Nonostante la produzione crescente e la riproducibilità infinita, l’offerta di dati affidabili e di qualità risulta tuttora insufficiente se comparata alla domanda: i dati, quindi, non riescono a creare quel valore aggiunto tanto auspicato per le imprese europee.
Per questo la politica europea sta spingendo per favorire dinamiche di data sharing tramite l’istituzione di “Data Spaces” comuni, e intende investire almeno due miliardi di euro con l’obiettivo di promuovere “un progetto ad alto impatto su spazi europei dei dati” (Source: A European Strategy for Data).
Lo statuto dei dati: come la semiotica può aiutare la richiesta di trasparenza
Cosa sono i Data Space
I Data Space possono essere definiti come un’astrazione nella gestione dei dati in grado di consentire aggregazioni di ecosistemi (produttivi e/o sociali) tramite regole, strumenti e tecnologie (e.g. API, connettori), tali da permettere la condivisione di dati fra aziende e nella società civile nel pieno rispetto dei principi di sovranità, interoperabilità e fiducia.
Una chiave di lettura possibile e auspicabile è proprio quella di attivare, a fianco dei data space settoriali già previsti (manifattura, green deal, mobilità, sanità, finanza, energia, agricoltura, PA e competenze), un “Data Space for Social Impact” intersettoriale, ideato con lo scopo primario di facilitare la condivisione di dati tra i partecipanti al fine di generare impatto positivo per la comunità.
Perché i dati sono ancora un bene scarso
Negli ultimi anni i dati sono diventati sinonimo di trasformazione digitale e sono stati spesso abbinati ai principali modelli di innovazione. Sono il combustibile che alimenta i motori di intelligenza artificiale e l’asset su cui i giganti della tecnologia fondano il loro posizionamento e buona parte dei loro business.
In quanto beni digitali sono sovrabbondanti in quantità, mantenendo al contempo alcune delle peculiarità dei beni che in economia vengono definiti “scarsi”.
Nonostante la produzione crescente e la riproducibilità infinita, l’offerta risulta infatti tuttora insufficiente se comparata alla domanda, in particolare laddove le necessità risultino mirate (per esempio per specifici segmenti della popolazione o per aree geografiche) e la qualità / affidabilità richiesta superiore a determinate soglie di tolleranza.
Scarsa permane la cultura, nelle organizzazioni profit e non profit (in particolare medie e piccole), per un utilizzo consapevole e strategico.
Scarsa risulta, nonostante gli sforzi e la crescita del comparto formativo (istituzionale e non), la disponibilità di figure professionali in grado di “trattarli” in modo appropriato, valorizzandoli per scopi precisi.
Scarse, ma in questo senso l’Europa rappresenta una sorta di eccezione, sono spesso le norme a tutela di chi i dati li produce, in particolare quando i data owner sono privati cittadini.
Scarsa è infine, e soprattutto, la consapevolezza, nella società e nella politica, che i dati possono essere una risorsa preziosa per potenziare le politiche di impatto, dalla salute al welfare, dall’energia alla mobilità, dalla cultura alla sicurezza, dall’ambiente all’esercizio della democrazia.
Il movimento Open Data non basta
In tal senso la letteratura e la ricerca scientifica offrono innumerevoli esempi in cui quegli stessi dati, raccolti dalle imprese per espletare o potenziare le proprie finalità di business, possono alimentare progetti con scopi di interesse pubblico, sociale e ambientale, generando così esternalità positive.
Parallelamente, se il movimento Open Data ha già da tempo aperto la strada al concetto di “riuso”, la pratica di liberare i dati con licenza “aperta” non può essere l’unico modello percorribile per riutilizzare i dati raccolti, con una specifica finalità, per scopi di natura diversa, siano essi commerciali o filantropici.
Le stesse norme più recenti e lungimiranti – quali il Data Governance Act, a rimarcare l’attenzione dei legislatori europei per il tema – se da un lato puntano a favorire la condivisione ed il riuso, incentivando esperienze di “Altruismo dei Dati”, grazie al contributo di intermediari deputati, dall’altro difettano (o demandano ai singoli Stati membri) nell’identificare i modelli operativi da seguire.
Le caratteristiche dei modelli di impatto sociale
Ebbene che caratteristiche dovrebbero avere tali “modelli”?
In primis dovrebbero essere sostenibili per tutti gli attori della filiera, ovvero con logiche di “ritorno” (non necessariamente o solo economico) per chi mette a disposizione i dati, con un beneficio tangibile per chi si trova ad utilizzarli e senza trascurare eventuali intermediari.
Dovrebbero essere scalabili e replicabili, tali da non richiedere, quindi, un’iperspecializzazione e un’eccessiva customizzazione (per esempio nella negoziazione dei termini d’uso), ma da poter essere adattati a contesti differenti – geografici, tematici, normativi e di scala -, possibilmente coadiuvati da infrastrutture e paradigmi tecnologici che ne aumentino l’interoperabilità, fino ad arrivare alla definizione di standard.
Dovrebbero essere abbinati a modelli di misurazione dell’impatto (auspicabilmente positivo) generato, il più possibile oggettivi e olistici, prendendo cioè in esame tutte le ricadute dirette e indirette.
Dovrebbero facilitare l’inclusione, nel tentativo di allargare il più possibile la base dati disponibile, senza inficiare il posizionamento dei soggetti aderenti.
Detto diversamente, chi partecipa non deve subire uno svantaggio competitivo, quale per esempio una maggiore vulnerabilità rispetto a competitor di settore che possano accedere ai dati resi accessibili per finalità terze. D’altro canto, la partecipazione di più player di un medesimo campo dovrebbe essere incentivata, in quanto il fine ultimo, ovvero la generazione di impatto per la società e l’ambiente, non potrebbe che trarne vantaggio.
Dovrebbero, infine, allinearsi alle linee guida più moderne che vedono gli algoritmi spostarsi verso i dati e non viceversa, preservando la sicurezza e la manutenibilità delle basi dati.
Nella situazione attuale, in cui si è ancora lontani dall’avere a disposizione linee guida consolidate, la sperimentazione e la condivisione di esperienze diverse risulta fondamentale nel tentativo di convergere verso soluzioni solide e mature da replicare e promuovere.