videogame culture

Se i videogiochi ci aiutano a conoscere la Storia: i casi di Venti Mesi e War of Heroes

Il realismo, nei videogiochi, non è più solo una questione grafica, è la possibilità che una storia ha di farci rileggere la realtà, di farcela vivere con cruda partecipazione, come se ci immergessimo in essa. Gli esempi del docu-game Venti Mesi e di War of Heroes sulla resistena del Myanmar

Pubblicato il 16 Set 2022

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

war of heroes

I videogiochi sono solo giochi? Il realismo narrato e giocato sta davvero diventando realtà. Non è solo la grafica o il racconto, cioè la capacità dei videogame di farci riflettere, di farci immergere nella storia permettendoci di esserci anche se non ci siamo stati.

Il realismo ormai è concreta partecipazione. War of Heroes, mobile game sulla resistenza del Myanmar, è stato scaricato quasi 400.000 volte e addirittura da monaci buddisti, nonostante il loro credo glielo vieti. Il motivo è proprio il fatto che questo non sia solo un giochino da cellulare: prendervi parte permette di finanziare la resistenza in Myanmar. Insomma, ormai non è più possibile credere che videogiocare sia un passatempo per bambini.

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Il docu-game Venti Mesi

“Guarda nonno, in questo gioco parlano di Pippetto!” Un minuto di assestamento (o forse di esitazione) e mio nonno, classe 1933, guarda lo schermo del pc e mi risponde: “Era stato lui a gettare quella bomba che quasi morivamo, io e mio fratello. Di notte non era più sicuro stare in casa, infatti per tre mesi (ma forse anche di più, non ricordo) tutti noi della zona fummo costretti a rimanere nel rifugio a dormire”.

Quasi a confermare le parole di mio nonno (nell’originale il racconto si deve pensare tutto in genovese), il docu-game Venti Mesi continuava la sua narrazione degli ultimi venti mesi di guerra, dall’armistizio del ‘43 alla caduta del fascismo. Come mio nonno anche il bambino aveva paura della luce accesa, perché Pippo (così era chiamato altrove nel Nord Italia) colpiva le case brulicanti di vita. Però, come ogni bimbo, aveva anche paura con la luce spenta e come non dovrebbe accadere a nessun bambino aveva paura delle bombe. Si chiedeva, poi, che cosa fosse Pippo. Mio nonno, lapidario o forse solamente in tono documentaristico, gli rispose: “Pippetto era inglese”.

Venti Mesi – Made by We Are Müesli.

Una volta, mi raccontava, videro un’ombra di aereo sul terreno illuminato dalla luna piena, quella luna che ti conforta nei momenti di pace, ma che se c’è il coprifuoco può fare il gioco dei cattivi e dei buoni che li cercano. Mio nonno ricordò come tutti furono presi da terrore: Pippo li aveva trovati anche nel rifugio! Per fortuna fu solo un’illusione: la prospettiva faceva apparire vicina a loro un’ombra di aeroplano altrimenti distante.

“Sai perché quella notte Pippetto sganciò la bomba e un macigno fu rimbalzato sulla nostra camera da letto? Un vicino di casa aveva la suocera che stava morendo. Decise di uscire e di andare a cercare il prete perché l’anziana potesse ricevere l’estrema unzione: Dio in questi momenti diventa ancora più importante. C’era un problema: lui era un reduce della Prima Guerra Mondiale, quindi, lanterna in mano, si vedeva benissimo il suo incedere claudicante. Per questo l’aereo sganciò la bomba!” Mi sembrava così assurdo che tutto questo sia stato reale. Davanti a me avevo un testimone della follia umana che mi faceva notare quanto dormire possa essere un lusso.

A volte mio nonno mi domanda se ai miei alunni spiego già la Seconda Guerra Mondiale. La sente ancora vicina; ancora si porta addosso tutti i ricordi di quel periodo ed è per questa ragione che gli sembra pazzesco che sia già sui libri di storia e che io, sua nipote, insegni la sua memoria sotto forma di date, processi storici, nomi, storiografie. “Sì, nonno”, gli rispondo. “Insegno anche gli anni del boom economico, quando costruivi le case”.

Venti Mesi e il potere dei giochi

Ecco il potere dei giochi e dell’arte in generale: possono connettere i membri di una famiglia, dal più giovane al più anziano, che qui aumenta la narrazione di un suo resoconto prezioso. I videogame, si sa, aiutano a immergere molto di più nella storia, diventando un supporto straordinario anche per la didattica, come più volte ho esplicitato.

