Negli ultimi due anni, lo smart working è stato associato, se non confuso, al “telelavoro” o anche al “lavoro a domicilio”: queste tipologie di lavoro in realtà sono differenti, sul piano operativo, normativo, contrattuale.
E sono differenze importanti, da studiare per trarre il meglio dallo smart working, evitando derive pericolose per il singolo e la società.
Che ne sarà dello smart working? Ecco perché siamo solo all’inizio della “rivoluzione”
Smart working è lavoro agile: la legge 81/2017
Lo smart working, anche se sarebbe più opportuno parlare di lavoro agile, è stato introdotto in via sperimentale nelle Pubbliche Amministrazioni sette anni fa, ma ufficialmente con la l. n. 81 del 22 maggio 2017.
Qui è stato definito come una: “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
L’elemento che caratterizza il lavoro agile, a differenza del telelavoro, è l’accordo che viene stipulato tra il datore di lavoro e lavoratore.
Un accordo in cui vengono indicati:
- le parti della prestazione lavorativa da svolgere fuori dall’azienda;
- i luoghi in cui svolgerle;
- il tempo lavorativo, tenuto conto del riposo e della disconnessione;
- i cicli e gli obbiettivi dell’attività lavorativa;
- i criteri da rispettare per l’impiego degli strumenti tecnologici.
Durante il periodo emergenziale, l’accordo è venuto meno. In particolar modo, il datore di lavoro aveva ampia facoltà di decidere arbitrariamente quali lavoratori dovessero adottare questa modalità lavorativa e per quanto tempo.
Difatti, nel 2020, secondo quanto riportato dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, nel suo “report smart working”, sono stati registrati 8.000.000 lavoratori in “smart”, rispetto ai 570.000 dell’anno precedente. È evidente l’accelerazione impressa dalle disposizioni governative per far fronte alla pandemia Covid 19.
L’utilizzo del lavoro agile ha permesso la continuazione delle attività lavorative sia in ambito pubblico che privato. Pertanto, questa facoltà perdurerà ancora per qualche mese (D.L. n.24 del 24 marzo 2022).
Il telelavoro non è smart working: definizioni e tipologie
Il “telelavoro” non costituisce affatto una novità per il conseguimento della propria prestazione lavorativa.
Nonostante il suo boom sia avvenuto nell’emergenza pandemica, il telelavoro è stato introdotto nell’ordinamento italiano verso la fine degli anni Novanta con la legge n. 191 del 16 giugno del 1998 (la c.d. Bassanini ter.), che ha introdotto per la prima volta il lavoro a distanza nella Pubblica Amministrazione.
In questa Legge, però, non si evince una definizione chiara del termine “telelavoro”.
Una definizione presente nel successivo D.P.R. n. 70 del 1999[1]:
il telelavoro è “la prestazione di lavoro eseguita dal dipendente in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato al di fuori della sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile, con il prevalente supporto di tecnologie dell’informazione e della comunicazione che consentono il collegamento con l’amministrazione cui la prestazione stessa inerisce”.
Il “telelavoro”, quindi:
- È una tipologia di lavoro subordinato (e non autonoma);
- Si svolge in qualsiasi luogo, purché non all’interno della sede lavorativa, mediante l’ausilio di un computer o di altri strumenti tecnologici idonei.
In ambito privato, una prima definizione del telelavoro si è avuta con l’art. 2 dell’Accordo Quadro Europeo (AQE), del 16 luglio 2002, recepito dall’Accordo Interconfederale del 2004.
L’articolo recita che il telelavoro è “una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro, in cui l’attività lavorativa che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”.
Anche in questo caso, non viene fatto alcun riferimento al domicilio del lavoratore, ma piuttosto possiamo ricavarne delle sottocategorie.
