Tra i segnali positivi delle ultime settimane credo siano da includere le iniziative avviate sul tema del lavoro, sia quella denominata “Job Act”, da parte del PD, sia la proposta di legge sullo “Smart Working” (per il lavoro subordinato) che, predisposta dalle deputate Mosca, Saltamartini e Tinagli, dovrebbe essere consolidata nella sua versione definitiva nelle prossime settimane per essere depositata alla Camera. L’esigenza di una revisione della regolamentazione in tema di lavoro diventa infatti sempre più stringente, soprattutto perché la precarizzazione e la disoccupazione stanno colpendo le fasce sociali in cui maggiormente risiedono le opportunità per un rilancio creativo dello sviluppo economico: i giovani, le donne, i lavoratori della conoscenza.
Ed è evidente come sia molto improbabile pensare di affrontare in modo strategico i temi del digitale senza considerare i cambiamenti necessari sul modello di lavoro, a partire ad esempio dalla regolamentazione del lavoro in mobilità, che è prassi comune sempre più per i lavoratori del XXI secolo e modalità normale per i lavoratori della conoscenza.
In Italia è presente una regolamentazione per il telelavoro, visto come una modalità eccezionale per esigenze personali specifiche, e non a caso la sua applicazione è molto limitata. Sul telelavoro l’Italia è in forte ritardo, anche se nell’ultimo anno, secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, si è registrato un aumento dell’8% di telelavoratori (almeno occasionali) passando dal 17% del 2012 al 25% del 2013.
In molti casi, in particolare nelle PMI, nonostante la flessibilità nell’orario di lavoro sia presente nel 25% delle imprese (75% nelle grandi), viene effettivamente offerta a tutti i dipendenti solo nel 10% dei casi mentre il telelavoro è presente nel 20% delle imprese (40% nelle grandi) ma è concesso a tutti i dipendenti in meno del 2% dei casi (8% nelle grandi).
L’affermazione di un nuovo modello di lavoro credo sia da considerare uno dei punti fermi per l’attuazione di una strategia vincente sul digitale, e questa dovrebbe avvenire:
· in un quadro organico di cambiamento del funzionamento delle organizzazioni (dal punto di vista soprattutto dei processi e dei modelli di governance e della capacità di gestire per obiettivi e per processi);
· sostenendo il principio della prevalenza del risultato e del valore delle relazioni sulla regolamentazione oraria;
· sul riconoscimento di modalità ed esigenze nuove connesse alla società della conoscenza, ai knowledge worker e in generale ai lavori ad elevato contenuto di conoscenza.
Esemplificazione di tutto ciò è la necessità di affermare il principio del “lavoro in mobilità by default”, espressione forse migliore del “telelavoro by default”, che è stata sancito dal “decreto Crescita 2.0” (n.221 del 17 dicembre 2012) per le amministrazioni pubbliche (ma non attuato): le amministrazioni pubbliche oggi sono, infatti, tenute a realizzare un piano per la realizzazione del telelavoro in cui devono specificare “le modalità di realizzazione e le eventuali attività per cui non è possibile l’utilizzo del telelavoro”. Si assume, pertanto, che tutte le attività possano essere svolte in modalità di telelavoro a meno di giustificate ragioni di “impossibilità”.
Per forzare il cambiamento, e per rendere più semplice la regolamentazione del lavoro in mobilità, diventa così più che opportuno pensare ad una norma che parta dal diritto dei lavoratori più e oltre che da un obbligo per il datore di lavoro (come nella logica del decreto Crescita 2.0).
La bozza di proposta di legge sullo Smart Working “subordinato”, da valutare positivamente per l’intento e gli elementi di novità introdotti, invece, mi sembra non affronti il tema generale del telelavoro e non afferma il lavoro in mobilità come un default (che può avere eccezioni solo per ragioni organizzative e di caratteristiche specifiche del lavoro). Da questo punto di vista, non sembra uscire dall’attuale modello di lavoro, ma si propone di introdurre solo alcune variazioni. Ad esempio, lega la legittimità di questa modalità al fatto che le ore di lavoro siano per la maggior parte svolte nella sede dell’organizzazione, e quindi basandosi sull’assunto che anche il lavoro svolto in mobilità possa essere misurato-conteggiato in modo effettivo (si parla di “durata oraria”) e non solo equivalente (poiché basata su obiettivi e risultati). Mantenendosi tra l’altro su una negoziazione individuale lavoratore-datore che è una delle cause del fallimento del telelavoro.
Credo, invece, che se si vogliono raggiungere risultati realmente significativi, una legge in materia di lavoro in mobilità debba
· trattare il tema del telelavoro e del lavoro in mobilità in modo organico;
· ribadire il tema organizzativo, e far riferimento a quanto previsto dal decreto Crescita 2.0 ed estenderlo anche ai privati (obbligo di un piano organizzativo per il telelavoro);
· partire dal presupposto che si tratta di una riconfigurazione del lavoro e dei diritti connessi. Sancire, in altri termini, che il lavoro in mobilità è un default (la “normalità”) e che è a carico delle organizzazioni specificarne eventuali limitazioni e inapplicabilità;
· prevedere, quando richiesto dal lavoratore, l’approccio BYOD (Bring Your Own Device) nell’uso dei dispositivi per il lavoro in mobilità, lasciando naturalmente in carico all’organizzazione l’installazione e la manutenzione del sw necessario per lo svolgimento delle attività lavorative (con tutti i problemi di sicurezza connessi);
· prevedere un periodo di osservazione sui risultati dell’applicazione della legge, anche con un supporto culturale e organizzativo alle aziende e alle amministrazioni, per superare quello che è riconosciuto come il principale fattore di ostacolo al riconoscimento del lavoro in mobilità: l’incapacità dei manager di realizzare una gestione per obiettivi.
Ma poiché la normativa sul lavoro (subordinato) in mobilità è importante solo in quanto favorisce il lavoro ad alta intensità di conoscenza, ed è questo il vero nodo cruciale e urgente per lo sviluppo socio-economico italiano, penso sia opportuno ricordare gli altri elementi di contesto necessari:
- Ambienti e luoghi che favoriscano lo smart working, da realizzare sia all’interno delle organizzazioni sia negli spazi urbani, coniugandoli con il coworking, con progetti di rigenerazione e riuso collettivo di aree urbane dismesse, da adibire, in modo multifunzionale, ad attività e lavori in cui è importante l’infrastruttura digitale;
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Politiche che favoriscano il coworking e il knowledge working come
- Riuso delle esperienze, come modello di lavoro collaborativo;
- Piattaforme di collaborazione, intese come luoghi di produzione della conoscenza da parte di comunità di lavoratori;
- Piattaforme di innovazione aperta.
- Organizzazioni basate sulla conoscenza, in grado di trarre i massimi benefici dalle modalità di smart working e in cui si favoriscono le nuove modalità di lavoro ad alta intensità di conoscenza.
- Altre normative che tutelino il lavoro della conoscenza, agendo anche sull’ambito del lavoro indipendente e sulla migrazione tra organizzazioni (con meccanismi come la flexsecurity o il reddito minimo).
Usciamo dalla logica delle piccole modifiche e proviamo ad agire con una prospettiva di medio termine e un intervento organico.