Venti Mesi permette di fare proprio questo. Si tratta di una storia interattiva realizzata dal duo We are Mueslie in occasione della Liberazione con il supporto della Regione Lombardia. Tra un mese e l’altro, come a scandire i capitoli che finalmente porteranno l’utente al 25 Aprile, ci sono le testimonianze tratte dal Dizionario del Partigiano anonimo: testimonianze davvero preziose. Anche la grafica, minimale, è perfetta per far immergere nella storia. Perché questo è il fine del gioco: fare in modo che si rivivano con struggente realismo gli attimi che hanno riguardato il nostro passato, perché resti per sempre tale. C’è Radio Londra con le sue formule bizzarre trasmesse per comunicare le notizie a chi resisteva senza fare scoprire il giochino al nemico; ci sono il mercato nero, con i suoi risvolti tragici, di chi non poteva permettersi il cibo e allora soccombeva e chi, invece, per garantire alla famiglia un cucchiaio in più di minestra accettava di tesserarsi e di chiamare il figlioletto Benito.

Il realismo, allora, non è solo una questione grafica, è la possibilità che una storia ha di farci rileggere la realtà, di farcela vivere con cruda partecipazione, come se ci immergessimo in essa quasi quasi in misura maggiore che non a viverla direttamente. Spesso, infatti, per prendere coscienza della vita abbiamo bisogno di allontanarci da essa, abbiamo bisogno di vederla al cinema, di leggera in un libro o in un saggio, di pensarla filosoficamente. I quei momenti non ci si trova nella realtà, sono attimi di sospensione, di allontanamento dai fatti, tuttavia si tratta dell’unico modo perché, al termine di quell’episodio di epochè artistica, si possa prendere coscienza piena di quel che ci accade. È questo che fanno i videogiochi. Ci immergiamo in una simulazione che ci permetterà di farci essere maggiormente una volta cliccato “abbandona gioco”.

War of Heroes, il videogioco sulla resistenza nel Myanmar

Qualche tempo fa era apparso sul New York Times un articolo che riguardava un mobile game sulla. Sein Lin, ex docente di storia in pensione, mentre era su Facebook vide la pubblicità di un gioco: War of Heroes – The PDF game. Non aveva mai giocato prima di allora, ma questa volta il fatto che si trattasse di una simulazione della resistenza nel suo Paese aveva fatto sì che l’anziano scaricasse il gioco e si calasse nella parte. Giocare gli dava la parvenza di agire davvero per la libertà del suo popolo.

Mi domando, è solo un’illusione? Il realismo in questo caso non riguarda una preparazione da spendere poi sul campo, come accade per altri giochi utilizzati ampiamente dalle truppe americane e non è nemmeno un’immedesimazione come potrebbe essere guardare un film a tema. Nel caso dell’app uccidere soldati che al di là dello schermo stanno brutalmente colpendo i civili del paese birmano ha un significato più profondo della semplice immedesimazione e sublimazione di Thanatos. Se ci pensiamo oggi giocare a un videogame è anche comunicare tramite i nostri dati la nostra ideologia. Per la prima volta il gioco non è solo una finzione: ciò che facciamo su un mobile game, quante volte è scaricato, da chi, è un modo per dire la nostra concretamente. Com’è ovvio, un utente nel Myanmar per poter giocare ha bisogno della VPN; perciò, giocarvi è un autentico atto di coraggio. Si rischia molto.

War of Heroes presenta, poi, altri livelli di realismo e di partecipazione. Innanzitutto, gli stessi sviluppatori, tre artisti del Myanmar fuggiti poco prima del golpe, hanno rilasciato il gioco come un tempo gli umanisti distribuivano giornali clandestini, poesie, racconti, musiche, dipinti e utopie filosofiche. I programmatori hanno sentito una forte motivazione a creare qualcosa per resistere da distante, per dare il loro supporto ai familiari e colleghi arrestati per aver preso parte a movimenti contro la dittatura militare. Tale contributo, attenzione, non è solo ideologico, perché hanno dichiarato che i proventi dell’app sarebbero andati totalmente al finanziamento della causa della resistenza in Myanmar. Insomma, War of Heroes rappresenta un gioco dove la quarta parete è stata completamente abbattuta da strategie impensabili in tempi passati.

Conclusioni

Vi domando se questi siano ancora definibili solo dei semplici giochi. Forse, all’evolvere della società digitale dovremmo sempre più riconsiderare il ruolo che hanno i videogame, un ruolo capace di condizionare la politica, di farla o di aggirarla, come il caso di Wallpaper Engine.

Recentemente il MIT aveva studiato l’enorme successo di quest’applicazione utilizzata prima faciae per creare wallpaper animati, statici, da distribuire infine sul negozio di Steam. Secondo i ricercatori, alla base del successo dell’app non c’è l’interesse per le fanart, piuttosto il sistema viene utilizzato dai cinesi per distribuire video pornografici, altrimenti banditi dalla rigida censura mandarina. Come si comprende il potenziale del gaming va ben oltre alle idee che si potrebbero avere di esso, tutto sta nella creatività umana, capace di cooptare la tecnologia per altri innumerevoli usi.

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