La pandemia sta uccidendo l’economia della condivisione? Ascesa e caduta in pochi anni di quella che era stata presentata come il ‘nuovo che avanza’?
L’ultima notizia riguarda il commissariamento di Uber Eats Italia per caporalato, ovvero: il peggio del ‘vecchio’ capitalismo nel più ‘nuovo’ capitalismo delle piattaforme. Quasi lavoro schiavistico. Quale futuro allora per i giganti della sharing/gig economy?
Francamente, non sembra entusiasmante. Accomunate dalla logica della piattaforma (platform capitalism), e spesso distinte tra loro – una cosa sarebbe la sharing economy, un’altra la gig economy (in realtà la distinzione è fuorviante e il confine molto labile) – sembrano ora accomunate da un destino di crisi.
La sharing/gig economy è morta?
La notizia, davvero scandalosa, riguarda Uber Eats. Nell’indagine del Tribunale di Milano viene contestato il reato previsto dall’articolo 603bis del Codice penale: “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”. Perché i rider formalmente non lavoravano per Uber ma per due società di intermediazione del settore della logistica che sfruttavano migranti “provenienti” da contesti di guerra, “richiedenti asilo” e persone che dimoravano in “centri di accoglienza temporanea e in stato di bisogno”. Crolla il mito di Uber? Velo finalmente sollevato sulle mistificazioni che hanno accompagnato la sharing/gig economy in questi anni? Vedremo come proseguirà l’inchiesta – Uber smentisce il suo coinvolgimento diretto – intanto c’è il commissariamento e non è cosa da poco.
Ha sintetizzato così la situazione, il New York Times: “The coronavirus pandemic has gutted the so-called sharing economy. Its most valuable companies, which started the year by promising that they would soon become profitable, now say consumer demand has all but vanished”. E soprattutto, la domanda non ripartirà tanto presto.
Prendiamo Airbnb, che gli investitori valutavano a inizio 2020 a 31 miliardi di dollari, ma che ora sta cercando di tagliare i costi e ha già licenziato 1.900 impiegati, circa il 25% dei suoi dipendenti, riducendo inoltre la previsione delle entrate di quest’anno alla metà del 2019. La compagnia – ‘founded on the notion that they should become as big as possible, as quickly as possible’ – ora si confronta con un futuro assai incerto. E anche se la pandemia si ritirerà e la gente tornerà a lavorare in ufficio o nelle fabbriche e viaggiare ridiventerà una modalità di massa, ci vorranno comunque anni per tornare ‘come prima’. Mentre le stime dicono che il 30% delle entrate della gig economy potrebbe scomparire nei prossimi due anni. E che tra aprile e giugno, le entrate – in America – di Uber si contrarranno del 69% e quelle di Lyft del 66%.
Ricapitoliamone allora alcuni aspetti e ricordiamo soprattutto le retoriche che hanno accompagnato la nascita di questa platform economy e proviamo a immaginare delle soluzioni richiamando infine questioni che abbiamo dimenticato da troppo tempo.
Nuovo che avanza o vecchio che ritorna?
Era stata interpretata e presentata dai media – ai tempi dei suoi primi vagiti, appunto grazie alle nuove tecnologie (piattaforme/algoritmi/smartphone) – come il ‘nuovo che avanza e che non si deve fermare’, perché l’innovazione ‘non si può e non si deve fermare mai, a prescindere dalla sua utilità sociale e degli effetti che produce. Aveva illuso molti che questa ‘nuova’ sharing/gig economy (e – in quanto ‘nuova a prescindere’ – necessariamente ‘innovativa’ anche socialmente ed esistenzialmente) permettesse a ciascuno di diventare finalmente imprenditore/boss di se stesso, lavoratore autonomo e soprattutto “libero di lavorare quando vuoi e quanto puoi” (sempre grazie alla ‘nuova’ tecnologia) – e di non dover essere più uno “sfruttato proletario novecentesco, subordinato e dipendente da un padrone”.
