Il rapporto intermedio dell’Ocse sul livello di istruzione e di occupazione degli adulti, con un aggiornamento dei dati a fine 2013 (Education at a Glance Interim Report: Update of Employment and Educational Attainment Indicators), fotografa una situazione in cui un giovane su sei della fascia di età 25-34 non possiede le competenze considerate essenziali per la società di oggi, un dato sostanzialmente senza variazioni significative dal 2003. Una situazione preoccupante per più ragioni, che Andreas Schleicher, il direttore Ocse per Education e Skills, così riassume “Avere un giovane su sei che entra nel mondo degli adulti senza una qualifica è un grande rischio per i mercati del lavoro e le società. Il progresso deve essere raggiunto attraverso la scala formativa, dando la priorità a ridurre la percentuale dei meno istruiti tra i giovani”.
Bassa istruzione, analfabetismo funzionale e competenze digitali
Tra l’altro è ben noto il legame tra bassa istruzione e analfabetismo funzionale e tra questi e l’analfabetismo digitale. E questo è anche reso evidente dal fatto che i Paesi con tassi più alti di istruzione al di sotto della terziaria (universitaria) siano anche quelli con i tassi più alti di popolazione che non utilizza per nulla (o non frequentemente) Internet e i servizi online.
Tra i 13 Paesi Ocse che superano il 15% di giovani senza qualifica (quindi con la sola istruzione primaria), dove figurano Francia, Paesi Bassi, Norvegia, Danimarca, Nuova Zelanda, l’Italia è tra quelli a percentuale maggiore, con il 27%, in Europa meglio soltanto di Spagna e Portogallo. Simile per certi versi la situazione nella fascia 55-64 anni, con gli stessi Paesi agli ultimi posti e l’Italia al 56% di popolazione con istruzione al più primaria e solo al 12% terziaria. Il dato che però preoccupa maggiormente (e rilevabile dai dati che mette a disposizione l’Ocse sul proprio sito web) è che se si considera la fascia di età complessiva degli adulti (24-64) la percentuale di popolazione con la sola istruzione primaria è del 42%, con una riduzione molto lenta dal 2000 (55%) ad oggi, soprattutto se paragonata a Paesi come la Grecia (dal 51% al 30%) o l’Irlanda (dal 42% al 23%) che dieci anni fa partivano da situazioni non molto lontane da quella italiana.
Situazione, quella italiana, resa più gravosa anche dal problema occupazionale e dal fenomeno dei NEET (Not in employment, education or training) soprattutto nella fascia 20-24 anni, dove l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui la percentuale sale in modo significativo (dal 27% del 2000 al 34% del 2013), attestandosi sui dati 2013 solo dietro la Turchia (che però nello stesso periodo scende dal 44% al 36%). È, questa, la situazione grave e complessa che di fatto è uno dei principali fattori di freno alla crescita socio-economica italiana e allo sviluppo di un reale cambiamento che sfrutti compiutamente le opportunità della rete e del digitale.
Una situazione di progressivo ritardo di competenze che rende difficile progettare reali e profondi cambiamenti, impedisce l’effettivo avvio di tante innovazioni e che favorisce, allo stesso tempo, lo sfruttamento di tutti i possibili spazi di rallentamento e di prosecuzione delle vecchie prassi. Non è un caso, ad esempio, che ancora oggi prevalgano i bandi di gara che richiedono alle imprese documentazione esclusivamente cartacea, nonostante da tempo sia possibile farne a meno.
Una situazione che richiede, come è bene ribadire, interventi di lungo termine, non estemporanei, ampi e capillari, diversificati e avviati da tutti gli attori del sistema educativo. Sapendo che il tema della crescita non si può separare da quello dello sviluppo delle competenze digitali e che questo è a sua volta indissolubile dal tema della crescita dell’alfabetismo funzionale, con obiettivi evidenti e chiari sui livelli di istruzione. Difficilmente può essere efficace una politica sul sistema educativo che si rivolga solo a una parte della popolazione o affronti solo un versante del problema.
Gli ingredienti delle riforme di successo sui sistemi educativi
Ed è così che il grande sforzo prodotto e ancora in corso sulla Buona Scuola (con la più grande consultazione online mai avvenuta in Europa, 207mila partecipanti), per cui è atteso per fine marzo un primo decreto, rischia di tradursi in un intervento di grande innovazione ma parziale, che non affronta fino in fondo le conseguenze e la necessità di un ruolo sempre più attivo delle reti di scuole per la completa riorganizzazione del Ministero, che non coniuga i temi scolastici con quelli dell’università e della ricerca, o con quelli della formazione permanente degli adulti, dove per tali devono intendersi anche i giovani con bassa istruzione e però ormai usciti dal circuito scolastico. E che non si inquadra, perché non c’è ancora, in un progetto organico di riforma e di innovazione dell’intero sistema educativo, che veda il territorio come centro di attenzione e di intervento, in una logica complessiva che considera l’intero tempo-vita come spazio attivo di apprendimento.
Così da rendere la scuola centrale nella crescita culturale del territorio, e anche più efficaci le misurazioni di efficacia dei cambiamenti prodotti, conoscendo e valutando impatti e condizionamenti del contesto territoriale.
Misurazioni che sono fondamentali per qualsiasi riforma e qualsiasi innovazione. Ed è ancora l’Ocse a evidenziarlo nel suo recente rapporto Education Policy Outlook 2015: Making Reforms Happen , dove rileva che su circa 450 riforme sull’area educativa messe in opera nei Paesi Ocse dal 2008 al 2014, solo 10 sono state valutate dai governi rispetto al loro impatto. Una mancanza dovuta a più fattori, come l’incompetenza, la difficoltà di definire un sistema di monitoraggio e valutazione efficace e anche la convenienza politica, ma che producono come unico risultato l’impossibilità di migliorare, correggere gli errori, costruire sulle esperienze, comprendere l’efficacia di uno schema di intervento. Secondo il rapporto Ocse i processi da considerare per l’implementazione efficace di una riforma nel campo educativo includono il miglioramento del capacity-building e la sostenibilità di lungo termine, la comprensione e il coinvolgimento degli stakeholder, il trovare un bilanciamento tra politiche (policy) e agenda politica, considerare l’ulteriore valutazione d’impatto che discende dal progetto delle policy, tenere in mente il contesto dei sistemi educativi. Considerando, però, che uno degli ingredienti più importanti è la presenza di docenti competenti e motivati, perché “i sistemi educativi dipendono dalla presenza di docenti di alta qualità e dal loro ruolo nell’attuare efficacemente le politiche educative”.
Ma è sulla corretta pianificazione implementativa e sulla valutazione d’impatto che si misura l’efficacia di una riforma. Sempre Schleicher: “Mentre è incoraggiante vedere un focus maggiore sui risultati, piuttosto che sul semplice incremento di spesa, è cruciale che alle riforme sia dato il tempo adeguato e che il loro impatto sia analizzato”. E nel campo educativo l’impatto non si misura con la quantità di dotazione tecnologica, o la disponibilità di banda, che sono condizioni necessarie ma non il fine dell’innovazione. Si misura valutando l’adeguatezza delle competenze sviluppate rispetto alla capacità di esercitare compiutamente i propri diritti e alle richieste del mercato del lavoro. Sapendo che sono obiettivi chiave per il futuro del Paese, per la crescita sociale ed economica. Perché se nella popolazione aumenta il divario culturale e digitale, la conseguenza è una società divisa, e già per questo, ancorché tecnologicamente infrastrutturata, povera e con limitate prospettive.