Il progressivo “ban di Trump” da parte delle piattaforme online e la successiva eliminazione dagli app stores della piattaforma alternativa Parler, dove si erano trasferiti i suoi supporter, ha innescato un enorme e a tratti scomposto dibattito. Una grande varietà e quantità di opinioni sono state espresse, peraltro focalizzandosi su aspetti connessi ma diversi. La complessità della vicenda fa sì, infatti, che svariati siano gli elementi rilevanti: da quelli giuridico-costituzionali sulla libertà di espressione, di informazione e di pluralismo, a quelli politico-istituzionali sulla democraticità dell’assetto dei diritti e poteri pubblici e privati, e quelli giuridico-economici sul potere economico e di mercato, posizioni dominanti e tutela dei consumatori-utenti.
Ban di Trump e Parler, il dibattito
Alcuni frammenti di dibattito hanno attirato molto la mia attenzione, sia per la pertinenza e profondità degli argomenti sia per la conoscenza che ho degli autori e delle loro posizioni. Uno di questi è l’articolo di Alessandro Longo e Guido Scorza, proprio su agendadigitale.eu, che mi ha ispirato, e da cui prendo spunto per ampliare la pletora di soggetti che hanno espresso opinioni al riguardo, cercando di rispondere e contribuire al dibattito.
Come giustamente si ribadisce nell’articolo, è fondamentale distinguere la situazione de iure condito da quella de iure condendo, ovvero riflessioni giuridiche basate sul diritto esistente, da riflessioni di politica del diritto su come dovrebbe evolvere il diritto esistente.
In base a questa fondamentale distinzione, se la decisione delle piattaforme di estromettere Trump dai social costituisce un problema, la responsabilità di tale situazione problematica è politica, ovvero da imputarsi ai legislatori e policy-maker che non hanno regolato o hanno regolato in “modo leggero” le piattaforme. Non c’è una responsabilità delle piattaforme stesse, né giuridica (a meno che un giudice non lo stabilisca – a proposito mi chiedo se Trump abbia sollevato un ricorso giurisdizionale al comportamento delle piattaforme?) né tantomeno politica.
Stato di diritto e rischi democratico
Lo stato di diritto è infatti anche basato sulla fondamentale distinzione fra la sfera del lecito da un lato, in cui agiscono secondo il principio di legalità i soggetti privati, e la sfera del legittimo dall’altro, ove agiscono i soggetti pubblici. I soggetti privati hanno gradi di libertà (e non di discrezionalità) per cui possono lecitamente fare ciò che non è loro vietato e quindi ad esempio, non si può loro imputare un “abuso di potere” come alle pubbliche amministrazioni. Certo esiste l’abuso del diritto e anche ovviamente la “speciale responsabilità” antitrust per i soggetti dominanti, ma queste sono appunto fattispecie basate su un potere economico o di mercato, e non sul potere di imperio dei soggetti pubblici.
Ecco perché ho dubbi circa il riferimento al rischio democratico, in quanto le regole ed i principi che si invocano servono soprattutto a difendere il regime democratico dallo stesso potere pubblico e non da un potere privato. Con questo intendo dire che la scelta di non regolare o meglio regolare in maniera leggera le piattaforme, a mio giudizio, è una scelta che ben può essere compatibile con un regime democratico, demandando a soggetti privati la definizione di regole per un certo settore (ordinamento separato o sezionale), la quale azione è ovviamente sempre soggetta ad un imprescindibile controllo giurisdizionale.
Con questo non voglio affatto affermare che questa è la mia scelta di policy preferita, anzi, è mia opinione che sia necessario un intervento pubblico più incisivo sia in termini di creazione delle regole (co-regolazione) sia in termini di loro implementazione. Un intervento pubblico appare opportuno quando si effettua un bilanciamento fra diritti. Così come l’intervento privato sembra necessario per garantire efficacia ed effettività a tale operazione di bilanciamento, usando le capacità informative e computazionali delle piattaforme.
Potere di mercato e mancanze della politica
Il diverso assetto attuale dei diritti è tuttavia una scelta di policy, perché quando il policy maker non regola sceglie di non regolare, che è ben compatibile con un regime democratico, ovviamente comprendente il ricorso giurisdizionale verso le azioni delle piattaforme. Per questi motivi, la posizione della cancelliera Merkel (e del ministro dell’economia francese) – “è possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore, e non per decisione di un management aziendale “ – suona, oltre che imprecisa, anche vagamente ipocrita. Se questa situazione è problematica, come sostiene, non è la chiusura degli account ad esserlo ma la mancanza di norme che l’abbiano impedita o fatta avvenire con modalità diverse (attraverso, ad esempio, una decisione giurisdizionale o altra Autorità pubblica preposta). In alcuni ordinamenti, come quello italiano, esistono poi riserve di legge e di giurisdizione, ma anch’esse (sebbene quelle di cui all’art 21 c. 3 della nostra costituzione non sembrano proprio potersi applicare a casi analoghi a quello di specie) hanno come scopo il limite dei poteri del governo, per impedire degenerazioni antidemocratiche, e sono rivolti ad un’azione del legislatore.
