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Challenge pericolose, la responsabilità sociale degli influencer



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Il fenomeno delle challenge online ha posto e pone un interrogativo in capo al legislatore: l’introduzione di nuove fattispecie di reato può essere sufficiente a prevenirne le deviazioni negative o sono richiesti interventi di matrice ben differente? Facciamo il punto

Pubblicato il 15 mag 2024

Stefano Gazzella

Responsabile Comitato Scientifico, Privacy Officer Associazione Italiana Influencer

Raffaella Maiullo

Comitato Scientifico di Assoinfluencer



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Non è più un mistero già da qualche tempo. Le relazioni che si instaurano negli spazi digitali non possono più essere considerate come elementi episodici e scissi dal sé. In tal senso, la comunità che abita un dato segmento – anche solo in qualità di gruppo di followers – condivide l’esperienza collettivizzante della fruizione e del coinvolgimento, benché nel segno di una parziale asimmetria di potere che varia in base al medium.

È ormai appurato che in certi contesti si attivino processi di familiarizzazione con il content creator. E, certamente, più il contenuto si riproduce nello spazio di quotidianità del fruitore, sotto forma di codice visuale e linguistico, più questo rischia di essere esposto a contesti nocivi della sociazione mediata digitalmente.

Ciò che vorremmo analizzare, in particolare, è quel tipo di istigazione al reato che si irradia sui social a partire da specifici soggetti che lanciano o suffragano le cosiddette challenge.

Una strategia di riconoscimento del pericolo

Possiamo iniziare la disamina interrogarci su come sia stato possibile raggiungere questo livello di coinvolgimento oppure, più saggiamente, tentare di elaborare una strategia di riconoscimento del pericolo. Le dinamiche di produzione e riproduzione dei reati possiedono, notoriamente, meccanismi complessi, che vanno ben oltre il processo di causa-effetto. A volte, per esempio, il dispositivo di innesco viene inserito all’interno di un piano editoriale legato al profilo, che sfocia nella pubblicizzazione dell’istigazione al reato. Ne sono esempio molte forme illegali di trading online o dispositivi di vendite piramidali, reclamizzati tra una storia sulla dieta chetogenica del momento e la sponsorizzazione dell’ennesimo e-commerce asiatico.

Challenge sui social e istigazione al reato

Sotto un profilo squisitamente teorico, potremmo inquadrare il fenomeno delle challenge come caso di pseudo Geselligkeit, intesa come cattiva socievolezza simmeliana. Per il filosofo e sociologo tedesco, infatti, la socievolezza si configura come forma ludica della sociazione e ha carattere squisitamente interindividuale e superindividuale. Affinché si possa parlare di socievolezza, l’unione di persone nell’ambito dell’interazione sociale deve presentare tre condizioni: (i) l’esclusione di ogni elemento rilevante per la determinazione dell’individuo, come status economico, fama, ecc.; (ii) l’avere se stessa come unico scopo; (iii) l’elaborazione e la trasformazione in forma giocosa e leggera della realtà della vita. Nel nostro caso, anche concedendo che il secondo e il terzo punto possano darsi, ciò che non può essere soddisfatto è proprio il requisito di super-individualità, poiché il e la content creator partecipa alla dinamica della challenge come titolare di determinazioni singolari desiderabili, che vengono tutt’altro che sospese.

Il comportamento emulativo, che porta a riprodurre la challenge, matura proprio a partire dall’incontro del processo di familiarizzazione con quello di desiderabilità: riproporre il contenuto produce così una falsa socievolezza, che rischia di spingere un soggetto a fare azioni sconsiderate proprio in nome di un’impossibile equalizzazione di sé con il e la challenger. Questo, però, non deve essere inteso soltanto come movimento dall’alto verso il basso, infatti, tali azioni – in alcuni casi veri e propri reati – potrebbero essere compiuti anche per aumentare quel senso di desiderabilità nel contesto della propria comunità di riferimento.

Di per sé, ciò che abbiamo definito come cattiva socievolezza non avrebbe una connotazione negativa, proprio perché la sublimazione della vita in sfere autonome, anche di natura ludica, potrebbe ammettere ulteriori casistiche, generate dall’aumentare di mediazione tecnica nella sociazione.

Se è vero che non possiamo fare appello al principio di realtà per prevenire simili eventi, perché eroso dalla sempre crescente singolarizzazione, ciò su cui possiamo porre l’accento è proprio la responsabilità sociale degli e delle influencer.

L’incertezza dei margini della responsabilità penale

Il legislatore, posto di fronte alla sfida di promuovere da un lato comportamenti sociali virtuosi e reprimere le condotte negative, dovrà affrontare dunque il seguente dilemma: la responsabilità penale è sufficiente? E questo deve essere un interrogativo che copre tanto il presente quanto il futuro. Occorre infatti guardare al tempo presente per domandarsi se le attuali norme, quali possono essere quelle relative a diffamazione a mezzo social, istigazione a delinquere o hate speech, offrono una copertura sufficiente e proporzionata tanto per portata della deterrenza quanto, soprattutto, della rieducazione cui possono provvedere individuando condotte prevedibili. Dopodiché, lo sguardo al futuro dovrà rispondere all’interrogativo circa la necessità – o meno – di introduzione di nuove fattispecie penali tenuto conto del rispetto innanzitutto dei principi generali dell’ordinamento che bilanciano attraverso i propri contrappesi finanche la pretesa punitiva.

Qualora si vogliano introdurre nuove fattispecie penali o aggravanti, una considerazione va posta anche circa la capacità delle stesse di produrre gli effetti desiderati di governare efficacemente taluni fenomeni online e prevenire il loro degenerare.

Altrimenti, tutto sarà destinato solo a un momento successivo, al più con effetto riparatorio o retributivo. Se la finalità sperata è – come è ragionevole che sia – quella di prevenzione, certamente le disposizioni penali da sole non possono offrire una risposta esaustiva.

La stessa giurisprudenza deve e dovrà infatti affrontare sempre più sfide applicative nel declinare taluni principi generali, o fattispecie astratte, nelle condotte poste in essere attraverso i media dei social network.

La tutela dei diritti fondamentali della persona e gli interventi di soft law

Così come correttamente posto in evidenza dalle linee guida Agcom, mantenere come fulcro per gli interventi di regolamentazione e contrasto di condotte nocive la tutela dei diritti fondamentali della persona è un criterio orientativo valido per poi declinare tanto degli interventi normativi quanto di soft law i quali concorrono alla realizzazione di obiettivi di alto livello quali, in via esemplificativa possono essere come sono: la creazione di un ambiente digitale sicuro, il contrasto ai discorsi d’odio online, la tutela della veridicità dell’informazione.

L’attuazione di tali principi attraverso i social media e l’evoluzione tecnologica richiedono innanzitutto che gli stessi siano fissati mediante norma primaria, con chiarezza e distinzione, dunque poi declinati e adattati attraverso linee guida, atti d’indirizzo nonché la cooperazione dei gestori delle piattaforme online.

Questi ultimi, beninteso, non dovranno né potranno più essere solamente visti come destinatari di obblighi normativi cogenti ma anche come attori fondamentali per l’attuazione efficace di quei propositi che altrimenti sarebbero destinati a mere enunciazioni di principio, o peggio, comportare una compressione sproporzionata di altri diritti fondamentali.

Conclusioni

L’azione più opportuna in tal senso per il legislatore è così un continuo confronto con gli stakeholder (creatori di contenuti, agenzie, associazioni di categoria, committenti, etc.), in modo tale da garantire quella complessa opera di bilanciamento che deve essere sempre la premessa per l’introduzione di interventi di regolamentazione.

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