la valle oscura

Silicon Valley, da utopia a distopia: due notizie buone e una cattiva per immaginare il 2021

Una serie di notizie e un romanzo per guardare con nuovi occhi alla Silicon Valley, che sempre più si sta trasformando da utopia tecnologica in distopia realizzata

Pubblicato il 14 Gen 2021

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

SILICON VALLEY signpost along a rural road; Shutterstock ID 79475350; Purchaser/Photo editor: kh

Il 2020 è stato davvero – per il Covid-19 e i suoi morti, per gli effetti sull’economia e sulla vita individuale e sociale – un annus horribilis. Per altri – Amazon e tutta la Silicon Valley – è stato invece un annus mirabilis, quanto a potere e ricchezza personale e utili aziendali. Come sempre accade, possiamo guardare al 2020 come a un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto (per alcuni, i soliti noti del digitale, è stato in realtà totalmente pieno). E allora possiamo/dobbiamo cercare di immaginare e insieme prevedere come sarà il 2021. Proviamo quindi ad assemblare una serie di notizie per poi arrivare a citare un romanzo che forse – meglio di un saggio di economia aziendale e di sociologia economica – ci permette di guardare diversamente e concretamente a quella Silicon Valley (e annessi e connessi, in giro per il mondo), che è stata per troppo tempo immaginata come una sorta di utopia tecnologica mentre è piuttosto una distopia realizzata nonché una Valle oscura.

I ricchi sempre più ricchi. Di nuovo

La prima notizia è in realtà una vecchia notizia: anche il 2020 ha confermato la tendenza dell’innovazione tecnologica (del capitalismo & della tecnica) degli ultimi trent’anni a generare disuguaglianze crescenti. E questo senza che nessuno cerchi di invertire o modificare la rotta che ci sta portando a sbattere contro l’iceberg di una drammatica crisi sociale globale – anzi l’orchestra continua a suonare motivi allegri e spensierati (uno su tutti: “l’innovazione non si può e non si deve fermare mai”, con un incessante ritornello fatto della sola parola: “smart” ); e questo mentre l’algoritmo che guida la nave è stato programmato escludendo il radar, perché il rischio e la disruption sono funzionali al sistema. Scriveva Michele Farina su corriere.it il 3 gennaio 2021: “dallo scorso marzo a oggi, secondo la rivista Forbes, dieci grandi paperoni globali hanno immesso nelle loro casse già colme ben 400 miliardi di dollari, più di quanto abbia speso la Gran Bretagna per l’emergenza Covid. Mentre 150 milioni di persone, secondo la Banca Mondiale si aggiungono alla cerchia di chi vive in estrema povertà (con 1,9 dollari, cioè un euro e 60 centesimi, al giorno), le 500 persone più ricche del mondo hanno visto aumentare il loro patrimonio di 1.800 miliardi di dollari (…): un incremento del 31%, che vale da solo quasi quanto il Pil dell’Italia. Mai, in otto anni di storia, il dorato pallottoliere del Bloomberg Billionaire Index aveva fatto registrare un simile exploit”. E ancora: “Lusso e social, shopping therapy e photo sharing: nei dieci mesi che hanno sconvolto il mondo il valore di Facebook in Borsa è cresciuto dell’85%. Mentre la gente si rifocillava il cuore tra Instagram e WhatsApp, Mark Zuckerberg vedeva lievitare il suo patrimonio dell’80% fino a superare i 100 miliardi di dollari (poco meno della metà del Pil del Portogallo)”.

Servono commenti? No. Servirebbe piuttosto una indignazione di massa, che invece non c’è, anzi tutti appunto ringraziamo Amazon e i social – è il classico e perverso rapporto tra servo (noi) e padrone (la Silicon Valley) – per averci reso meno pesanti i lock-down e le zone rosse e arancioni.

