L’amnesia digitale sta dilagando. “Non ricordo più nulla” è la frase che ricorre più spesso nelle conversazioni con amici e conoscenti. Secondo alcuni studi scientifici, la nostra propensione a delegare parte della nostra memoria a dispositivi digitali esterni sta erodendo le nostre capacità mnemoniche.
A fare eccessivo affidamento sullo smartphone e alert per ricordarci quali attività dobbiamo svolgere, stiamo alimentando quel fenomeno che gli esperti definiscono amnesia digitale ovvero il modo in cui i nostri ricordi funzionano. Ecco di cosa si tratta il nuovo sintomo da smartphone-addiction.
“Sta emergendo che il telefono cellulare ci toglie l’attenzione”, commenta Giuseppe Riva, ordinario di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano.
L’oggetto plusgodere: da dove vengono i sintomi dell’era tecnologica
Il rischio di amnesia digitale
E “l’attenzione è fondamentale per il consolidamento nella memoria episodica delle nostre esperienze quotidiane: senza attenzione quello che facciamo ci scivola via e non ci rimane niente”, dice Riva.
“Da questo punto di vista”, aggiunge l’esperto, “il rischio più grande è il continuo multitasking in cui l’uso del cellulare si accompagna ad altre attività, come per esempio il saggio di fine d’anno del figlio o la riunione di lavoro. L’attenzione sul telefono e i suoi contenuti non ci permette di focalizzare l’attenzione su quello che sta avvenendo contemporaneamente, svuotandolo di senso. Il rischio è quello di giornate che ci sembrano sempre più vuote e poco rilevanti”.
In questo scenario, il collasso della memoria, il fenomeno dell’amnesia digitale ci appaiono come una giustificazione alla nostra eccessiva inclinazione a delegare alla tecnologia. Inoltre, ci sembra di avere più memoria in tasca, dentro la Ram del nostro smartphone, che nel nostro cervello.
Stiamo dunque perdendo le nostre capacità mnemoniche per affidarci troppo agli smartphone? Eppure, fino a dieci anni fa, tutti sapevamo a memoria i numeri di familiari ed amici e non ci saremmo aspettati di chiedere a un dispositivo digitale di fare ciò che eravamo in grado di fare alla perfezione. La nostra mappa cognitiva, costruita nel tempo ci consentiva di navigare, ma la bussola è svanita nell’era degli smartphone e della nostra device-addiction.
Gli studi scientifici su smartphone e memoria
I nostri cervelli e i nostri smartphone formano una complessa rete di interazioni. Ma l’impatto degli smartphone sulla vita, cominciato dagli anni 2000, si è intensificato nel corso della pandemia. Come l’uso di Internet e di app ha accelerato nei lockdown, anche questo fenomeno ha messo il turbo.
Inoltre, prolungati periodi di stress, isolamento ed esaurimento, la percezione di sentirsi esausti, hanno avuto un impatto forte sulla nostra memoria.
Da una ricerca del 2021 a firma di Catherine Loveday, ricercatrice della memoria, emerge che l’80% afferma che la memoria è uscita peggiorata dalla pandemia. Siamo tutti in frantumi non solo a causa del Covid-19, ma anche a causa delle notizie che arrivano dal mondo.
Inoltre, in molti usiamo le distrazioni come i social media come rimedi anti-stress. Dunque, quello scrolling infinito, a volte, crea angoscia, mentre le notifiche degli smartphone e le nostre auto-interruzioni a caccia di notifiche, hanno un impatto su cosa, come e se ricordiamo.
Persino, l’uso degli smartphone potrebbe modificare il cervello, secondo lo studio ABCD condotto su oltre 10 mila bambini americani fino all’età adulta. “C’è una relazione fra l’uso della tecnologia e l’assottigliamento corticale” spiega Larry Rosen che studia social media, tecnologia e cervello. “I giovani più tecnologici hanno una corteccia più sottile, simile alla terza età”, infatti è associata alle malattie degenerative come Parkinson e Alzheimer.
