La scuola innovativa, in grado di educare alla cittadinanza e alla cultura digitale è possibile ed è concretamente realizzabile, oggi, con quello che abbiamo. Ma bisogna riuscire a fare sistema e a rendere la scuola una esperienza vitale e soddisfacente per tutti. Perché la rete può sicuramente modificare la scuola, a condizione però che la scuola sia in grado di utilizzare le potenzialità che il digitale offre. Affinché ciò accada c’è bisogno innanzitutto, come fece la Montessori a suo tempo, di smontare l’ambiente, ma non solo.
Partiamo, allora, da quello che non bisogna fare.
Digitale e ambiente di apprendimento
L’errore peggiore è far fare alle tecnologie le stesse cose che possiamo fare in un altro modo. Il passaggio è che il digitale si sviluppa, se noi trasformiamo l’ambiente di apprendimento: aule, banchi e lavagna sono state costruite per un modello trasmissivo, così come l’orario degli insegnanti e gli strumenti per la didattica. La struttura disciplinare è ottocentesca. La scuola usa da sempre le tecnologie (lavagna, penna, libro), ma gli studenti vedono oggi il computer come noi vediamo la penna perché ci sono nati dentro: qualcosa di assolutamente normale. Che cosa fece la Montessori, quando si voleva fare scuola senza imparare a memoria il libro di testo? Smontò l’ambiente. Noi dobbiamo smontare l’ambiente.
Quando entriamo nella verticalizzazione delle discipline, la lezione frontale e i libri di testo prendono il sopravvento. La rappresentazione della conoscenza oggi non è più lineare, ma reticolare. I linguaggi digitali stanno e devono stare nella pratica educativa di tutti i giorni: chiudete i laboratori di informatica. La scuola è un luogo educativo: vanno misurate la motivazione ad apprendere, la persistenza.
Cittadinanza e cultura digitale
Queste parole di Giovanni Biondi, Presidente dell’Indire, hanno chiuso il Seminario nazionale su Cittadinanza e cultura digitale, che si è tenuto a Milano il 14 e 15 febbraio. Organizzato dal Miur e dal Comitato Scientifico Nazionale per le Indicazioni per il primo ciclo di istruzione, è stata una occasione per raccogliere e comunicare le migliori esperienze di educazione alla cittadinanza e alla cultura digitale, realizzate dalle scuole italiane.
Ho partecipato a un workshop come esperta di “tecnologie digitali e pensiero critico”, ma più che esperta mi sono sentita testimone di uno svelamento. Prima di proseguire, ricordo che alla pubblicazione delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione (2012), è seguito un periodo di tre anni nel quale il Comitato scientifico ha sostenuto e monitorato una sperimentazione, che ha portato poi al modello di Certificazione nazionale delle competenze, attualmente in vigore.
Sperimentazioni e didattica quotidiana
I report nazionali sulla sperimentazione raccontavano esperienze di innovazione creative e virtuose, ma anche situazioni di disorientamento e incertezza, le consuete resistenze ad abbandonare modelli didattici tradizionali di tipo prevalentemente trasmissivo.
Valorizzare l’autonomia e la responsabilità degli alunni era la caratteristica dominante di tutte quelle progettazioni all’avanguardia e perfettamente in linea con le Indicazioni nazionali.
Era il 2015, ora siamo nel 2019: che cosa è cambiato?
Questo articolo vuole lanciare degli appelli, un po’ come ha fatto Biondi rivolgendosi ad una platea di docenti, dirigenti scolastici, personale degli uffici scolastici regionali, funzionari e dirigenti del Miur, ospiti come me, membri del Comitato scientifico che ha prodotto il documento “Indicazioni nazionali e Nuovi scenari”.
