competenze

Da “nativi digitali” a “consapevoli digitali”, il ruolo della Scuola

Essere “nativi” non vuol dire possedere le competenze connesse al digitale. E’ la scuola che deve occuparsi del loro sviluppo. Ma può farlo cambiando ritmi e pratiche didattiche, rimaste ancorate a modelli che precedono la mutazione innescata dalle nuove tecnologie in cui i ragazzi sono immersi

Pubblicato il 16 Nov 2018

Pierfranco Ravotto

e-Learning, Education & IT Competence frameworks expert. Bricks co-director. AICA & SIe-L member

kids-and-smartphone

Riconoscere la caratteristica degli studenti quali “nativi digitali” non esclude  la necessità di impegnarsi per far loro sviluppare la competenza digitale (o meglio le 21 competenze connesse al digitale). Casomai richiede di individuare quale sia il loro livello di partenza perché è da lì che occorre partire e fissare gli obiettivi da raggiungere, obiettivi che devono essere differenziati a seconda del livello di scuola e della classe.

Una sfida non facile, che necessita un cambiamento radicale e, soprattutto, impone nuovi ritmi e pratiche didattiche coerenti con i modelli della società digitale.

Essere nativi non è essere competenti

“Nativi ma incompetenti” o piuttosto “nativi e (naturalmente) incompetenti”?

C’è una discussione ricorrente da quando Mark Prensky introdusse il temine “nativi digitali”. Recentemente un intervento di Anna Rita Longo su Scientificast “Nativi e analfabeti digitali: il paradosso della Generazione Google” e un position paper di AICA, “Il falso mito del nativo digitale: perché i ragazzi hanno bisogno di sviluppare le proprie competenze digitali” l’hanno rilanciata.

“Nativi digitali” erano, per Prensky, “gli studenti di oggi [era il 2001] … le prime generazioni a crescere con questa nuova tecnologia. Hanno passato l’intera vita circondati da computer, videogiochi, lettori di musica digitale, videocamere, telefoni cellulari e tutti gli altri giocattoli e strumenti dell’era digitale … Oggi i nostri studenti sono tutti ‘madrelingua’ del linguaggio digitale di computer, videogiochi e Internet”.

Il focus del suo articolo riguardava la scuola dove i docenti, “immigranti digitali”, insegnavano a “nativi digitali” parlando una lingua diversa da quella abituale ai loro allievi.

Quando sono andato in prima elementare (agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso) la maestra parlava – per mia fortuna – la mia stessa lingua: l’italiano. Ma nessuno ha mai pensato che il fatto che io fossi “nativo” dell’italiano mi rendesse competente nel suo uso. Infatti l’Italiano è la disciplina scolastica con più ore dalla prima elementare alla quinta liceo! Seguendo il Common European Framework of Reference for Languages (CEFR), ero, forse al livello A2, ma ne avevo di strada per raggiungere il livello C2.

E – come la vita quotidiana, la cronaca e le indagini sull’analfabetismo funzionali, non lusinghiere per l’Italia, ci ricordano – non tutti i madrelingua padroneggiano bene, in termini di espressione e di comprensione, la lingua italiana. Perché dovrebbe essere diverso per il digitale?

Fig 1. – Aree e competenze del framewok DigComp.

Diversi livelli di competenza

Questa la prima osservazione: ci sono diversi livelli di competenza. Il framework DigComp 2.1 individua 8 livelli di padronanza: Base, Intermedio, Avanzato, Altamente specializzato (ciascuno suddiviso in due livelli). E inoltre parlare di competenza digitale è una semplificazione: DigComp individua 5 aree e 21 distinte competenze. Ventun competenze che possono esser possedute, ciascuna, a otto diversi livelli!

Per il fatto di essere “costantemente immerso” in un mondo digitale un “nativo” può avere un livello base per alcune delle competenze in questione. Ma è un punto di partenza, non certo un punto di arrivo di cui ci possiamo accontentare.

Sarebbe forse utile che il mondo della scuola declinasse la competenza digitale seguendo il framework DigComp fissando gli obiettivi da raggiungere: a mio parere almeno il Base 1 entro la Primaria, il Base 2 entro la conclusione della Secondaria di primo grado, l’Intermedio 3 entro il primo biennio della Secondaria di secondo grado (ciclo dell’obbligo) e almeno l’Intermedio 4 entro la fine delle superiori (con qualche punta avanzata almeno per alcune delle 21 competenze, le più connaturate allo specifico indirizzo di studi). In un tale percorso il programma ECDL – con un livello Base, un livello Full e con una pluralità di moduli aggiuntivi: Information Literacy, Computing, Moduli Advanced e Specialised – potrebbe costituire un utile riferimento.

