“Shockdown. Media, cultura, comunicazione e ricerca nella pandemia” è un progetto che nasce durante le prime settimane di lockdown, quando eravamo più strettamente vittime dell’isolamento fisico e relegati al ruolo di spettatori attraverso i media, mainstream e digitali di quanto stava accadendo.
Già in quei primi mesi del marzo 2020, era evidente che quello che stavamo vivendo fosse una sorta di grande esperimento sociale, che non solo andava a modificare qualsiasi campo della nostra vita quotidiana, ma ci costringeva a ripensare al nostro lavoro di sociologi, al nostro modo di osservare il mondo attraverso paradigmi che davamo oramai per consolidati. Da qui è nata l’idea di lanciare una call su Mediascapes Journal, rivista online open access pubblicata semestralmente e dedicata ai media studies. Una call dove si invitava ricercatrici e ricercatori a inviarci le proprie riflessioni a caldo su quello che stavamo vivendo.
I saggi raccolti nel volume offrono una ulteriore rielaborazione di quelle prime riflessioni. Una rielaborazione che si propone di complessificare un dibattito pubblico che, ancora oggi, risulta appiattito su estremismi e facili semplificazioni. I media di massa hanno avuto un ruolo importante nell’alimentare questo clima polarizzante.
Fake news, così scienza e informazione interpersonale perdono credibilità
Pandemia e metafore belliche
Come constatiamo anche nel volume, il sistema italiano dei media si è trovato a sposare, per la maggior parte, una copertura frenetica, allarmistica, ossessiva dell’epidemia. Molto spesso i media hanno compattato l’inconscio sociale intorno alle necessità straordinarie imposte dalla lotta senza quartiere contro un nemico invisibile, ubiquo e pericoloso. Le descrizioni metaforiche della pandemia come una guerra (“nemico”, “invasore alieno”, “in trincea contro il virus”, “i medici caduti al fronte”) sono state ampiamente utilizzate dall’inizio del 2020 da molti leader politici, come Boris Johnson in Gran Bretagna, Xi Jinping in Cina, Emmanuel Macron in Francia, Donald Trump negli USA e, ovviamente, Giuseppe Conte in Italia. Si potrebbe dire che tali narrazioni siano giustamente servite ad aumentare la percezione nelle persone dei pericoli posti dal virus, giustificare la necessità di cambiamenti radicali nello stile di vita e generare un senso di responsabilità collettiva e sacrificio per uno scopo comune.
In realtà, come molte ricerche hanno dimostrato, le metafore belliche finiscono per produrre numerosi effetti negativi. Anzitutto rendono le persone più propense a preferire interventi legislativi e decisioni politiche tendenzialmente autoritarie, Misure che, va detto, spesso hanno finito per limitare diversi diritti fondamentali dei cittadini, ma che, tuttavia, sono state accettate senza grandi discussioni, a causa di un clima percepito da “stato di guerra”.
In secondo luogo, come spiegava già Susan Sontag, le metafore belliche ci rendono maggiormente ubbidienti, docili e, in prospettiva, più dipendenti dalle nostre emozioni e sensazioni fisiche. Non è un caso, che il corpo sia diventato oggi la principale arena di scontro tra differenti soggettività sociali, qualcosa che condiziona le nostre prospettive morali, emotive e politiche.
Abbiamo così visto fronteggiarsi, da un lato, i sostenitori del there is not alternative pandemico, coloro per cui bisogna affidarsi alle decisioni dello Stato e all’opinione dei virologi ed esperti, delegando loro le scelte; dall’altro abbiamo assistito all’emergere del rovescio della medaglia complottista, indifferente a chi governa. C’è una dimensione viscerale, fisica nel modo in cui molte persone si affidano ciecamente a fake news, teorie cospirazioniste e disinformazione. Ma è la stessa sensazione di vulnerabilità a guidare le persone verso slogan rassicuranti come #vatuttobene o #iorestoacasa, a trasformare lo stare in casa in una sorta di valore sacrificale in sé.