Nella realtà, infatti, solitamente si distingue tra:
- telelavoro domiciliare, in cui il lavoratore e/o il dipendente consegue l’attività lavorativa nella propria abitazione interfacciandosi, anche in modo continuo, con l’azienda attraverso il pc e gli altri strumenti tecnologici;
- telelavoro da centro satellite, in cui il lavoratore e/o il dipendente svolge la propria prestazione lavorativa in un luogo scelto unicamente ed appositamente dall’azienda, connettendosi telematicamente alla sua sede principale.
Lo smart working deve garantire il diritto alla disconnessione
Il telelavoro deve essere svolto in un luogo concordato tra datore di lavoro e lavoratore, mentre il lavoro agile può essere eseguito in qualsiasi postazione.
Nel primo caso, l’orario di lavoro viene imposto dall’azienda mentre nel secondo viene deciso dallo stesso lavoratore ed è flessibile, come la scelta della propria postazione lavorativa.
In entrambi i casi, nonostante la paventata “libertà” di poter organizzare la propria attività lavorativa, una larga parte dei dipendenti ha lamentato alcune criticità operative, tra cui:
- l’isolamento forzato,
- il rispetto dell’orario di lavoro (soprattutto nel telelavoro)
- la perdita della socialità,
- il c.d. tecnostress;
- l’insufficienza del diritto alla disconnessione (la mancanza di un piccolo break o dell’impossibilità di distogliere gli occhi dallo schermo del computer per le numerose videochiamate).
In molti casi, infatti, esercitare il diritto alla disconnessione a fine giornata era pressoché impossibile.
Tale diritto, già menzionato nella l. n. 81 del 2017, garantisce la libertà di disattivare qualsiasi dispositivo tecnologico utilizzato per svolgere la propria mansione affinché la vita professionale non si mescoli con quella privata e viceversa.
È vero che il telelavoro, il lavoro agile e anche il lavoro a domicilio costituiscono tipologie di lavoro subordinato e che quasi tutti si svolgono in modalità digitale (e, quindi, con l’ausilio di computer e altri strumenti), ma esse non possono essere sovrapposte.
Smart working: cosa prevede il protocollo nazionale sul lavoro agile
Per risolvere queste problematicità, il Governo e le Parti Sociali il 7 dicembre 2021 hanno sottoscritto il “Protocollo Nazionale sul Lavoro in modalità agile”, con l’obiettivo di regolare in modo efficace lo smart working nel settore privato.
Tra le varie disposizioni di legge, che integreranno le preesistenti, una riguarda proprio la modalità di accesso allo smart working.
Non sarà più possibile accedere tout court allo stesso, ma soltanto mediante la stipulazione di un accordo scritto tra datore di lavoro e lavoratore, così come già previsto espressamente dagli artt. 19 e 21 della l. 81 del 2017.
Affinché il lavoro agile sia concretamente agile, e purché vengano raggiunti gli obbiettivi richiesti e/o prefissati, è necessario poterlo svolgere in ogni dove, quando si vuole e rispettando il diritto alla disconnessione.
Il Protocollo dedica attenzione alla tutela dei dati: per la prima volta, non soltanto vengono delineati gli obblighi e gli oneri che il lavoratore deve rispettare in materia di protezione dei dati, ma soprattutto vengono previsti una serie di adempimenti che dovranno essere realizzati dallo stesso datore di lavoro.
Ad esempio, l’adozione di tutte le misure tecnico – organizzative idonee a salvaguardare sia i dati riguardanti i propri lavoratori che i dati trattati da quest’ultimi.
Questi interventi, sicuramente importanti, non sono però in grado di fronteggiare tutti i rischi e le sfide poste da questa “nuova” modalità lavorativa.
Occorre una regolamentazione ad hoc: forse un primo passo è stato fatto attraverso il Protocollo d’Intesa stipulato tra il Garante della protezione dei dati personali e l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale.
Un protocollo che ha sottolineato una maggior collaborazione tra le due Autorità su tutti i possibili casi di data breach, attraverso un monitoraggio continuo di tutti i potenziali attacchi cyber, sia in ambito pubblico che in ambito privato.