Tutti i progetti che ho letto e che ho ascoltato hanno dei punti in comune:
- Sono trasversali: vanno al di là delle discipline insegnate a scuola, eppure le comprendono tutte. Sono stati insegnanti “disciplinari” a pensarle e pianificarle, ma le hanno immaginate al di là delle proprie competenze legate alla loro classe di concorso o alla materia, dimostrando curiosità e flessibilità e mettendosi al servizio della classe come farebbe un affabile ricercatore e un coatch affettuoso.
- L’uso del digitale è creativo e pedagogicamente motivato: una maestra di seconda elementare, dopo un anno di tablet in classe, ha proposto di passare ai chromebook per recuperare la manualità dei bambini e lavorare sulle funzioni del dispositivo in modo critico. Un docente di lettere ha recuperato il dialetto della sua terra per sviluppare le potenzialità di tutti gli alunni, aiutandoli a realizzare uno storytelling con pietre di mare e stop motion. Altri sono partiti dalle riflessioni sulle opere d’arte e sui falsi d’autore, per lavorare sui diritti e sul valore delle immagini.
- I progetti sono stati coinvolgenti e motivanti, sia per gli alunni che per i docenti: le tecnologie sono state leve per rendere sensibili bambini e ragazzi a questioni grandi, importanti e sfidanti. Ogni docente si è messo alla prova per trovare le migliori soluzioni, personalizzando percorsi e scegliendo accuratamente app, dispositivi, contesti autentici e tecniche con lo scopo di far raggiungere il successo formativo a tutti gli studenti.
- Carattere laboratoriale cooperativo: tutte le esperienze hanno avuto un forte e pervasivo carattere pratico, senza mai però trascurare conoscenze e riflessione su ciò che si stava facendo e perché e potenziando l’aspetto sociale dell’apprendimento.
- Metacognizione e problem solving erano alla base di ogni esperienza: premessa, ma anche strumento per fa autovalutare le esperienze, come un meraviglioso work in progress dell’imparare ad imparare.
- Osmosi tra scuola e territorio: la scuola ha scavalcato le mura dell’aula e ciò che era fuori, è entrato nella scuola. Esperti e professionisti sono stati invitati e coinvolti, viceversa le attività sono state comunicate spesso all’esterno, coinvolgendo le famiglie, le comunità locali, il territorio.
- I docenti sono educatori: il ruolo degli insegnanti non si è limitato a trasferire competenze o impartire istruzioni, ma ha compreso tutti gli aspetti dell’apprendimento. Emozioni, funzioni cognitive, soft skills, competenze sociali, empatia: la complessità dei lavori raccontati ha tenuto conto di questo e di molto altro.
Cosa è cambiato dal 2015
Che cosa è cambiato dal 2015? Dalle osservazioni critiche di chi ha prodotto quei lavori, forse poco, troppo poco.
La domanda allora è: perché non si può fare scuola così tutti i giorni? Perché limitare a pochi mesi la sperimentazione di un curricolo, che può trasformarsi in pratica educativa quotidiana? Riprendo le parole di Biondi.
Trasformare gli ambienti di apprendimento: che fine hanno fatto gli atelier, i fablab, il Byod, le classi 2.0? Che cosa impedisce di ripensare gli spazi dell’educazione perché siano integrati dalle tecnologie e aumentati dallo scorrere di attività connotate da crossmedialità e interdisciplinarietà, cooperazione e valorizzazione delle potenzialità?
Tra i punti critici evidenziati: le risorse, talvolta inadeguate, e la formazione dei docenti. La spinta etica che dovrebbe motivare una educazione critica all’uso della rete e delle tecnologie dovrebbe divenire pervasiva, procedere nella scuola per contagio da docente a docente, illuminare le aule di curiosità, creatività ed empatia.
Forse però occorrerebbe (e anche questo non lo ha detto solo Biondi) riformulare il ruolo del docente, ripensare l’orario scolastico, destrutturare le discipline per ritrovare il senso del sapere e della ricerca, smontare strutture che non sono più adatte alla scuola del XXI secolo. Proposte?