Si era detto anche che scomparivano tutte le forme di intermediazione (e quindi di costi aggiuntivi), permettendo di ridurre se non azzerare la distanza tra domanda e offerta (di lavoro e di servizi) così favorendo il consumatore – sempre grazie alle ‘nuove’ tecnologie che in sé e per sé produrrebbero appunto disintermediazione e quindi semplificazione e quindi minori costi e quindi maggiore libertà per tutti.
Poi qualcuno ha cominciato a scrivere che era in realtà un’economia di sopravvivenza per lavoratori già impoveriti dalla crisi del 2008; che era non il ‘nuovo che avanza’, ma il ‘vecchio che ritorna’; o un’economia dei ‘lavoretti’, come li aveva definiti in un bel libro Riccardo Staglianò, ovvero, ‘come la sharing economy ci rende tutti più poveri’; che massimo era lo sfruttamento dei rider e degli autisti (di Uber e simili) da parte delle piattaforme/imprese (imprese più ‘modello ottocentesco’ che da XXI secolo, a parte le ‘nuove’ tecnologie); che la apparente disintermediazione nascondeva o permetteva/produceva nuove forme di intermediazione (Airbnb ‘è’ una forma di intermediazione); che tutti erano comunque subordinati e dipendenti e organizzati e soprattutto iper-sfruttati (grazie al ‘management algoritmico’) dalla piattaforma che era ed è un’impresa comunque, che come tale voleva e vuole massimizzare i profitti come tutte le imprese capitalistiche e che aveva trovato nelle ‘nuove’ tecnologie la via perfetta per tagliare i costi del personale, togliendo ai lavoratori quasi ogni tutela e ogni diritto; che è occorsa molta fatica e sono stati necessari molti ricorsi ai tribunali da parte di lavoratori e sindacati per far riconoscere ciò che doveva essere sotto gli occhi di tutti, ma che (quasi) tutti non volevano vedere, che cioè la piattaforma è la ‘nuova’ forma della fabbrica fordista-taylorista, che riders e autisti sono i suoi ‘dipendenti subordinati’ che lavorano come ai ‘Tempi moderni’ di Chaplin anche se fuori da una fabbrica fisica: perché è la piattaforma che ne organizza e comanda il lavoro, imponendo la ‘retribuzione’, i tempi e i ritmi di lavoro, aumentandone a piacimento la produttività, eccetera; e che i modi in cui queste piattaforme entravano in un mercato nazionale era spesso decisamente scorretto, presentandosi come ‘virtuose start-up’ o ‘innovative imprese tecnologiche’ – ancora: il fascino per il ‘nuovo’ – capaci di sconfiggere la ‘casta’ dei tassisti (e “Molto di frequente Uber cercava di avviare la sua attività senza chiedere i permessi previsti dalla legge del paese, cercando così di forzare la mano ai decisori, seguendo il motto: ‘meglio essere perdonati dopo che chiedere il permesso prima’” – Vincenzo Comito); mentre Airbnb ha trovato il modo geniale di ‘estrarre valore’ da ciò che non le appartiene né possiede (è la forma del ‘capitalismo estrattivo’, che non ‘produce valore’ ma ‘estrae valore/profitto’ ovunque sia possibile (e con ogni mezzo), compresa la nostra vita quando produciamo dati per il Big Data), ovvero le case e le stanze dei proprietari.
Ancora flessibilità?
Il mantra – retorico e cinico – della flessibilità e del dover essere flessibili ci accompagna da troppo tempo. Ha distrutto il lavoro come diritto ri-trasformandolo in merce, per di più tendenzialmente low cost (compresa, appunto la sharing/gig economy); ha reso precaria e incerta la vita (non solo il lavoro) di milioni di persone; non ha aumentato la ricchezza della società, semmai il contrario; ha distrutto il diritto del lavoro, aumentando la libertà di comando dell’impresa e ridotto la dignità delle persone che lavorano, fatte diventare merce ‘usa e getta’.
Con la pandemia, per uscire dalla pandemia – molti chiedono ancora più flessibilità. E se invece fosse l’occasione per invertire la rotta e tornare a un lavoro come diritto (come è scritto in Costituzione e nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), a un lavoro dignitoso e non a un lavoro-merce?
