connessi e isolati

Sindrome da selfie, narcisismo e isolamento nell’era social: i rischi



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I social network, nuovi agenti di socializzazione, arricchiscono e talvolta sostituiscono famiglia e scuola. Tuttavia, l’uso eccessivo può alimentare isolamento e narcisismo. Studi mostrano come i selfie e la “selfite” riflettano un bisogno di riconoscimento, influenzando l’autostima e la socializzazione, soprattutto tra i giovani

Pubblicato il 17 ott 2024

Marino D'Amore

Docente di Sociologia generale presso Università degli Studi Niccolò Cusano



selfite (1)

I social network ormai rappresentano ormai una nuova agenzia di socializzazione che arricchisce di significato le funzioni della famiglia e della scuola, a volte attuando un processo sostanzialmente sostitutivo, con tutte le criticità conseguenti[1].

Social e isolamento individuale: lo studio

Il tempo trascorso sulle cosiddette piattaforme virtuali, finalizzate all’aggregazione sociale, è direttamente proporzionale alla percezione dell’isolamento individuale, tale equivalenza emerge dalla ricerca pubblicata sull’American Journal of Preventive Medicine sull’Uso dei Social Media da parte degli young adults[2].

Selfies, Narcissism, and Personality | Do Selfies Predict Narcissism?

La ricerca, che risale al 2017, è stata condotta su un campione di 1800 giovani americani e i fattori presi in causa sono stati, appunto, il tempo di permanenza quotidiano sui social network e la frequenza di collegamento agli stessi Lo studio ha focalizzato la sua analisi su 11 social network: Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat, YouTube, Google Plus, Reddit, Tumblr, Pinterest, Vine e LinkedIn.

Il campione ha mostrato che coloro che passano circa 2 ore al giorno sui social network corrono tre volte il rischio di sviluppare una spiacevole sensazione di emarginazione dal mondo reale rispetto a chi ne fa un uso più moderato.

Alla luce di questo risultato sembra che i social network siano passati dall’essere dei facilitatori relazionali, in particolare per gli utenti che hanno più difficoltà a entrare in contatto con gli altri nella vita reale, al rappresentare, in senso speculare, uno dei principali ostacoli alla relazione.

Quindi, se da una parte gli individui si alfabetizzano a tecniche e linguaggi sempre più innovativi per comunicare e mantenerci in contatto con i nostri amici virtuali, dall’altra sembrerebbe che le stesse piattaforme che ci promettono di connetterci con un mondo always networked, in realtà stimolino l’isolamento e l’esclusione.

Nativi digitali: le conseguenze dell’esposizione prolungata ai social

La categoria che palesa maggiormente tale paradosso è quella dei nativi digitali per cui solitudine e inadeguatezza sembrano essere le principali conseguenza di un’esposizione troppo prolungata a uno scenario virtuale sempre in evoluzione. Quello stesso scenario che rappresenta l’esteriorizzazione della dialettica volubile tra inclusione ed esclusione, tra isolamento e riconoscimento sociale: oggigiorno misuriamo la nostra popolarità e il grado di accettazione da parte della società basandosi sul numero di feedback, di “mi piace” e dei commenti ricevuti.

Il selfie rappresenta la sintesi ideale di questo dialogo, simulacro visuale di un processo dicotomico che si divide tra un modus vivendi declinato in senso virtuale e individuale e la gratificazione generata dall’apprezzamento sociale, intesa come linfa per la costruzione e la stabilizzazione di un’identità sempre più complessa. Tuttavia, il suo abuso può dare luogo a esasperazioni che si traducono in una sostanziale sovraesposizione[3].

Sindrome da selfie: cos’è e i rischi

Nel 2017 un’equipe di psicologi dell’Università di Nottingham e della Thiagarajar School of Management in India, ha effettuato uno studio sulla sindrome da selfie esaminando dettagliatamente il fenomeno.

Si chiama selfite e secondo gli esperti ci sono ben tre forme di questo disturbo moderno di cui molti sono affetti.

La definizione è entrata per la prima volta a far parte del vocabolario comune nel 2014 per descrivere l’ossessivo selfie-taking.

Selfite e disturbo narcisistico di personalità

La ricerca, pubblicata sul Journal of Mental Health and Addiction mette in evidenza l’esistenza di tre forme di questo sintomo. La selfite può essere cronica, acuta o borderline, e in ogni caso è la spia di un disturbo narcisistico di personalità.

L’indagine effettuata dal team di specialisti ha preso in considerazione un sondaggio svolto su un campione di 400 persone indiane[4].

