Uno dei prerequisiti della democrazia è la disponibilità di luoghi di confronto. Luoghi che oggi sono rappresentati anche dai fori virtuali, gestiti dalle piattaforme internet. Una trasmigrazione che presenta, come vedremo, pro e contro.
La metafora della Town Hall
A proposito dei luoghi di confronto, Meiklejohn per spiegare la necessità dello scambio fra opinioni, formulò la cosiddetta metafora della Town hall, ossia del luogo ove i pensieri politici potessero scontrarsi e la verità – in senso Milliano, ossia il pensiero il pensiero “più razionalmente convincente” – emergere. Andando più indietro nel tempo, lo stesso concetto lo troviamo indissolubilmente legato alla agorà greca o ai fori romani: luoghi fisici di incontro e dibattito.
Con tutti i caveat necessari, questa concezione di marketplace of ideas (il mercato delle idee) – seconda un’altra ben nota metafora costituzionale – è trasmigrata in tutte le democrazie occidentali.
Per far funzionare le democrazie sono, dunque, necessari e imprescindibili luoghi fisici e non di incontro e strumenti di comunicazione, che in molti ambiti sono stati soggetti a importanti regolamentazioni per garantirne la funzionalità democratica.
Democrazia e censura “di Stato”
All’interno di questa dinamica le “regole del gioco” democratico, ossia in che forme il discorso dovesse circolare in questi spazi sono state tendenzialmente dettate – in termini di censura – dallo Stato: dall’ente che assumeva la democrazia come regola per decidere come una collettività doveva muoversi e portarsi.
L’avvento di Internet oggi ci pone, invece, di fronte a due fenomeni importanti e antitetici.
L’apertura “in potenza” di nuovi incredibili spazi di democrazia su Internet, che rende possibile l’accesso a nuovi canali di comunicazione e di democrazia dai confini infiniti, ma anche dalle incredibili capacità di raggiungimento del pubblico.
Non è, infatti, un caso che le campagne elettorali ormai si giochino in buona parte sul Web e con il cambio generazionale questo sarà ancora più evidente.
A questa tendenza di apertura se ne è, tuttavia, contrapposta un’altra: quella dell’acquisizione e dell’occupazione di tali fori virtuali da parte delle Internet Platforms.
Queste nuove enclosures hanno plasmato e delimitato con proprie regole gli spazi di Internet.
La privatizzazione della censura
In questo contesto è emerso il fenomeno della privatizzazione della censura.
Possiamo evidenziare che esistono due tipi di censura online, secondo una ricostruzione riproposta recentemente:
- la privatizzazione de facto della censura, come effettuata in autonomia da parte delle Internet platforms, e
- la privatizzazione de jure della censura, come portato delle normative di uno stato.
La prima risponde alle regole proprie delle piattaforme digitali che sui loro spazi si arrogano – secondo schemi tipici del diritto privato – il diritto di regolamentare il tipo di discorsi e i loro limiti contenutistici: potendo oscurare profili o vietare determinate condotte espressive. È la cosiddetta moderazione, in parole povere, o le policies/regole di condotta.
Un recente studio americano ha definito, da questo punto di vista, le Internet platforms come i “Nuovi governi” della Rete soprattutto a causa dell’enorme influenza che esse giocano sulla democrazia online.
La privatizzazione della censura de jure può distinguersi invece in:
- privatizzazione funzionale della censura, legata alla mera esecuzione di ordini provenienti dall’autorità pubblica; si pensi per esempio all’ordine giudiziale di oscuramento di un sito o alla rimozione di un commento diffamatorio da un social network come portato di una sentenza
- privatizzazione sostanziale della censura, riguarda invece la delega alle piattaforme delle valutazioni sostanziali sulla liceità dei contenuti da eventualmente rimuovere e può essere assimilata, rispetto all’autonomia delle decisioni delle Internet Platforms, alla privatizzazione della censura de facto. Raramente infatti il decisore statale pone dei controlli sulle attività che delega alle Internet platforms.
In questo secondo campo, gli enti pubblici delegano, dunque, la rimozione di contenuti illeciti alle Internet platforms, lasciando loro ampia discrezione e permettendo dunque potenzialmente anche la rimozione di contenuti leciti.
Un esempio di questa prassi è sicuramente il codice contro l’hate speech della Ue, ma anche, più recentemente, il Code of Practice on Disinformation sembra instradarsi in questa direzione.
Privatizzazione della censura: i problemi
In questo contesto si pongono due ordini di problemi:
- il rischio che questi attori privati monopolistici – le piattaforme che contano per il discorso democratico sono relativamente poche (Google, Facebook, Twitter, etc.) – eliminino, di propria e insindacabile sponte, determinate idee politiche dal mercato delle idee online (e se si proibisse l’ideologia ambientalista? il liberismo? Il socialismo? E tutti i pensieri connessi) deprivandone nel mondo odierno della forza di espandersi e circolare;
- il rischio che mediante “mandato” di enti pubblici le Internet platforms espandano il loro potere attuando la stessa censura contenutistica ma con un manto di legittimità “democratica” (lo stato, l’Ue mi fornisce “mandato”).
Cosa fare dunque?
Le internet platform come fori pubblici
Negli Stati Uniti, alcuni costituzionalisti hanno proposto di estendere alle Internet platforms la cosiddette state action doctrine, ossia considerare le stesse come “fori pubblici”.
In base a questa teoria giurisprudenziale se una compagnia privata “occupa” un foro pubblico essa non può procedere alla censura contenutistica del discorso pubblico: depriverebbe altrimenti la democrazia dei prerequisiti del suo funzionamento.
In base a questa dottrina, la Corte Suprema USA ha proibito alle imprese che possedevano le cosiddette company towns – ossia grandi complessi in cui compagnie private, con un proprio servizio d’ordine, gestivano delle vere e proprie cittadine per i propri dipendenti – di compiere scelte ideologiche e contenutistiche sulle manifestazioni del pensiero che gli “abitanti-dipendenti” avessero (proibire manifestazioni, ideologie, volantinaggi, comizi etc.).
Visto che un’impresa aveva il controllo esclusivo di un foro pubblico insostituibile e ad esso non vi erano alternative di altri luoghi di riunione e comunicazione si riteneva che la stessa compagnia dovesse rispettare la libertà di espressione dei soggetti che in essa vivevano, esattamente come fosse un governo. Senza, dunque, compiere censure contenutistiche e ideologiche.
La domanda che ci si può porre è, allora, in che cosa differisce Facebook o Google da una company town? Queste Internet platforms controllano enormi company towns digitali in cui spesso si formano i convincimenti politici e si dibattette e a cui poche alternative ormai si pongono.
Non sarebbe, dunque, opportuno anche su queste piattaforme garantire la libertà di espressione degli utenti senza censure contenutistiche di tipo ideologico?
La questione in Italia
Nel nostro Paese non esiste una teoria simile a quella della state action doctrine o una giurisprudenza della Corte Costituzionale equivalente, se non in materia – in parte – di formazioni sociali.
La scelta sembra quindi in parte rimessa alla politica, in assenza di un caso di studio da proporre alla Corte Costituzionale: forse in quest’ambito una legge costituzionale o una modifica del testo costituzionale che decida di garantire la libertà di espressione anche su questi fori pubblici così importanti per la democrazia sarebbe necessaria. Una legge condivisa, tripartisan e attenta a tutti i profili economici, tecnologici e sociologici che questa sfida incorpora.
Questo, se si vuole dare una risposta positiva agli interrogativi sopra posti. Altrimenti “chi vivrà, vedrà. Hakuna Matata”.