Si è tornato a discutere di parole per l’elezione a rettrice dell’università La Sapienza di Roma di Antonella Polimeni, prima donna alla guida di questo ateneo; i mezzi di comunicazione di massa si sono divisi tra coloro che, seguendo quanto scritto nel comunicato stampa dall’università stessa, l’hanno appellata correttamente rettrice e altri che l’hanno invece definita variamente il rettore donna, la rettore o la rettora. L’episodio ha alzato diverse polemiche, con la consueta polarizzazione tra vari tipi di benaltristi (“i problemi delle donne sono ben altri” e varianti) e persone indignate per il mancato uso del femminile professionale. Può sembrare una questione di poca importanza, ma le difficoltà manifestate nell’usare un semplicissimo femminile documentato dai dizionari (cfr. Treccani e Zingarelli) sono un segno abbastanza chiaro di come la questione di genere, in ambito linguistico, sia ben lontana da essere accettata pacificamente come parte regolare del nostro panorama socioculturale.
Ancora più gravi, a proposito di sessismo, sono state le parole scelte per narrare l’arresto dell’imprenditore digitale Alberto Genovese, in seguito a una denuncia per stupro, sul Sole24Ore: in una prima fase, l’occhiello dell’articolo tratteggiava Genovese come “un vulcano di idee e progetti che, per il momento, è stato spento”, quasi con dispiacere; l’articolo era illustrato da un’immagine di Genovese con, sullo sfondo, un’automobile di classe, un torso di donna in LBD, little black dress e un magazzino con l’insegna della sua azienda.
In seguito a proteste, l’immagine è stata modificata, come pure l’occhiello. Ma come è stato possibile tentare una sorta di whitewashing della figura dell’imprenditore in maniera così esplicita e grossolana, a scapito delle sue vittime?
Cosa è il sessismo (nel 2020)
Secondo il vocabolario Zingarelli 2021, sessismo è la “tendenza per cui, nella vita sociale, la valutazione delle capacità intrinseche delle persone viene fatta in base al sesso, discriminando specialmente (ma non esclusivamente, Nda) quello femminile rispetto a quello maschile”. Nello specifico, si parla di sessismo linguistico per definire comportamenti linguistici che rivelano una visione sessista del mondo e della società.
Una lingua non può solitamente essere definita sessista di per sé: essa, di norma, contiene tutti gli “attrezzi linguistici” di cui i suoi parlanti hanno bisogno, comprese le parole dispregiative o genericamente connotate in maniera negativa; tutto sta nell’usare gli strumenti che la lingua ci fornisce in maniera consapevole.
Non avrebbe senso “togliere dal vocabolario” determinate espressioni perché discriminanti, dato che i dizionari dell’uso puntano a descrivere nella maniera più precisa e completa possibile la lingua a cui sono dedicati (e quindi è giusto che contengano anche le “parole brutte”); tuttavia, si può e si deve fare attenzione al modo in cui le parole sono descritte, anche dal vocabolario, così da tenere conto delle mutate sensibilità della società che usa quella lingua. In breve, è sbagliato dire che l’italiano è sessista, ma è possibile che se ne faccia un uso sessista: la responsabilità nella scelta di parole ed espressioni ricade, dunque, sui parlanti (e scriventi).
Comunicazione e stereotipi di genere
Non è sempre facile rendersi conto di commettere atti comunicativi sessisti. Se è più immediato notare una discriminazione esplicita (insultare una donna facendo riferimento ai suoi costumi sessuali, o definire mammo un padre che semplicemente svolge il ruolo di papà), meno facile è accorgersi delle discriminazioni implicite che innervano la nostra comunicazione, nella quale talora perpetuiamo per abitudine stereotipi di genere.
Per esempio, nell’annunciare Andrea Ghez, una delle vincitrici del Nobel per la fisica, varie testate hanno sottolineato che la studiosa è mamma e nuotatrice: permane una sorta di divertito stupore di fronte a una scienziata che vince un premio così prestigioso, quasi come se lo avesse vinto nonostante il suo essere donna.