Esaminando i dati raccolti è emerso che la sindrome da selfie è cronica quando un individuo ha un bisogno incontrollato di scattarsi foto in modo reiterato come a soddisfare una necessità figlia di una dipendenza concreta che si palesa postando le foto su Facebook o Instagram più di 6 volte al giorno.

Le persone che, invece, rientrano in una categoria borderline si fotografano almeno 3 volte al giorno ma non necessariamente pubblicano sui social.

Infine la selfite viene considerata acuta quando gli individui si fanno moltissimi autoscatti per poi renderli tutti visibili.

La sindrome da selfie è una patologia? Il dibattito tra gli specialisti

L’Apa, l’associazione psichiatrica americana, ritiene che scattarsi selfie in maniera reiterata per poi pubblicarli è una patologia, tanto che ha definito questo fenomeno Sindrome da Selfie, sebbene non sia ancora presente nel manuale diagnostico dei Disturbi Mentali.

Non tutti gli specialisti clinici sono però d’accordo nel definire questo disturbo una patologia, perché tra l’ossessione di riprodurre la propria immagine e la malattia possono intercorrere le circostanze e le motivazioni più disparate.

Per prima cosa è necessario distinguere se gli scatti hanno come obiettivo quello di mostrare sé stessi, il nostro simulacro virtuale, il luogo in cui ci si trova o un prodotto, come nel caso degli influencer, i nuovi opinion leader del flusso comunicativo a 2 fasi di Lazarsfeld e Katz.

Tuttavia appare chiaro che la mancanza di riconoscimento possa indurre un senso di frustrazione, soprattutto in uno scenario fortemente competitivo da un punto di vista edonistico, in soggetti con bassa autostima che ricercano continuamente gratificazioni. Individui che mostrano, attraverso il selfie, e i vari filtri che ne migliorano l’immagine, un desiderio latente che in tale occasione si esplicita: mostrarsi per come vorrebbero essere nella realtà.

Sindrome da selfie e dismorfofobia

Se la sindrome da selfie non viene vetrinizzata ma rimane vincolata in un ambito privato, può nascondere invece la dismorfofobia. Questa è una patologia mentale, contraddistinta dalla preoccupazione ossessiva e spesso priva di fondamento che una particolare parte del corpo sia portatore di un’imperfezione così evidente da doverla correggere o quantomeno nascondere in ogni modo.

La dismorfofobia sarebbe il risultato di una commistione tra fattori di natura genetica, sociale, culturale e psicologica[5].

Una ricerca della Simon Fraser University[6], ad esempio, ha affermato che passare più di 20 ore a settimana sui social network aumenta il rischio di depressione e anoressia nelle donne, in particolare nella fascia compresa tra i 25 e i 29 anni d’età. Il selfie ne è la scintilla catalizzatrice: le ragazze trovano negli autoscatti, fonte di affermazione e di frustrazione.

La selfite in età adolescenziale

Il tema della selfite si contestualizza principalmente nella fascia adolescenziale, periodo esistenziale in cui i ragazzi si trovano alla costante e faticosa costruzione della personalità e nella ricerca di sé. In quel frangente di vita essi attraversano un momento di crisi sostanziale caratterizzato da un profondo e ineludibile cambiamento: compaiono emozioni nuove, cambiano le relazioni genitoriali-filiali, si creano nuovi rapporti, ma soprattutto è il corpo che si trasforma sia nella sua fisicità sia nella sua percezione, palesando limiti e potenzialità sconosciute. Tale confusione stimola negli adolescenti una costante ricerca, attraverso i selfie postati sui social, di risposte eterodirette, che li aiutino a capire il loro ruolo nel mondo e nel gruppo dei pari[7].

Un certo numero di like o commenti positivi diventano necessari, quindi, per raccogliere informazioni su come vengono percepiti, sul loro grado di fascino esercitato, aspetti sottesi all’obiettivo di definire una personalità in costruzione, come detto, e rinforzare l’autostima, che in questo particolare momento può aver perso i vecchi punti di riferimento della socializzazione primaria, quella familiare.

Tale processo può, tuttavia, attualizzarsi anche in età adulta, in periodi di grande cambiamento fisico e mentale, esplicandosi come ricerca incessante di una gratificazione esterna. Anche in questo caso dipende dalla intensità del fenomeno.

Maggiori sono la frequenza e il livello di rischio a cui i soggetti si espongono per vetrinizzare la propria immagine, maggiore è la possibilità che alla base esista un profondo senso di vuoto e un bisogno di riconoscimento delle proprie specificità.