Neuroscienziati divisi sull’amnesia digitale
Chris Bird, professore di neuroscienze cognitive nella School of Psychology dell’University of Sussex, a capo
di una ricerca dell’Episodic Memory Group, afferma che “da sempre scarichiamo cose su dispositivi esterni, come la scrittura di annotazioni, e ciò aiuta done e uomini a vivere vite complesse”. Dunque “non ho un problema ad usare dispositivi esterni per aumentare i processi mentali o mnemonici”.
“Lo facciamo di più, tuttavia questa attitudine ci libera tempo per concentrarci, focalizzarci e ricordare altre cose”. In effetti, le cose da memorizzare che affidiamo ai telefoni sono cose difficili da ricordare per la maggior parte degli esseri umani. “Fotografo il mio biglietto del parcheggio per ricordami dove ho posteggiato: un’informazione arbitraria. I nostri cervelli non sono evoluti per ricordare informazioni altamente specifiche e usa-e-getta. Prima dell’era degli smartphone, compivamo uno sforzo per ricordarci come tornare all’auto”.
Oliver Hardt, che studia la neurobiologia della memoria alla McGill University di Montreal, esprime invece maggiore cautela: “Una volta che cessiamo ad usare la memoria, peggiora”, rendendoci ancora più schiavi dei nostri device. “Li utilizziamo per ogni cosa. Se cerchiamo una ricetta, basta cliccare su un pulsante per ricevere l’elenco degli ingredienti sullo smartphone. Dunque, è conveniente, ma la convenienza ha un prezzo. Sarebbe meglio che continuassimo a fare alcune cose da soli.”
Il caso del GPS e dei processi cognitivi
Hardt afferma che “prevediamo che l’utilizzo prolungato del GPS ridurrà la densità della materia grigia nell’ ippocampo. La sua riduzione di densità in quest’area provoca una varietà di sintomi come il rischio di depression ed altre psicopatologie, ma perfino forme di demenza”.
I sistemi dei navigatori basati sul GPS non ci richiedono di formare complessa mappa geografica. Invece, ci dicono solo come orientarci, con istruzioni come ‘Gira a sinistra al prossimo semaforo’. Queste risposte comportamentali semplici (‘Gura a sinistra’) a certi stimoli (al ‘semaforo’) sono comportamenti spaziali che non coinvolgono molto l’ippocampo, a differenza delle strategie spaziali che richiedono la conoscenza di una mappa geografica, in cui collocare ogni punto, arrivando da ogni direzione: richiede cioè computazioni cognitivamente complesse.
Quando esploriamo le capacità spaziali di persone che usano il GPS a lungo, osserviamo menomazioni nelle capacità della memoria spaziale che affliggono l’ippocampo. Leggere una mappa è difficile affidarsi ai dispositivo è comodo. Ma fare cose difficili ci fa bene, perché coinvolge processi cognitivi e strutture cerebrali che hanno altri effetti sul generale funzionamento cognitivo”.
Il rischio di demenza è elevato
Hardt non ha ancora i dati, ma crede che “i costi potrebbero essere elevatissimi: è enorme l’aumento del rischio di demenza. Meno usiamo la nostra mente, meno utilizziamo i sistemi responsabili di complicati processi come la memoria episodica o flessibilità cognitiva, dunque più aumenta il rischio di sviluppare la demenza”
“Esistono studi che per esempio mostrano come raramente si sviluppa la demenza per un professore universitario e la motivazione non è che sono più intelligenti, ma che anche da anziani compiono attività che richiedono l’uso della mente”. Tuttavia, sono in disaccordo altri scienziati come Daniel Schacter, psicologo di Harvard che ha scritto i “Seven Sins Of Memory: How The Mind Forgets and Remembers”, che ritiene che solo il GPS sono “task specific”.
Occorre prestare attenzione per ricordare ed evitare l’amnesia digitale
Mentre gli smartphone aprono le porte a nuove opportunità di conoscenza, ci allontanano dal vivere il presente come una giornata bellissima, di cui non abbiamo esperenza a causa del capo chino sul display. Quando non facciamo un’esperienza, non riusciamo a ricordarla e ciò potrebbe limitare la nostra capacità di avere nuove idee ed essere creativi.