Il problema è in definitiva, secondo me e secondo tanti altri, ovviamente il potere di mercato e non le modalità di azione privatistica delle piattaforme, che comunque vanno regolate per tutelare gli utenti-consumatori. É lo strapotere economico e di mercato che fa vedere un servizio privato come un “servizio pubblico” o un “servizio essenziale” per lo svolgimento di diritti e, di conseguenza, l’esclusione ed interruzione della prestazione di servizio per violazione del contratto come un problema “pubblicistico” e non di mero contenzioso fra le parti. Tutto ciò crea infine una “confusione” sulle modalità legali di azione delle piattaforme, dislocate in qualche luogo fra la sfera del lecito e quella del legittimo, e sulla la natura delle finalità che queste devono perseguire. Il problema è il potere di mercato e il potere negoziale ed allora concentriamo le azioni di policy e risolviamo il problema, come peraltro sta proponendo il policy maker europeo con il DSA e il DMA (sebbene questi non sembrano risolvere i problemi della transazione implicita dei dati con i servizi). Lasciamo le piattaforme pienamente in ambito privatistico e non investiamole dello “status” di “servizio pubblico regolato”, che nel lungo periodo sarebbe paradossalmente un elemento controproducente nello stabilire limiti effettivi ed efficaci al loro potere economico e di mercato.
Le conseguenze dell’editto bulgaro contro Parler
Per tutti questi motivi un significato e delle conseguenze giuridiche molto diverse può assumere l’”editto bulgaro” per come definito nell’articolo di Longo e Scorza, ovvero la decisione di Google, Apple e Amazon di escludere “Parler” e altre piattaforme dai loro canali di commercializzazione e diffusione.
Essendo il problema principale il potere economico e di mercato, il diffondersi e l’accrescere della base utenti di piattaforme alternative è di per sé positivo. Come ben sappiamo, oltre la transazione implicita dei dati con servizi gratuiti che accresce l’efficienza algoritmica delle piattaforme dominanti, il problema di mercato principale sono gli effetti di rete ed il loro impatto sui costi di switch dell’utente. In questo contesto, l’azione di Facebook di esclusione di Trump ha rappresentato uno shock esogeno che ha diminuito i costi di coordinamento e l’impatto degli effetti di rete per una bella porzione di utenti, consentendo un collective switching con effetti pro-competitivi. È vero, come sottolinea Antonio Nicita sul sole24ore di ieri, che in questo modo si passa dalle echo chambers alle echo platforms. Ovvero che gli effetti di riduzione del pluralismo derivanti dall’efficienza algoritmica che ci propone (principalmente) prodotti e opinioni che già ci piacciono (aumentando esponenzialmente l’effetto del confirmation bias) sono traslati in una nuova piattaforma, non moderata, in cui tutti la pensano più o meno allo stesso modo. Tuttavia, la differenza – la grande differenza – di questi due fenomeni di echo è la scelta consapevole dell’utente che cambia piattaforma nel circoscrivere il suo mondo e ciò che vede e sente. Azzardando un esempio – con le debite differenze – questo non sembra così difforme da ciò che fa chi compra un certo quotidiano schierato politicamente per avere notizie sotto una certa visione del mondo.
Infine, ciò che rende a mio giudizio molto diversa la posizione degli app store ed i canali di distribuzione delle piattaforme alternative, oltre ad eventuali profili di discriminazione e quindi abuso di potere dominante, è il loro mettere in atto un giudizio, questo sì, di ordine pubblicistico.
L’esclusione di piattaforme alternative rappresenta innanzi tutto una limitazione dell’attività di impresa che si esplica nell’interezza del mondo sociale ed economico, e non esaurisce i suoi effetti all’interno della piattaforma di distribuzione e del servizio da questa fornito; peraltro, l’esclusione è basata sulla non conformità delle regole di moderazione delle piattaforme alternative vis à vis le regole interne degli app store: non si vede per quale motivo quest’ultime debbano essere sovraordinate gerarchicamente. Peraltro, se si pensa alla scelta/non-scelta del policy maker, cui mi riferivo sopra, esiste comunque una scelta di policy, delle regole e un assetto delle situazioni giuridiche soggettive: Google, Apple e Amazon non possono sostituire la loro scelta, le loro regole a quella definite (in positivo o negativo) dal policy maker che (al momento) non impone sulle piattaforme social nessun obbligo specifico di moderazione dei contenuti.
È in definitiva tutto molto complesso, perché estremamente complessa è la realtà sottostante che cerchiamo di commentare. Credo sia molto difficile, se non impossibile, arrivare a certezze complessive. E proprio per questo ogni posizione diversa, e le diverse sfumature di posizioni simili, arricchiscono il dibattito.