Cos’è cambiato in diciassette anni

Ho già scritto che la definizione di Digital natives, su cui ancora discutiamo, Prensky l’ha data nel 2001: ormai diciassette anni fa! Diciassette anni sono – nel mondo digitale – un periodo lunghissimo. Tanto per dire: nel 2001 avevano appena visto la luce i DVD, Windows XP, l’iPod e iTunes; in Italia non era ancora arrivato SKY (2003) e nel mondo non c’erano ancora Skype (2003), Facebook (2004), Google Maps (2005), Twitter (2006), iPhone (2006), Android (2008), WhatsApp (2009), Airbnb (2009), Instagram (2010), iPad (2010), Google Drive (2012), Telegram (2013).

Ne sono successe di cose!

Una di queste è che i primi Digital natives hanno ormai raggiunto i quaranta! E che c’è ormai una generazione che chiamerei “nativi digitali 2.0” che – parafrasando il Prensky del 2001 – hanno passato l’intera vita muovendo le dita su un touchscreen per guardare e scambiare testi, immagini e video. Oggi i nostri studenti sono tutti ‘madrelingua’ del linguaggio digitale di condivisione nel cloud.

Fig 2. – Con uno smartphone già nel passeggino.

L’altra è che la semplicità dei nuovi device e delle APP ha creato una nuova ondata di di immigranti nel digitale (ma questi non sono oggetto di questo articolo).

Sarebbe interessante indagare quanto le due generazioni di nativi abbiano o meno caratteristiche comuni e parlino lo stesso linguaggio o linguaggi differenti.

Nativi digitali 1.0 e 2.0

Nella scuola un consistente numero di nativi (di prima generazione) è ormai andato in cattedra, ma questo non sembra aver contribuito né a migliorare la competenza digitale degli studenti, né a ridurre quello che Prensky denunciava: “il problema più grande affrontato dall’educazione oggi è che i nostri insegnanti, Immigranti Digitali, che parlano un linguaggio obsoleto (quello dell’era pre-digitale), incontrano difficoltà ad insegnare a una popolazione che parla una lingua completamente nuova”.

Non è, per fortuna, un dato generalizzato. Ci sono molti insegnanti – sia immigranti che nativi – che parlano con i loro studenti nel linguaggio del digitale (sono le esperienze che raccontiamo dal 2011 sulla rivista Bricks) e il Piano Nazionale Scuola Digitale rappresenta un disegno organico di far parlare alla scuola nel suo complesso – non a singoli insegnanti e non solo nella didattica – il linguaggio del digitale.

Ma la scuola e la didattica seguono ancora, in prevalenza, un modello che precede la mutazione digitale.

Riconoscere un diverso modello di pensiero

Il termine “mutazione” è forte. Lo aveva intitolato così, Baricco, il suo libro del 2006: “I barbari. Saggio sulla mutazione”. E di “mutazione” parla in “The Game” dove inverte il rapporto causa-effetto: “crediamo che la rivoluzione mentale sia un effetto della rivoluzione tecnologica, e invece dovremmo capire che è vero il contrario”.

E Prensky aveva scritto nel 2001: “‘Diversi tipi di esperienze portano a diverse strutture cerebrali’, afferma il Dr. Bruce D. Berry … è molto probabile che il cervello dei nostri studenti sia cambiato fisicamente – e sia diverso dal nostro – come risultato di come sono cresciuti. Ma che questo sia o meno letteralmente vero, possiamo dire con certezza che i loro modelli di pensiero sono cambiati”.

Voliamo bassi. Fermiamoci al riconoscimento di un diverso modello di pensiero e – lo dico dal punto di vista della scuola – cogliamone gli elementi di forza e non limitiamoci a lamentarci degli elementi di debolezza.

Considerate queste parole chiave: superficialità, connessioni, velocità, risultato, condivisione. Nel mondo digitale sono strettamente intrecciate. Ci si sposta in superficie di connessione in connessione, lo si fa velocemente per raggiungere risultati che si condividono.

Che senso hanno quelle parole nella scuola? Alla prima attribuiamo in genere un valore negativo: superficialità significa non andare in profondità. Alla penultima, risultato, diamo in genere un senso positivo: ottenere un risultato è importante. E velocità? Ottenere velocemente un risultato sarebbe ottimo, ma voler essere troppo veloci potrebbe inficiare la bontà del risultato. La velocità potrebbe essere frutto, o causa, di superficialità.