Un appello per nuove forme di lavoro
Un esempio, con una proposta interessante. Nei giorni scorsi è stato pubblicato un Appello internazionale per il lavoro, firmato da 4.000 economisti, sociologi, filosofi di varie tendenze e provenienze, tra cui Thomas Piketty, James K. Galbraith, Axel Honneth, Nadia Urbinati, Dominique Méda, Saskia Sassen e pubblicato su media come The Guardian, Gazeta Wyborcza, La Folha de São Paulo, Le Soir , Le Monde, Die Zeit, Le Temps e – in Italia – il Manifesto.
È scritto nell’appello, esplicitamente intitolato “Democratizing Work”: “Chi lavora è molto più che una semplice risorsa. Questa è una delle lezioni principali che dobbiamo imparare dalla crisi in corso. Curare i malati; fare consegne di cibo, medicine e altri beni essenziali; smaltire i rifiuti; riempire gli scaffali e far funzionare le casse dei supermercati: queste persone sono la prova vivente che il lavoro non può essere ridotto a una mera merce. La salute delle persone e la cura di chi è più vulnerabile non possono essere governati unicamente dalle leggi di mercato, altrimenti corriamo il rischio di esacerbare le diseguaglianze e di mettere a repentaglio le vite delle persone più svantaggiate. (…) Come evitare che succeda questo? Coinvolgendo chi lavora nelle decisioni relative alle loro vite e al loro futuro, nel luogo di lavoro. Democratizzando le imprese. De-mercificando il lavoro. Dinanzi al rischio spaventoso della pandemia e del collasso ambientale, optare per questi cambiamenti strategici ci permetterebbe non solo di assicurare la dignità di tutti i cittadini ma anche di riunire le forze collettive necessarie per poter preservare la vita sul nostro pianeta”. E dunque: “Certamente bisogna ridurre le enormi diseguaglianze salariali e assicurare che aumentino i redditi più bassi; ma questo non basta. Così come – dopo le due Guerre Mondiali – si è riconosciuto il contributo innegabile delle donne alla società dando loro il diritto al voto, così oggi appare ingiustificato negare l’emancipazione di chi investe il suo lavoro e il riconoscimento dei suoi diritti di cittadinanza, all’interno delle imprese. (…). Questioni come la scelta di un amministratore delegato, le strategie principali e la distribuzione dei profitti sono troppo importanti per essere lasciate interamente nelle mani degli azionisti. Chi investe il proprio lavoro – ovvero, la propria mente e il proprio corpo, la propria salute o anche la propria vita – deve godere del diritto collettivo di appoggiare o respingere queste decisioni”.
E di più:” La nostra reazione alla crisi attuale non deve essere ingenua come lo fu quella alla crisi economica del 2008. Allora si adottò un piano di salvataggio senza condizioni che incrementò il debito pubblico senza pretendere nulla in cambio da parte del settore privato. Se oggi i governi si impegnano per salvare le imprese nella crisi attuale, anche queste ultime devono fare la loro parte, accettando alcune condizioni fondamentali della democrazia. I nostri governi, in nome delle società democratiche dai quali vengono scelti e alle quali devono rispondere, e in nome dell’obbligo che tutti abbiamo di assicurare l’abitabilità del nostro pianeta, devono appoggiare le imprese a condizione che queste adottino delle nuove pratiche, attenendosi a requisiti ambientali esigenti e introducendo strutture interne di governo democratico”.
La democrazia da ritrovare
È un Appello che riguarda direttamente anche la sharing/gig economy. Forma solo apparentemente innovativa di lavoro, perché la novità è solo nel ‘mezzo di connessione’ cioè ‘di produzione’ utilizzato – oggi la rete invece della catena di montaggio (ma la regola di funzionamento è la stessa: suddividere/separare per poi integrate/connettere) – che permette di esternalizzare/flessibilizzare e sfruttare meglio di prima il lavoro e le persone, “centralizzando il comando senza concentrazione di persone” (Matteo Gaddi), o attraverso quello che chiamiamo “taylorismo digitale” o “fordismo esternalizzato/individualizzato”.