La trasformazione antropologica indotta dal digitale: opportunità e aspetti negativi

La digitalizzazione globale e la virtualizzazione dell’esistenza hanno comportato una trasformazione antropologica molto rapida, interessando in modo particolare i giovani proprio nei loro processi di socializzazione primaria e secondaria, lasciando gli adulti spesso sprovvisti di abilità, competenze e linguaggi adeguati per sostenerne la crescita e il conseguente cambiamento.

Il bisogno di socializzazione, necessario e irrinunciabile nell’adolescente, declinato nel mondo web, ha così permesso ai nativi digitali di viverne in modo intenso e significativo tutti gli aspetti che la connotano[8].

Ma proprio questa straordinaria velocità di connessione, di contatto e accessibilità senza controllo e limiti ha comportato anche la presa di coscienza di molti aspetti negativi, francamente problematici, connessi, in un rapporto dialogico, alla socializzazione virtuale.

  • Il primo aspetto problematico è rappresentato dalla necessità di essere visti, un desiderio che, nella sua esasperazione, vira verso il narcisismo patologico, elemento assai frequente nel nostro contesto socioculturale, fortemente connotato dal bisogno di visibilità pubblica come tratto fondante della contemporaneità.
  • Un altro problema frequente è dovuto all’attitudine di molte ragazze a trovarsi coinvolte nel fenomeno del sexting, termine inglese nato dalla crasi delle parole sex e texting, che sta a significare l’atto di condividere messaggi, immagini o video dal contenuto connotato sessualmente in modo più o meno esplicito.

I rischi del sexting

Quest’ultima pratica ha pesanti ricadute proprio sulla dimensione socializzatrice:

  • da una parte trovarsi al centro dei commenti negativi conseguenti alla pubblicazione di proprie immagini sessualizzate comporta infatti ansia, vergogna e isolamento sociale autoimposto;
  • dall’altra contribuisce al diffondersi di un’altra emergenza, il cyberbullismo, che rispecchia le medesime caratteristiche del bullismo presente nella vita reale ma ne amplifica la diffusione e le conseguenze in funzione dell’anonimato che la rete garantisce al cyberbullo e della perpetuazione della vessazione, dipanato sulle 24 ore e slegato dagli elementi spaziale e temporale, in virtù di quell’elisione della dimensione che li accoglie, spiegata da Harvey[9].

L’utilizzo di internet e dei social network è diventato, attualmente, uno dei principali strumenti che gli individui usano per esprimere sé stessi, la propria opinione, per lasciare in qualche modo traccia di sé nel mondo, per diventare dei veri e propri e prosumer.

Si tratta infatti di un mezzo ormai accessibile ai più, che attualizza e preconizza grandi potenzialità ma anche grandi rischi, come quando si arriva agli eccessi sopracitati.

Bibliografia

Ambrosini M., Selfie, La bussola, Roma 2023.

Bagnasco A., Barbagli M., Cavalli A., Corso di sociologia, Il Mulino, Bologna 2012.

Bisi R., Ceccaroli G., Sette R., Il tuo web. Adolescenti e social network, Cedam, Padova 2016.

Carter A., Forrest J., Kaida A., Association Between Internet Use and Body Dissatisfaction Among Young Females: Cross-Sectional Analysis of the Canadian Community Health Survey, aculty of Health Sciences, Simon Fraser University, Burnaby, BC, Canada 2017.

Harvey D., La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 2015.

Pavoncello V. (a cura di), Cheese! Un mondo di selfie, fenomenologie d’oggi, Mimesis, Sesto San Giovanni 2016.

Stanghellini G., Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, Feltrinelli, Milano 2020.


[1] Bagnasco A., Barbagli M., Cavalli A., Corso di sociologia, Il Mulino, Bologna 2012.

[2] Si consulti https://www.ajpmonline.org/article/S0749-3797(17)30016-8/fulltext

[3] Ambrosini M., Selfie, La bussola, Roma 2023.

[4] Si consulti l’articolo disponibile su file:///C:/Users/Marino/Downloads/Balakrishnan-Griffiths2018_Article_AnExploratoryStudyOfSelfitisAn.pdf

[5] Pavoncello V. (a cura di), Cheese! Un mondo di selfie, fenomenologie d’oggi, Mimesis, Sesto San Giovanni 2016.

[6] Carter A., Forrest J., Kaida A., Association Between Internet Use and Body Dissatisfaction Among Young Females: Cross-Sectional Analysis of the Canadian Community Health Survey, aculty of Health Sciences, Simon Fraser University, Burnaby, BC, Canada 2017.

[7] Bisi R., Ceccaroli G., Sette R., Il tuo web. Adolescenti e social network, Cedam, Padova 2016.

[8] Stanghellini G., Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, Feltrinelli, Milano 2020.

[9] Harvey D., La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 2015.

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