Gli ultimi esempi che riguardano la rettrice e vari articoli su Genovese si inseriscono in questa complessità.
Sessismo, inclusività, tolleranza. Perché non “convivenza delle differenze”?
Il mondo e la società in cui viviamo stanno diventando sempre più complessi; molto più di una volta, ci troviamo costantemente a contatto con differenze di ogni tipo (genere, orientamento sessuale, etnia, religione, abilità, neurodiversità eccetera). Per gestire tale complessità, è auspicabile che una società si ponga più domande di una volta rispetto a come definire le sue varie componenti, in modo da relazionarvisi nel migliore dei modi. Per questo, allargando il campo rispetto alla questione del sessismo (legata in maniera forte al cambiamento del ruolo femminile nella società), si fa sovente riferimento al concetto di inclusività.
Se inclusione significa, intuitivamente, “l’includere”, inclusività è la “capacità di includere, di accogliere, di non discriminare”; lo Zingarelli, al momento, la riporta come sottolemma di inclusivo, mentre il vocabolario Treccani online lo elenca tra i neologismi. Un termine relativamente nuovo, dunque, mutuato dall’inglese inclusivity (coniato negli anni ’20 del ‘900 sul modello di exclusivity), per una visione della società a sua volta nuova: una parola chiave contro le discriminazioni e le esclusioni, almeno nelle intenzioni.
Tuttavia, negli ultimi tempi più voci si sono levate a rilevare i limiti del termine: esso sembra sottendere che ci sia una parte (maggioritaria, “normale”) che, con paternalistica generosità, decide di includere una parte minoritaria, divergente in qualcosa dalla norma. Insomma, il termine prefigura una differenza di status tra chi include e chi viene incluso; è un po’ lo stesso limite che viene rilevato per tolleranza: c’è qualcuno che manifesta bonarietà contro qualcuno o qualcosa che non è percepito come pari, ma che deve, per l’appunto, venire sopportato. Fabrizio Acanfora, autistico (secondo la sua stessa definizione) che si occupa di diversità e inclusione, preferisce parlare di cultura della convivenza delle differenze; si noti, peraltro, che Acanfora scrive convivenza delle differenze, non con le: differenze che convivono reciprocamente, non una parte – prevalente, normale – che ricerca la convivenza con ciò che da essa è diverso, perché tutti, a modo nostro, siamo diversi.
Le parole giuste per nominare le differenze
Quali sono le “parole giuste” per nominare le differenze, dunque? Ma soprattutto, c’è davvero bisogno di nominarle, tutte queste differenze? Sembra quasi che oggi si assista a una sorta di “corsa all’etichetta”: si pensi al proliferare di lettere che si sono aggiunte, via via, alla sigla LGBT: oggi i più precisi usano LGBTQIAP+, e il “più” finale lascia sottintendere che altre lettere potrebbero accodarsi.
La risposta, per quanto mi riguarda, è che in questo momento sì, lo è. Per spiegare questa necessità occorre ricordare che noi umani siamo esseri tassonomizzanti: nominare le cose ci serve per catalogarle, comprenderle meglio, concettualizzarle. La richiesta, da parte di categorie di persone che fino a tempi recenti non avevano una voce, di essere nominate, viene dunque da questo desiderio umano che, nella sostanza, serve per mettere a fuoco la realtà: ciò che viene nominato, difatti, “si vede meglio”. Altrettanto naturale, tuttavia, è che l’atteggiamento di molte persone sia di diffidenza. Intanto, perché la lingua è un perenne atto di identità, contemporaneamente personale (“io sono le parole che uso”) e collettivo (“identifico la mia appartenenza a una determinata tribù tramite le parole che ci accomunano); questo implica che ogni cambiamento allo status quo possa essere vissuto come un attentato all’identità propria o del proprio gruppo. In più, come ricorda lo scrittore Douglas Adams nel Salmone del dubbio (riferendosi alla tecnologia, ma il ragionamento è applicabile alla lingua), “Qualunque cosa sia stata inventata dopo che abbiamo compiuto trentacinque anni va contro l’ordine naturale delle cose”: a un certo punto, tendiamo tutti a opporre resistenza ai cambiamenti. Nessuno ama che gli vengano toccate competenze linguistiche che dava per assodate o sentirsi dire che la lingua che ha sempre usato “non va più bene”.