Infatti, negli ultimi anni si è dovuto far fronte anche all’aumento esponenziale degli attacchi cyber alle infrastrutture informatiche: spesso, una sottrazione di dati aziendali e dei dipendenti con la relativa richiesta di riscatto.
Smart working: gli impatti sulla socialità
Tra le criticità dello smart working, c’è la mancanza di socialità all’interno del luogo lavorativo.
Il lavoratore in smart working durante la pandemia non ha avuto un contatto diretto con i propri colleghi o direttamente con il proprio datore di lavoro: è mancata soprattutto la possibilità di confronto.
E dall’assenza di confronto possono derivare: maggiori distrazioni, una perdita d’interesse in quel che si fa, o addirittura, un peggioramento della produttività lavorativa a causa di una percezione della propria irrilevanza o del ritenere che non ne valga poi così tanto la pena.
Tra le conseguenze ostili dello smart working, anche una maggiore irritabilità, fortemente associata all’isolamento sociale e all’impossibilità di condividere difficoltà sul lavoro e di trovare possibili soluzioni.
Indubbiamente, l’uso della rete si è rivelato strategico per la salvaguardia della salute, rispetto al rischio Covid 19, ma anche per garantire lo svolgimento della propria attività lavorativa.
Al contempo, però, ha comportato casi di depressione, di isolamento, di stress (o meglio, il c.d. tecnostress) e di alterazioni del sonno.
Inizialmente, lo smart working è stato imposto per cercare di sconfiggere il Covid-19 (partita ancora aperta) e sembrava, forse non per tutti, una buona strategia e un buon modo per rimanere impegnati durante le infinite giornate passate in casa, senza la possibilità di poter uscire se non per soddisfare bisogni di primaria necessità.
Tutto vero, ma ormai, in questa società digitalizzata, spesso si ha la percezione di una sorveglianza continua, nel lavoro e nel privato.
Non abbiamo più il tempo e lo spazio per la socializzazione, così come per cogliere ed assaporare tutte le opportunità quotidiane che la vita ci offre.
Lo smart working, a differenza del tradizionale lavoro, permette di fare più economia nell’ottica del risparmio: meno costi per il trasporto da parte dei lavoratori, nonché delle utenze da parte delle aziende.
Ma a cosa serve risparmiare se corriamo il pericolo, più che imminente, di diventare delle persone anti – sociali?
Conclusioni
Il lavoro come momento di aggregazione ha avuto storicamente una indiscutibile funzione di progresso e maturazione, soprattutto per le classi economicamente più deboli, ed è stato altresì fondamentale per la realizzazione dei diritti delle donne.
Attraverso la consapevolezza del proprio valore fuori dalle mura domestiche e l’acquisizione di una certa indipendenza economica, le donne hanno preso coscienza di meritare e poter occupare nella società un posto pari e non subordinato rispetto a quello degli uomini.
Oggi invece c’è il rischio concreto che la donna, di fronte alla possibilità di trascorrere più tempo a casa, perda un po’ il gusto di curare la propria immagine e coltivare i rapporti sociali, finendo per rifluire sempre più nei lavori domestici o, con espressione ottocentesca, donneschi. Il che rappresenterebbe, paradossalmente, un passo indietro nel cammino verso l’autentica parità uomo-donna, ancora oggi non è del tutto realizzata.
In conclusione, il lavoro agile senz’altro ha modificato radicalmente il tradizionale rapporto di lavoro, ma affinché possa realizzarsi un vero mutamento nell’epoca del “never normal”, ossia della discontinuità, occorrerà adoperarsi non soltanto da un punto di vista tecnologico, ma anche organizzativo, per un modello che veda al centro la “persona” in quanto tale.
Solo così sarà possibile le “great resignation”: le dimissioni come fenomeno di massa, sempre più frequente.
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Note
- Regolamento recante disciplina del telelavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, a norma dell’articolo 4, comma 3, della l. n. 191/1998 ↑