La (prima) buona notizia

Dopo la precedente pessima notizia – ma vissuta con indifferenza dai più, mentre dovrebbe appunto generare/promuovere una radicale differenza tra un prima e un poi – abbiamo una piccola ma ottima notizia (Rita Querzè, sempre corriere.it): “L’algoritmo Frank utilizzato da Deliveroo per valutare i rider è discriminatorio. È quanto emerge da una sentenza del Tribunale di Bologna che ha accolto un ricorso presentato congiuntamente dai sindacati Nidil Cgil, Filcams Cgil e Filt Cgil. Per la prima volta in Europa – spiega Tania Scacchetti della segreteria nazionale Cgil citando la sentenza – un giudice stabilisce che il ranking reputazionale declassa allo stesso modo, senza alcuna distinzione, sia chi si assenta per futili motivi, sia chi si astiene dalla consegna per malattia o per esercitare il diritto di sciopero. Il giudice ha ritenuto quindi – prosegue Tania Scacchetti – che il modello di valutazione adottato dalla piattaforma di food delivery fosse il frutto della scelta consapevole dell’azienda di privilegiare la disponibilità del rider, senza mai considerare le ragioni del mancato collegamento alla piattaforma. Eppure, dice il giudice, quando vuole, la piattaforma può togliersi la benda che la rende cieca o incosciente rispetto ai motivi della mancata prestazione lavorativa da parte del rider e, se non lo fa, è perché lo ha deliberatamente scelto. Frank è cieco — conclude Scacchetti —. E pertanto indifferente alle esigenze dei rider che però non sono macchine, ma lavoratrici e lavoratori con diritti”. La risposta di Deliverooquell’algoritmo non è più in uso da novembre 2020 – non cambia la decisione del Tribunale di Bologna e non cancella il fatto che quella di Deliveroo fosse una pratica deliberatamente discriminatoria.

La (seconda) buona notizia

Il 2020 è stato sì l’anno dei mega-profitti per la Silicon Valley ma anche l’anno in cui il Congresso americano ha formulato accuse precise contro il Gafam – Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – ovvero “gli imperatori dell’economia online” come li ha definiti David Cicilline della Sottocommissione antitrust della Camera dei rappresentanti statunitense. E a ottobre 2020 i deputati americani hanno concluso che quello delle big-tech è un monopolio (forse sarebbe meglio definirlo un oligopolio di imprese ciascuna monopolista nel proprio settore specifico) che ha generato meno innovazione, meno libertà di scelta per i consumatori e – soprattutto – un indebolimento pericolosissimo per la democrazia. Il Gafam ha contestato le accuse presentando cifre che mostrerebbero i benefici portati all’innovazione, ma negli Stati Uniti le azioni legali contro il potere del nuovo oligopolio si sono moltiplicate (e Google è stata portata in tribunale da dieci stati americani per abuso di posizione dominante nel mercato della pubblicità online). È un’altra buna buona notizia, ne seguiremo gli sviluppi.

Cui si è tuttavia contrapposta la pessima notizia del via libera dell’Antitrust europeo alla acquisizione di Fitbit – società di dispositivi tecnologici indossabili, legati al mondo dello sport e che raccolgono i dati biometrici di chi li indossa – da parte di Google, che pure già dispone di tutti i dati di coloro (quasi tutti noi) che usano il suo motore di ricerca: decisione che quindi aggiunge ulteriori e serissimi problemi di tutela della privacy e di sviluppo ulteriore della profilazione/spionaggio delle persone, via digitale, da parte di imprese private per fini di profitto privato. L’offerta di acquisto da parte di Google – 2,1 miliardi di dollari – aveva sollevato forti critiche da parte dei difensori della privacy e dalle organizzazioni dei consumatori. Alla fine, è arrivato l’ok della Commissione europea che ha imposto però una serie di condizioni per cui Google conserverà sì i dati estratti attraverso Fitbit ma separatamente da quelli utilizzati per la pubblicità e non li userà per Google Ads, mentre gli utenti potranno scegliere se conservare i propri dati sul profilo Fitbit o Google. Condizioni che saranno rispettate? La storia della Silicon Valley ci porta ad essere fortemente pessimisti, perché se i dati sono la materia prima del capitalismo della sorveglianza[1], il capitalismo – che mai si è posto problemi etici, mai ha accettato di subordinarsi a una etica umana, mai ha rinunciato allo sfruttamento del pluslavoro per accrescere il proprio plusvalore, sempre ha cercato di aggirare la legge – non si porrà certo limiti alla loro estrazione crescente.