Da ripensare, dunque – il lavoro e la democrazia nel capitalismo delle piattaforme, nell’Industria 4.0, per non parlare dei social, anch’essi imprese private votate alla massimizzazione del ‘loro’ profitto, estraendo valore dalla nostra socialità. Ma democratizzare le imprese e il capitalismo non è una novità. Ma lo abbiamo dimenticato.
E invece, la democrazia nell’impresa – e la democratizzazione dell’impresa (e nei social, di cui ciascuno di noi è di fatto lavoratore proletario e alienato perché ‘addetto alla produzione di dati’) – è un principio da ricordare proprio a 50 anni dalla approvazione dello ‘Statuto dei lavoratori’. Una legge – figlia di molte lotte sindacali e di molti contratti collettivi del tempo – per portare e garantire/tutelare poi la democrazia anche ‘oltre i cancelli delle fabbriche’, partendo dal principio per cui in democrazia non possono esserci spazi senza democrazia o a democrazia limitata. Una legge modernissima, poi però progressivamente svuotata in diritto e nei fatti in nome di una nuova autocrazia d’impresa, fino ad arrivare a quel nuovo articolo 4 dello Statuto – modificato in senso neoliberale dal JobsAct – per cui ‘non è soggetto ad accordo sindacale (né all’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro) l’utilizzo di strumenti che possano comportare il controllo a distanza, nel caso in cui siano utilizzati dal lavoratore per rendere la sua prestazione lavorativa’ – ovvero legalizzando il controllo dall’alto e da remoto nella sharing/gig economy e nell’Industria 4.0 e impedendo invece il controllo democratico delle persone (dal basso) su chi e come li controlla.
È forse scandaloso pensare di riportare/riattivare/accrescere la democrazia nell’impresa e soprattutto – come scrive l’Appello – di democratizzare l’impresa stessa? Scriveva il grande politologo americano Robert A. Dahl (ne ‘La democrazia economica’, libro del 1985, ma attualissimo anche oggi): “Il ‘demos’ e i suoi rappresentanti hanno il ‘diritto’ di decidere, mediante il processo democratico, come dovrebbero essere possedute e controllate le imprese economiche, allo scopo di realizzare, per quanto è possibile, valori quali la democrazia, l’equità, l’efficienza, la promozione delle qualità umane desiderabili e il diritto a quelle minime risorse individuali che possono essere necessarie a condurre una vita buona. (…) Se la democrazia è giustificata nel governo dello stato, allora essa lo è anche nella conduzione delle imprese economiche. Ciò che più conta: se essa non trova valide motivazioni nella gestione delle imprese economiche, non si vede proprio come potrebbe averne nel governo dello stato. (…) [Cioè] abbiamo il ‘diritto’ di autogovernarci democraticamente all’interno delle nostre imprese economiche. Ovviamente, non ci aspettiamo che [questo] le renderà perfettamente democratiche, o supererà completamente le tendenze verso l’oligarchia che appare essere insita in tutte le grandi organizzazioni umane, incluso il governo dello stato. Ma proprio come noi incoraggiamo il processo democratico nel governo dello stato, nonostante le sostanziali imperfezioni che esistono in pratica, così sosteniamo un analogo processo nell’amministrazione delle imprese economiche. (…) E intendiamo esercitare quel diritto”. ‘Così facendo’, “un popolo democratico compirebbe un passo importante verso il perseguimento degli obiettivi di eguaglianza politica, di giustizia, di efficienza e di libertà”. Un ‘così facendo’ che oggi riguarda non solo le imprese, il capitalismo di piattaforma, l’Industria 4.0, ma anche o soprattutto la tecnica come apparato e tutti i processi di innovazione: da iniziare a controllare democraticamente ex ante, sulla base di un ‘principio di precauzione e di responsabilità’ collettiva.
Nell’impresa e fuori dall’impresa.