Neuroscienziati e ricercatori della memoria come Wendy Suzuki hanno parlato di questi temi nel podcast di neuroscienza dell’Huberman Lab: “Se non ricordiamo cosa abbiamo fatto, le informazioni acquisite dagli eventi ci cambiano… [La parte del cervello che ricorda] davvero definisce le nostre storie personali e dunque chi siamo”.
Catherine Price, autrice scientifica e del libro “How to Break Up With Your Phone” aggiunge: “Ciò a cui prestiamo attenzione nel momento si aggiunge alla nostra vita. I nostri cervelli non sono multitask, anche se crediamo l’opposto. Ma anche quando il multitasking sembra avere successo è solo perché una delle attività, in cui eravamo impegnati, non richiedeva attività cognitive come fare la lavatrice o ascoltare la radio. Quando prestiamo attenzione allo smartphone, rinunciamo a tutto il resto. Dunque ricorderemo solo ciò cui prestiamo attenzione, mentre non ricorderemo il resto”.
La neuroscienziata di Cambridge Barbara Sahakian ha dimostrato questi concetti in un esperimento del 2010, in cui tre differenti gruppi erano dediti alla lettura: uno aveva usato l’instant messaging prima di iniziare, uno durante la lettura e un altro aveva evitato l’instant messaging. Al ‘comprehension test’ risultò che chi utilizzava l’instant message non ricordava nulla di ciò che aveva letto”.
Price esprime preoccupazione per la distrazione indotta da smartphone: viviamo un una “continua attenzione parziale” secondo l’esperta Linda Stone. Del resto, nessuno usa il tempo liberato dalle app di mobile banking per scrivere poesie, ma ci limitiamo a consumare passivamente storie e post su Instagram. Se Benjamin Franklin fosse stato su Twitter, non avrebbe scoperto nulla”, afferma Stone.
“Le distrazioni costanti causate dai device invece potrebbero avere un impatto sulla nostra capacità di accumulare ricordi e trasferirli in uno storage a lungo termine, ostacolando il pensiero profondo e i pensieri interessanti: le continue notifiche distraggono e producono modifiche fisiche che impattano sulla memoria”.
Price teme dunque che gli smartphone possano danneggiare la creatività intellettuale, perché essere creativi necessita la presenza di materiale grezzo nel cervello, ed è come non poter fare una ricetta senza gli ingredienti. Non ci sarà insight senza materiale nel cervello e senza ricordi a lungo termine”.
Il 92enne Premio Nobel, il neuroscienziato e bio-chimico Eric Kandel supporta questa tesi. Infatti ha studiato come le distrazioni affliggono la memoria. Lo psicologo Larry Rosen, co-autore con la neuro-scienziata Adam Gazzaley di “The Distracted Mind: Ancient Brains in a High-Tech World,” aggiunge infatti che le “distrazioni continue impediscono di codificare informazioni nella memoria”.
Conclusioni
Gli smartphone dirottano la nostra attenzione. Per Oliver Hardt, sono una vulnerabilità nella nostra biologia, dal momento che gli esseri umani sono animali molto vulnerabili e l’unico motivo per cui non ci siamo estinti è il nostro cervello superiore, che ci ha evitato di incontrare predatori e ci aiuta a trovare cibo, prestando grande attenzione all’ambiente in cui viviamo”
Non possiamo fare multitask. Quando ci focalizziamo su qualcosa è un meccanismo di sopravvivenza, una reazione a un breve stress che attiva il sistema nervoso simpatico. Ottimizza le capacità cognitive e ci prepara a ciò che ci aspetta, come nella giungla”. Ma 30 mila anni dopo, non è più così utile e le notifiche sono un segnale nella foresta.
Nessuno vuole vietare gli smartphone, ma forse dovremmo preoccuparci del loro impatto sulla memoria.
Rosen propone come possibile soluzione per evitare questi rischi cognitivi, i “tech break”: non usare il telefonino per un minuto e poi impiegarlo per altri 15 minuti. Silenziarlo e non guardare il display nel minuto di tech break e continuare così alzando i 15 minuti a 20, fino a raggiungere i 60 minuti.
Ognuno di noi deve trovare uno “screen/life balance per gestire lo smartphone e non lasciarci fagocitare dal telefonino. Per il bene della nostra memoria e la nostra salute mentale.