La Valle oscura

E questo ci porta al libro – a metà tra romanzo autobiografico e saggio sociologico – di Anna Wiener, “La valle oscura”[2], che è appunto la Silicon Valley (titolo originale: “Uncanny Valley”, cioè valle inquietante, sconcertante) e che è oscura (o inquietante, sconcertante) più che luminosa come invece credevano i tecno-entusiasti a prescindere (o chi non vuole confrontare l’apparente nuovo con il consolidato vecchio), che credevano di trovare lì la nuova Utopia mentre era solo l’ultima fase di un capitalismo industrialista e positivista che ci domina da tre secoli anche con le sue illusioni di libertà e di individualismo. Anne Wiener vi ha lavorato per cinque anni della sua vita in diverse start-up (oggi scrive per il “New Yorker”), quindi il suo è un racconto da dentro e ci narra di cos’è realmente la Silicon Valley, quali sono i suoi valori/disvalori, di quanto è parossisticamente iper-capitalistica.

Un racconto che inizia con la quotazione in borsa di Facebook (“un social network che tutti dicevano di odiare, ma a cui nessuno riusciva a smettere di loggarsi”), un anno di nuovi ottimismi – “l’ottimismo del niente ostacoli, niente limiti, niente cattive idee. L’ottimismo del capitale, del potere e dell’opportunità. Ovunque avvenissero passaggi di denaro c’erano immancabilmente intraprendenti tecnologi ed esperti in gestione d’impresa. La parola disruption si diffuse a macchia d’olio”. Era (è) un tempo dove l’apparire era sempre più importante di essere e “una app non serviva tanto a leggere, quanto a far vedere che eri il tipo di persona che leggeva e usava una app che offriva una esperienza di lettura all’avanguardia e un design innovativo e intuitivo. L’utente ideale della app, ne dedussi, era una persona che si considerava un lettore, ma non lo era, almeno non sul serio”. E ancora: “Non sapevo che nel settore tecnologico le qualifiche – almeno quelle tradizionali, come le lauree specialistiche o l’esperienza – erano irrilevanti quando erano sostituite da una volenterosa determinazione”. Per cui gli amministratori delegati si esprimevano in termini militareschi (“Siamo in guerra diceva, in piedi di fronte a noi, con le braccia incrociate e la mascella tesa. Dall’altra parte del mondo, in Siria, Iraq e Israele infuriava il conflitto, e noi eravamo in guerra con altri concorrenti per accaparrarci quote di mercato”). Ma non solo: per l’ad “eravamo i suoi subordinati. Smontava le nostre idee e ci denigrava negli incontri privati; ci lasciava intravedere responsabilità e prestigio, solo per poi privarcene in modo inspiegabile. Non si faceva scrupoli a usare la tattica del silenzio coi suoi dipendenti. Controllava tutto e tutti in maniera maniacale, era vendicativo, ci faceva sentire superflui e inadeguati. Noi gli inoltravamo regolarmente i feedback dei nostri clienti, come cani che riportano la pallina al padrone, e lui regolarmente ci ignorava. (…) sapeva che far soffrire la gente è molto produttivo”. Di più e peggio: “Il lavoro si era incuneato nella nostra identità. Noi eravamo l’azienda e l’azienda era noi” – che è uno dei modi classici ma sempre più perfezionati – aggiungiamo – con cui il tecno-capitalismo maschera/nasconde l’alienazione e lo sfruttamento e il pluslavoro.

