Minori e digitale

Se i genitori fanno business con le foto online dei figli: effetti e rischi

Share+parenting = condividere immagini dei propri figli sui social. Spesso viene fatto senza secondi fini, ma c’è anche chi sfrutta il fenomeno per monetizzare: è il commercial sharenting. Con quali effetti sui minori? Cosa prevede la legge? Esempi e applicazioni

Pubblicato il 04 Mar 2021

Gianluigi Bonanomi

Formatore sulla comunicazione digitale

Sharenting: la proposta dell'Authority infanzia e adolescenza sul tavolo del ministero di Giustizia

Lo sharenting (share + parenting) è la condivisione online delle immagini dei propri figli. Quando viene fatto per monetizzare, prende il nome di Commercial sharenting. E ha diversi rischi.

Lo sharenting non ha sempre le stesse motivazioni: spesso i genitori sono fieri dei loro pargoli e, spesso per scarsa alfabetizzazione informatica, non si rendono conto né dell’imbarazzo che potrebbero provocare loro, soprattutto quando saranno cresciuti, né dei rischi a cui li espongono. Non mancano però genitori che, al contrario, hanno competenze informatiche e di comunicazione superiori alla media e sfruttano queste capacità per guadagnare anche dalle immagini dei figli.

Il commercial sharenting è ben spiegato dall’avvocato Leah Plunkett nel suo libro “Sharenthood: Why We Should Think before We Talk about Our Kids Online“, ovvero “perché dovremmo pensare prima di parlare dei nostri figli online”. Per Plunkett, componente del team “Youth & Media” del “Berkman Klein Center for Internet & Society” dell’Università di Harvard, quando il commercial sharenting si insinua in un piccolo schermo, è possibile vedere contenuti come prime mestruazioni, scherzi di famiglia che l’algoritmo di Youtube suggerisce di guardare.  Non mancano bambini che giocano coi gatti e adolescenti che giocano con le tigri.

Commercial sharenting: quando i figli diventano uno strumento per fare soldi

DaddyOFive è stato un canale molto seguito su Youtube. Nel 2017, prima di sparire, poteva vantare qualcosa come 750.000 iscritti, con video che superavano abbondantemente il milione di visualizzazioni. Il segreto del suo successo erano gli scherzi che i genitori, poco più che trentenni, facevano ai danni dei loro cinque figli. Scherzetti non proprio innocenti: in alcuni casi rompevano i giochi dei bambini o dicevano loro che li avrebbero dati in adozione. Per gli autori, sceneggiate preparate a beneficio della telecamera e degli spettatori. Non così per le autorità statunitensi, che hanno condannato i genitori a cinque anni di libertà vigilata.

Questo è uno degli esempi più rappresentativi di commercial sharenting. Che effetto ha sui bambini? Secondo uno psicologo consultato durante il processo, due dei figli della coppia hanno sperimentato disfunzioni mentali e psicologiche. Plunkett sottolinea inoltre come la legge non potrà mai anticipare i problemi futuri di questi ragazzi che cresceranno, matureranno e contemporaneamente dovranno confrontarsi con l’immagine cristallizzata della loro infanzia su Internet.

DaddyOFive ha proseguito le trasmissioni con un tono ben più pacato e sotto il nome di FamilyOFive. Accanto a questi esempi di commercial sharenting è possibile trovarne altri apparentemente innocui, in cui i figli vengono esposti con la scusa di realizzare video educativi su “come essere buoni genitori”.  Non si tratta di psicologi o esperti: semplici genitori che si sentono influencer, che cercano di arrotondare le loro entrate o di ritagliarsi un quarto d’ora di pubblicità dispensando consigli. E coinvolgendo i loro bambini.

Il successo di questi canali è notevole: almeno in parte, si può spiegare col fatto che altri genitori vedono queste informazioni come vere, più autentiche e genuine, perché arrivano da madri e padri veri, non da generici “professori”. Lo stesso meccanismo che porta le persone a fidarsi degli influencer più che dei giornalisti: i primi vengono visti come disinteressati, al contrario dei secondi.

Privacy e minori: come proteggerli dalla schedatura digitale?

Plunkett evidenzia come attualmente la legge non sia adeguata a proteggere le persone dai rischi dello sharenting, commerciale o meno, in particolare negli Stati Uniti. In Europa abbiamo il GDPR, che consente quantomeno di poter chiedere ai colossi del web di cancellare i dati che ci riguardano in loro possesso. Ma sono ancora molti i passi da fare per garantire la privacy a cui hanno diritto anche i bambini: il GDPR infatti può permettere a un adulto di cancellare informazioni, non a un genitore di condividerle in maniera indiscriminata.

Leah Plunkett estende, e non di poco, la definizione di sharenting, e include qualsiasi raccolta dei dati relativa ai figli: le app per la fertilità, i baby monitor, addirittura i servizi cloud su cui si conservano foto e filmati. Usando questi servizi, si cedono informazioni commerciali, di cui perdiamo il controllo, alle aziende. Atteggiamenti molto meno pericolosi rispetto all’esposizione delle foto dei figli online, magari corredate di nome, cognome e dettagli, ma sempre correlata ad una “schedatura” digitale dei bambini.

Dalle ecografie alla laurea: il rischio è di registrare ogni azione dei bambini che nasceranno dal prossimo decennio, generando un dataset che, sottolinea Plunkett, verrà sfruttato da governi, operatori del marketing e persone con cui darsi un appuntamento. A scapito della possibilità di sbagliare, fondamentale per la crescita. Con questi dataset, il rischio è che ogni sbaglio rimanga scolpito per sempre nella roccia.

Il mondo digitale, attualmente, ha la memoria di un elefante. La soluzione è quindi una sola: condividere il meno possibile informazioni (immagini, ma non solo) sui propri figli. Anche solo per evitare che siano martellati di pubblicità mirata e confezionata per loro non appena avranno l’età per accedere a Internet senza la supervisione di mamma e papà.

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