La scuola si è sempre data tempi lunghi (lenti), quelli necessari ad approfondire. È strutturata in discipline: si approfondiscono separatamente, lentamente, in percorsi di anni. Le stesse discipline sono internamente segmentate: grammatica e sintassi, geometria e aritmetica, geografia economica e geografia politica e così via.

E le connessioni? Le connessioni sono pensate come risultato finale, un quasi spontaneo andare a posto delle tessere di un puzzle: non a caso i “collegamenti” nel linguaggio della scuola compaiono, come per magia, solo nel momento dell’esame conclusivo (già esame di maturità, ora esame di stato). E invece nel web i link – i collegamenti – sono la struttura di fondo. Di link in link si fa surfing stando in superficie. E nel web 2.0 sono centrali le connessioni fra persone: gli amici, i followers, i “mi piace”, i “condividi”. Ecco che compare la parola che avevo lasciato da parte, condivisione, che nella scuola spesso viene usata solo per un divieto: “non copiare”.

Vedere nel concetto di superficie solo la mancanza di profondità e non la rete di connessioni è vedere solo un aspetto – quello che manca e su cui è importante lavorare – e non il punto di forza – la ricerca dei collegamenti – che è quello su cui far leva (anche per superare i punti di debolezza).

Ho parlato di surf: cavalcare l’onda è il risultato da raggiungere, è la sfida.

Il digitale propone risultati immediati: scrivo e immediatamente il messaggio arriva a destinazione, viene visto, riceve o non riceve like. Scatto la foto e immediatamente la rendo visibile e, anche qui, misuro il successo in termini di “mi piace”, di condivisioni, di commenti. Non sono più i tempi in cui si andava in vacanza, si scattavano le foto, al ritorno si portava il rullino a sviluppare, poi, quando si organizzava – magari a distanza di mesi – la cena con gli amici, si mostravano le foto. Ma il ritmo che la scuola propone è ancora quello: un pezzo alla volta, magari approfondito, ma senza le connessioni e senza risultato immediato e da condividere. Come si può pensare che sia coinvolgente per studenti che vivono nella logica del risultato subito?

Che sfide propone la scuola?

Dicevo della rivista Bricks: è un osservatorio interessante su quanto di meglio avviene nelle scuole. Chiediamo ai docenti di raccontare le loro esperienze di “didattica digitale” (espressione ambigua ma che ha il pregio della sinteticità). Dalla primaria alle superiori, le esperienze che appaiono essere più gradite agli studenti e conseguire migliori risultati didattici (che sono fortemente legati alla motivazione) sono quelle in cui c’è una sfida: qualcosa da produrre e da mostrare. Può essere tangibile come un robottino, una centralina per il controllo dell’aria, un giornalino cartaceo, la rete della scuola, i cartelli con QRCode da attaccare sotto i monumenti del paese, … o solo digitale come un giornale online, un blog, un sito web, la mappatura del territorio, una APP, un piano d’impresa, Più il prodotto non è fine a se stesso ma serve a qualcosa/qualcuno – la APP per l’ufficio del turismo o per l’ASSL, i QRCode e pagine Wikipedia per raccontare le cascine del Comune, il piano di impresa per avviare davvero una start-up- più l’esperienza racconta il coinvolgimento emotivo degli studenti e la messa in campo delle loro energie migliori.

In sintesi

Per dare un senso all’azione degli insegnanti e per comunicare i risultati da raggiungere agli studenti e alle famiglie non basta far riferimento alla sintetica descrizione data nel Modello di certificazione delle competenze – “Utilizza con consapevolezza e responsabilità le tecnologie per ricercare, produrre ed elaborare dati e informazioni, per interagire con altre persone, come supporto alla creatività e alla soluzione di problemi” (così per la conclusione del 1° ciclo, non molto diversa quella per la conclusione della Primaria) – ma occorre dettagliare, facendo riferimento a DigComp e, magari, ai moduli della certificazione ECDL.

Ma è ancora più importante che al riconoscimento degli studenti quali “nativi digitali” corrisponda una scelta di pratiche didattiche coerenti con i modelli della società digitale.

Questo sia per parlare agli studenti nel loro linguaggio, sia per sviluppare le competenze che la società digitale richiede e che, ovviamente, gli studenti non hanno anche se hanno già acquisito alcuni atteggiamenti/comportamenti tipici del contesto digitale in cui sono immersi dalla nascita.

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