E ancora Anne Wiener: “La gente dice cose come coattuare e pivottare; usa verbi come sostantivi. Parla scherzosamente di adultità. Dispiega il gergo di internet come se costituisse un vocabolario”. E poi: “Internet rigurgitava di uomini animati da cieca ambizione, senza nessuna esperienza professionale, che si scambiavano insegnamenti basati su aneddoti e consigli sotto forma di elenchi puntati: 10 lezioni fondamentali sulle start-up che non imparerai a scuola; 10 cose che ogni imprenditore di successo sa; (…) Perché il mercato vince sempre; Perché il cliente non ha mai ragione; Come affrontare il fallimento; Come fallire meglio; Come fallire con successo; (…) Acuisci la tua sensibilità emotiva; Come amare qualcosa che non ti ama”. Tutti, nella start-up, erano devoti alla causa, ma qual era la causa? “La nostra causa era l’azienda, ma anche l’azienda aveva le sue: accrescere il coinvolgimento; migliorare l’esperienza dell’utente; ridurre le frizioni; favorire la dipendenza digitale (…). Stavamo aiutando gli sviluppatori delle piattaforme di e-commerce a far sì che gli utenti trovassero più difficile abbandonare il carrello; stavamo aiutando i progettisti a rafforzare il ciclo di feedback endorfinico. (…) Il traguardo finale era lo stesso per tutti: la crescita a ogni costo. Superare chiunque altro. La disruption e poi il dominio”. Costruendo “un mondo di metriche affidabili, in cui gli sviluppatori non avrebbero mai smesso di ottimizzare e gli utenti non avrebbero mai smesso di guardare i loro schermi. Un mondo libero dal peso delle decisioni, delle inutili frizioni del comportamento umano, dove ogni cosa – ridotta alla versione più veloce, semplice e patinata di sé stessa – poteva essere ottimizzata, gerarchizzata, monetizzata e controllata”. E ancora: “Il feticismo dell’ecosistema per la cultura dell’ottimizzazione e il potenziamento della produttività era cresciuto fino a sconfinare nel biohacking”.

Ecco, questo di Anna Wiener è un altro modo – appunto da dentro, come vita vissuta e in forma di romanzo – per descrivere il digitale e i processi di digitalizzazione. Dove “l’obiettivo è la produttività, non il piacere. (…). E la quantificazione era un vettore di controllo”. Con una Silicon Valley divenuta benchmark per il mondo intero, “che forse promuoveva uno stile di vita individualistico, ma su larga scala generava uniformità… che era un piccolo prezzo da pagare per cancellare la fatica di decidere. Liberava le nostre menti perché potessero applicarsi ad altro, come il lavoro”. O meglio, a un pluslavoro capitalistico crescente, posto che anche il digitale è appunto (iper)capitalismo, ovvero il digitale è la forma apparentemente nuova della sempre uguale rivoluzione industriale e della sua irrazionale ed ecologicamente e socialmente insostenibile razionalità strumentale/calcolante industriale (strumentale perché finalizzata al solo profitto; calcolante perché si riproduce solo misurando efficienza e produttività/profitto escludendo ogni altro valore/scopo; industriale perché tutto diventa prodotto industriale, ingegnerizzabile e producibile/standardizzabile – come la stessa vita umana rendendo funzionali al sistema i comportamenti individuali e collettivi).

Ma che sia urgente cambiare modello economico ce lo ricorda anche la “Mit Technological Rewiev”, scrivendo che la pandemia non deve farci dimenticare la crisi ambientale e climatica[3] e che quindi “We must transform the economy, not halt it, to prevent runaway warming. And we’re doing it far, far too slowly today”[4]. Giusto, però dobbiamo anche ricordare che ad essere strutturalmente insostenibile con l’ambiente e la società e le future generazioni è il tecno-capitalismo in sé (la rivoluzione industriale) di cui il digitale è solo la sua ultima forma. Conseguentemente, ci vuole ben altro e di molto diverso per essere sostenibili che un po’ di green o di blue economy. E soprattutto serve usare la tecnologia in modalità non capitalistica, ma con responsabilità e capacità di cura.

