come lui ha sbagliato quel rigore in modo così clamoroso? Il motivo sta proprio nel come funziona la nostra mente. Qualsiasi allenatore di pugilato ti dirà che se aspetti di vedere un pugno arrivare per parlarlo, l’unico risultato che otterrai è quello di prenderlo. Chi pratica sport sa che per ottenere le migliori prestazioni, ci si deve allenare, ripetere e ripetere all’infinito gli stessi gesti, al fine che questi diventino istintivi.

Perché un giocatore esperto come Roberto Baggio ha sbagliato quel rigore in modo così clamoroso? La consapevolezza di non dover sbagliare il rigore (pena la perdita del mondiale) ha portato Baggio a ripetersi di concentrarsi, di non sbagliare. Ha sicuramente fatto ricorso alla mente consapevole cercando di concentrarsi al massimo per eseguire il rigore. Il problema è che l’unico modo per utilizzare uno schema motorio al meglio è farlo eseguire dalla mente arcaica, cioè non pensarci. In poche parole, il modo migliore di sbagliare è cercare di pensare di non sbagliare.

La mente arcaica e la mente consapevole devono lavorare all’unisono per offrire il massimo delle loro prestazioni. La mente consapevole è fondamentale quando dobbiamo elaborare un pensiero profondo, quando dobbiamo pianificare una strategia. La mente consapevole ci permette di ripetere con attenzione e concentrazione uno schema. La ripetizione dello schema consente alla mente arcaica di acquisire lo schema al fine di poterlo replicare senza “doverci pensare”.

Pensa ad uno chef che taglia velocemente una verdura. Se esegue il compito “senza pensare” a quello che sta facendo, la sua mente arcaica eseguirà lo schema alla perfezione. Ma se inizia a pensare “ora mi taglio, vado più piano, devo stare attento” e cerca di utilizzare la mente consapevole per affettare la verdura, allora è molto probabile che commetterà un errore.

Per questo motivo dobbiamo imparare ad utilizzare la mente consapevole in tutto quello che facciamo. Concentrarci sulle operazioni anche più semplici non solo ci permette di “ridurre” le tentazioni di distrazioni, ma permette con il tempo alla nostra mente arcaica di acquisire degli schemi motori e mentali che poi potrà eseguire in modo “automatico” con precisione ed efficienza.

I bias cognitivi e la sopravvivenza

Questo, il pensare di istinto, allora dovrebbe essere un vantaggio, perché invece non lo è? Il motivo è che nel corso dell’evoluzione umana, l’essere umano ha sviluppato una serie di “meccanismi automatici” che gli hanno permesso di sopravvivere e divenire la specie dominante del pianeta. Schemi automatici che non sono certo quello di tirare un rigore alla perfezione. Anzi.

Questi schemi automatici sono conosciuti oggi con il nome di bias cognitivi. Sono schemi di cui siamo dotati fin dalla nascita e che si attivano proprio attraverso i meccanismi utilizzati dalle aziende del digitale per catturare la nostra attenzione.

Conclusioni

In sintesi, il nostro cervello dotandosi della “mente consapevole” e della “mente arcaica” si è dotato di uno strumento eccezionale, che noi possiamo allenare e sfruttare a nostro vantaggio, come vedremo nella terza ed ultima parte di questo articolo Difendersi è possibile: la metacognizione. Allo stesso tempo, se non si ha consapevolezza di come funziona, questo prezioso strumento può essere utilizzato da imbonitori e imbonitrici per truffarci, può essere utilizzato dalle aziende che vivono di dati per catturare la nostra attenzione, e di fatto trasformarci in burattini, in analfabeti funzionali, in smombies. Trasformandoci in persone dipendenti da smartphone e dai servizi che questi ultimi offrono, come testimonia l’esperienza del Dott. Federico Tonioni, considerato il maggiore esperto nelle patologie da dipendenza da internet ed i tanti centri che negli ultimi anni sono nati proprio per aiutare giovani e meno giovani ad uscire da questa dipendenza.

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