Dal senso di comunità alla delazione
Infine, attraverso la creazione della minaccia, la metafora della guerra al Covid-19 offre un rassicurante quanto paradossale senso di comunità, a partire dalla creazione di nemico che minaccia i propri confini. Il cittadino è così chiamato in prima persona a prestare attenzione agli altri sospetti, ad agire contro chi invade il proprio spazio domestico e familiare. Il meccanismo dell’attribuzione di colpa si trasforma in pratica ordinaria. Abbiamo così visto avvicendarsi una serie infinita di covidioti: dai runner ai proprietari di cani, dai giovani dediti alla movida ai meridionali che tornano dalle loro famiglie, dai migranti ai discotecari, diffondendo tra la popolazione un tasso di conflittualità sociale che ha inquinato il dibattito pubblico. In poco tempo, le bandiere italiane sui balconi, gli hashtag su Twitter, o le dirette su Instagram di influencer che ti insegnano come affrontare la quarantena col sorriso, sono state sostituite dai meccanismi della ricerca dell’untore, della criminalizzazione e della delazione, spesso anche verso atti innocenti ed innocui.
In Italia, il meccanismo della colpevolizzazione è stato particolarmente esasperato. Si pensi che, come evidenziato da un sondaggio di Euromedia Research diffuso a ottobre 2020, ben il 42,5% della popolazione ritiene che la colpa della seconda ondata sia da attribuire alla superficialità dei cittadini e alle vacanze di questa estate.
Pandemia e iperindividualismo
Possiamo dire che la narrazione colpevolizzante della pandemia ci è servita per meglio comprendere una vecchia malattia della nostra tarda modernità chiamata iperindividualismo. Una forma di ideologia che sovraccaricando eticamente l’individuo di ogni responsabilità, riesce a nascondere le cause collettive e strutturali di accadimenti rispetto ai quali il singolo è in realtà spesso privo di potere. Non a caso, il senso di responsabilità individuale è stato ossessivamente richiamato dalla retorica della comunicazione pubblica e il discorso mediatico non ha fatto altro che rinvigorire questa narrativa della colpevolezza, divulgata dalle argomentazioni istituzionali, partecipando così a un processo di deviazione del senso di colpa dagli organi decisionali verso i cittadini e le cittadine. L’appello ai comportamenti corretti degli individui ha avuto in tal senso una funzione comunicativa strategica che ha indebolito ogni espressione di dissenso per l’azione politica dei governi e ha finito per oscurare le rare analisi in controtendenza, producendo, così, un evidente deficit di senso critico nei mezzi di comunicazione di massa e nell’opinione pubblica
Lo svilimento del dibattito pubblico
Tali considerazioni ci portano a riflettere su due questioni che dovremo affrontare nel prossimo futuro, quando la pandemia (si spera) sarà finita. La prima questione è lo svilimento del dibattito pubblico, razionale e critico. Siamo arrivati ad una tale moralizzazione dell’universo sociale, a una tale dicotomizzazione tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire, che molte affermazioni non vengono neanche più discusse, ma date come verità autoevidenti. Il confronto è diventato talmente asfittico che chiunque trasgredisca viene attaccato anzitutto sul piano morale, fatto oggetto di scherno o vergogna, etichettato come se fosse mosso da chissà quali intenti nascosti. Se ad esempio viene criticata la strategia italiana del lockdown stop and go, o ci si mostra anche solo dubbiosi verso un qualsiasi provvedimento governativo, è molto facile venire assimilati ad un negazionista del Covid. Negazionista è diventato oramai un termine bulldozer, la cui unica funzione è di spingere verso la patologizzazione dei discorsi sgraditi e la psichiatrizzazione dell’avversario: se non sei d’accordo con me che la penso come tutti allora neghi la realtà, e chi nega la realtà è un folle o un demente, e coi folli o i dementi non si può ragionare. Non stupisce che tante persone preferiscano sottrarsi alla conversazione pubblica, proprio per la paura di essere categorizzati in termini inaccettabili.
È la dinamica della spirale del silenzio che si ripropone anche a proposito di questo tema. Con questo non vogliamo negare le problematiche relative alle forme di negazionismo o di complottismo ma sottolineare come anche la radicalizzazione di una morale dell’auto-disciplinamento dei corpi stia contribuendo alla costruzione di una tossicità comunicativa che inquina parimenti il dibattito pubblico.