Una riflessione collettiva per una questione complessa
La questione è complessa, e per questo necessita di una riflessione collettiva, soprattutto per evitare di scivolare negli eccessi: sia da una parte, quella di chi si occupa di queste istanze e che talvolta, per fretta o superficialità, reagisce in maniera scomposta davanti a una determinata questione, sia dall’altra, di chi bolla frettolosamente come inutili queste riflessioni, e che non riesce ad accogliere l’idea che per qualcuno siano, invece estremamente importanti, quando non vitali.
Si può partire, prima di tutto, dall’ascoltare le vittime, come suggerisce il linguista Federico Faloppa nel suo libro #Odio: manuale di resistenza contro la violenza delle parole (2020, UTET): non solo le vittime di eventi eclatanti di discriminazione, ma anche coloro che subiscono costanti micro-aggressioni che spesso “da fuori” tendono a venire minimizzate (ma per chi le vive quotidianamente non sono affatto insignificanti). Ascoltare i diretti interessati è anche un buon modo per orientarsi verso le espressioni percepite come più attente, più rispettose: da Sofia Righetti, attivista contro l’abilismo, ho appreso che è meglio parlare di “persona con disabilità” che non “diversamente abile”; Acanfora invece preferisce essere chiamato “autistico” piuttosto che “persona con autismo” (la prima è l’impostazione person first, la seconda identity first; ed è molto difficile, anche da questo punto di vista, mettere tutti d’accordo).
È necessario studiare, in una prospettiva sia diacronica (quindi storica) sia sincronica (andando ad approfondire il presente, i cambiamenti socioculturali in corso, il funzionamento della lingua); in mancanza di questo lavoro, si rischiano di commettere errori di giudizio su entrambi i versanti. Ad esempio, recentemente è stata criticata la scelta di Papa Francesco di intitolare “Fratelli tutti” la sua “Enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale” ritenendo quel “fratelli” poco inclusivo nei confronti delle donne; ma sarebbe bastato controllare le motivazioni di tale scelta per scoprire che si tratta di una citazione da San Francesco, dunque da storicizzare correttamente. La riflessione permette di spolarizzare la discussione (linguistica e culturale), mondandola dal rischio di giustizialismo o da accuse di eccesso di politicamente corretto.
A proposito di (a mio avviso) derive dovute a un giudizio affrettato, vorrei ricordare un evento occorso a settembre 2020: un professore della University of Southern California, parlando di filler words, ossia di “riempitivi” (come tipo in italiano, molto usato dai più giovani) in cinese, ha citato il corrispondente in tale lingua di that, ossia nei ge, facendo poi un esempio di discorso in cinese costellato di questo riempitivo. Alcuni studenti afroamericani hanno avuto l’impressione di avere sentito il professore dire la famigerata n-word e hanno conseguentemente scritto una lettera all’amministrazione dell’ateneo per denunciare il fatto, dando inizio a una controversia assai infuocata che non è stata chiusa – come ci si sarebbe potuto aspettare – evidenziando come non abbia molto senso accusare una parola di una certa lingua, con un suo specifico significato, di “suonare offensiva” in un altro idioma.
Riflettere con curiosità e pazienza
Da linguista, ritengo necessario accostarsi alla discussione con curiosità e pazienza. I cambiamenti linguistici, che sono naturali e indice importante di vitalità linguistica, difficilmente avvengono in modo veloce. Questo implica che ogni riflessione dovrebbe essere fatta con la consapevolezza che eventuali cambiamenti su ampia scala nell’habitus linguistico si vedranno non dall’oggi al domani, ma nel corso di un tempo più lungo.