Anno Nuovo, vita (non-digitale) nuova

Se questa è la Silicon Valley, se questo è il digitale e la digitalizzazione della vita, allora – per uscire dalla nostra dipendenza digitale, dallo storytelling della Silicon Valley e dei suoi intellettuali organici e così provare a restare umani e consapevoli della nostra vita senza delegarla sempre più a un algoritmo – può essere utile meditare su queste riflessioni dello scrittore svizzero-ticinese Mattia Cavadini: “Alle élites del suo tempo Leopardi rimproverò ignoranza e sciocchezza, ma soprattutto il non sentire e il non sapere che il progresso liberale, che loro vedevano come la panacea per tutti i mali, nascondeva un disastro e un dissesto senza ritorno. (…) Dai tempi di Leopardi, tempi in cui la Modernità (con la sua celebrazione dell’utile e del profitto) iniziava ad affacciarsi all’orizzonte, ad oggi poco è cambiato. Le magnifiche sorti e progressive continuano ad esercitare una fascinazione assoluta ed inscalfibile. E così, oggi come allora, si sentono voci altisonanti levarsi: non si può fermare il progresso, non si può arrestare l’economia, l’utile ha ricadute su tutta la società, l’indotto è trasversale e va a beneficio di tutti. Cosa incredibile è che alla celebrazione di questo refrain partecipano le voci più disparate (…). E vi partecipano in modo automatico, senza che una forza superiore li costringa o li consoli, ma mossi da una sorta di servilismo volontario, come incantati e affascinati, convinti che dalla celebrazione del Progresso possa colare qualcosa che va a vantaggio di tutti. Non si sa come, ma attorno al Totem del Progresso sembra riconciliarsi l’intera società atomizzata di oggi, quella stessa società che di norma litiga su tutto, in preda a una guerra molecolare in cui ognuno è assorbito dal proprio interesse ombelicale ed è pronto a schiacciare gli altri e ad usarli come mezzi per il proprio vantaggio. Ed invece, attorno a questo Totem, tutti gli egoismi, come per miracolo, collimano, dando origine ad una danza estatica, che potremmo definire la danza degli egoismi socializzati, cui tutti partecipano convinti che dalla sopravvivenza del Totem dipenda anche quella della comunità. Ed invece proprio questa danza sarà la causa del collasso. Non tanto per una profezia catastrofista, ma per un semplice dato di realtà: come è possibile celebrare e magnificare l’idea di un progresso illimitato dentro un universo limitato? Questa incongruenza (sebbene si faccia di tutto per misconoscerla) sta avendo conseguenze disastrose già oggi, sia a livello sociale (con una disuguaglianza crudele nella distribuzione delle risorse), sia a livello ambientale (con l’annichilimento della biodiversità), sia a livello climatico. Ma a farne le spese, in una parola, è la Bellezza. (…) la Bellezza (la bellezza delle cose in sé) è stata lacerata e corrosa proprio dal mito del Progresso, che ha trasformato il mondo in risorsa da sfruttare e che ha fatto dell’uomo un mezzo, azzerato dentro i meccanismi della produzione. (…) se vogliamo salvare il pianeta, salvando al contempo noi stessi, dobbiamo concepire tutti gli altri esseri (umani, animali, vegetali, minerali) non come oggetti da possedere e dominare, ma come bellezza da custodire, rispettare e onorare. Pensare al mondo e agli altri come bellezza significa uscire dalla logica dell’uso strumentale delle risorse umane e naturali e abbracciare la logica della cura[5].

  1. S. Zuboff (2019), “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss, Roma
  2. A. Wiener (2020), “La valle oscura”, Adelphi, Milano
  3. Lo scrivevamo già agli inizi della pandemia su queste pagine.
  4. https://www.technologyreview.com/2021/01/01/1015533/covid-lessons-for-climate-change-emissions-renewables/
  5. M. Cavadini, “Il Totem del Progresso. L’economia non si può fermare!” – https://www.rsi.ch/cultura/idee/Il-Totem-del-Progresso-11408448.html

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