Il nostro rapporto col sapere scientifico
La seconda problematica riguarda il nostro rapporto con il sapere scientifico. Come ha ben spiegato Nassim Nicholas Taleb, il coronavirus non è stato un cigno nero, un evento inatteso. Erano anni che la comunità scientifica avvertiva che prima o poi sarebbe scoppiata un’epidemia globale. Gli spillover, il cosiddetto salto di un virus o di un altro patogeno da una specie a un’altra, non sono così rari come si potrebbe pensare. Attualmente ci sono diversi virus che potrebbero entrare nella specie umana e causare epidemie o pandemie. Fattori come l’aumento della popolazione globale, la povertà, i cambiamenti climatici e ambientali che causano lo spostamento di intere comunità umane e animali, sempre più a contatto fra loro, fanno prevedere che in futuro le epidemie potrebbero avvenire con maggiore frequenza. L’attuale virus ci sta semplicemente mostrando quello che il sociologo Ulrich Beck ci andava dicendo decenni fa: l’accrescimento del potere del progresso tecnico-economico sarà messo sempre più in ombra dalla produzione di rischi. Tali rischi non possono più essere circoscritti a luoghi o gruppi come avveniva nelle vecchie realtà industriali, ma sfuggono ai confini nazionali e producono minacce sovranazionali. Questo significa che, da un lato, dobbiamo fare affidamento sui saperi scientifici, abbiamo cioè bisogno di teorie, esperimenti, strumenti di misurazione per poter rendere visibili e interpretabili pericoli spesso nascosti. D’altra parte, però dobbiamo fuggire da qualsiasi processo di mitizzazione della scienza. Elevare la biomedicina a dottrina della salvezza, come è stato fatto in questo periodo di pandemia, significa dare per scontato – sempre per citare Beck – che i rischi siano determinabili esclusivamente sulla base dell’autorità specialistica degli esperti. E invece le modalità di determinazione del rischio – anche quando vengono presentate con certezza scientifica – si fondano su un castello di carte di assunti speculativi, si basano su una simbiosi tra scienze naturali e scienze umane, possibilità matematiche e interessi sociali.
Il ruolo degli scienziati nel dibattito pubblico
Tutto ciò ci porta a riflettere sul ruolo che gli scienziati devono (e dovranno) avere nel dibattito pubblico. Nel nostro paese, abbiamo assistito ad un sovraffollamento di virologi, epidemiologi ed infettivologi onnipresenti in qualità di opinionisti nei palinsesti. Se in un primo momento il loro ruolo è stato fondamentale, nel corso dei mesi queste figure hanno finito per assumere spesso una funzione salvifica e moralizzatrice, a cui molte persone si sono fermamente aggrappate. Il sapere scientifico è diventato scientismo, la religione dei non-religiosi, un’arma ideologica da scagliare all’occorrenza contro chiunque ha una presa di coscienza dei rischi e pericoli della civiltà divergente rispetto a quella scientifica, e pertanto giudicata irragionevole. Si va a diffondere così la facile credenza che paure, proteste, voci critiche provenienti dalle folle siano solo un puro problema di informazione. Si fa passare l’idea che se solo la gente non fosse esposta alle fake news, se sapesse davvero quello che gli scienziati sanno, sarebbe tranquillizzata e non crederebbe a qualsiasi bugia dei disinformatori di professione. Nulla di più sbagliato. Invece di sedersi sullo scranno dei giudici dell’irrazionalità della popolazione, gli scienziati dovrebbero cercare di informarsi sui suoi orientamenti per porli alla base loro lavoro. Poiché se è vero che la razionalità sociale senza quella scientifica rimane cieca, la razionalità scientifica senza quella sociale è un guscio vuoto.
Conclusioni
Ci attende un futuro in cui le diseguaglianze economico-sociali saranno sempre più viste come disuguaglianze esistenziali. Rabbia, dolore e indignazione diventeranno un appuntamento fisso degli shock emergenziali che dovremo affrontare. Per questo diventa sempre più urgente la riattivazione di un pensiero critico che sfidi la complessità che ci attende. Shockdown cerca di rispondere a tale sfida, a partire dagli sforzi di una comunità di studiose e studiosi appassionati, che, con le loro ricerche e riflessioni, hanno cercato di porsi domande su ciò che stiamo vivendo e vivremo, come individui e come umanità.