L’emergenza sanitaria ha costituito un radicale punto di svolta per lo smart working nella PA, che è stato adottato come modalità preferibile o addirittura obbligatoria in quanto si è rivelato idoneo per conciliare le restrizioni per contenere l’epidemia con la necessità di assicurare la continuità del business.
Così, come riportano i dati dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, il 94% delle PA con più di dieci addetti ha esteso la possibilità di lavorare da remoto ai propri dipendenti. Il contesto ha sicuramente portato a maggiore consapevolezza sul lavoro da remoto, i prossimi mesi saranno decisivi per sperimentare una nuova operatività. Non mancano comunque le sfide, come il dover colmare le lacune in materia di competenze digitali dei lavoratori e manageriali dei dirigenti.
Sfide e prospettive per il “New normal”
Dunque i prossimi mesi devono essere sfruttati per sperimentare le nuove modalità di organizzazione del lavoro che ci porteranno verso il “new normal”. La metà delle PA si preparerà introducendo progetti di Smart Working, digitalizzando processi e attività e aumentando la dotazione tecnologica dei propri dipendenti (35%). Queste iniziative, dettate da una maggior consapevolezza in merito al lavoro da remoto, dipendono anche dal forte indirizzo dato dalla Ministra Dadone attraverso l’iniziativa del Piano Organizzativo del Lavoro Agile (POLA)[1], che prevede che le PA debbano individuare le modalità attuative del lavoro agile e dare la possibilità ad almeno il 60% dei dipendenti con attività compatibili con il lavoro da remoto per una parte del loro tempo. Qualora non si adotti il POLA, il lavoro agile deve essere comunque garantito ad almeno il 30% dei lavoratori. Al termine dell’emergenza si stima un consolidamento e una leggera crescita del numero di smart worker rispetto ai numeri di settembre e i lavoratori da remoto nel settore pubblico saranno pari a 1,48 milioni.
L’emergenza Covid-19 ha quindi costituito un radicale punto di svolta, forzando un’adozione dello smart working che, proprio perché estrema, costituisce un’esperienza preziosissima da cui partire per progettare il futuro del lavoro oltre l’emergenza. La PA ha avuto l’occasione di poter provare a sperimentare il lavoro da remoto in modo esteso e come sottolineato dalla Ministra Dadone durante il convegno “Smart Working: il futuro del lavoro oltre l’emergenza” l’emergenza ha fatto sì che si sia superato il timore e la paura di un modo diverso di organizzare il lavoro.
Ora i gap da colmare sono quelli delle competenze digitali delle persone, delle competenze manageriali della dirigenza, della digitalizzazione e del ripensamento del sistema di valutazione delle performance. L’introduzione del POLA va in questa direzione: porre le basi per la definizione di un modo diverso di lavorare non di mera esecuzione, ma di orientamento al risultato che rappresenti il futuro della PA non solo per l’emergenza la per l’ordinarietà del lavoro a regime. Sarà importante che questa occasione non venga dissipata: la realizzazione del POLA non deve essere fatta in una logica di puro adempimento, ma essere colta e gestita come opportunità per progettare e avviare una trasformazione organizzativa, tecnologica e culturale. La norma da sola resterebbe un esercizio sterile, l’auspicio è che le tante persone che nella Pubblica Amministrazione hanno dimostrato in questi mesi impegno, creatività e senso di responsabilità, ne facciano un proprio strumento per costruire la PA che loro e tutti i cittadini italiani vogliono e meritano.
Il cambiamento nella PA
I dati dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano sono indicativi per fotografare la situazione. Nel 2019 lo smart working nella Pubblica Amministrazione riguardava solo il 16% degli enti, mediamente era coinvolto il 12% della popolazione e il lavoro da remoto ed era svolto meno di un giorno alla settimana. L’incremento registrato quest’anno è stato possibile anche alla luce della direzione data sin da subito dalla Ministra Dadone che nella circolare del 25 febbraio incentivava le amministrazioni a potenziare il ricordo al Lavoro Agile e in quella dell’11 marzo lo presentava come modalità ordinaria di esecuzione della prestazione lavorativa. Un’ulteriore spinta all’adozione sono stati i provvedimenti per snellire le procedure di acquisto di dotazioni informatiche, come pc e tablet, necessarie per consentire il lavoro da remoto. Un impulso altrettanto significativo è stata la progressiva introduzione della didattica a distanza che ha visto coinvolti circa 900 mila insegnanti di ogni ordine e grado, i quali hanno dovuto rivedere il proprio modo di lavorare.
Il numero di dipendenti pubblici che hanno svolto attività da remoto per una parte significativa del proprio tempo durante la fase 1 dell’emergenza si stima essere circa 1,85 milioni, in media, il 58% del totale. Gli enti che avevano già iniziative pregresse di Smart Working si sono dimostrati più pronti e resilienti e sono riusciti a far lavorare efficacemente da remoto un numero più alto di persone: il 70% dei dipendenti rispetto al 55% degli altri enti.
La gestione della Fase 2 e le criticità legate al rientro
Durante la Fase 2 la maggior parte delle PA (81%) ha cominciato a riaprire le sedi tra maggio e giugno e le motivazioni che hanno portato a favorire il rientro in ufficio riguardano il miglioramento della produttività, della collaborazione, della comunicazione inter-funzionale e rispondere alle esigenze di controllo dei lavoratori espresse dai responsabili. Per predisporre il rientro in sicurezza delle persone in sede, le principali iniziative realizzate sono l’introduzione di regole e linee guida sull’utilizzo degli ambienti, la definizione di un piano di rientro delle persone, come ad esempio l’introduzione di turni, per ridurre il numero di contatti, e di segnaletica per orientare i flussi e incentivare comportamenti sicuri.
Nel mese di settembre si stima che abbiano lavorato da remoto circa 1,32 milioni di dipendenti pubblici con una frequenza media di 1,2 giorni a settimana. In molti casi purtroppo il rientro non è stato gestito in modo maturo, ma in un’ottica di puro adempimento normativo. Molti lavoratori della PA si sono trovati forzati a rientrare in ufficio in condizioni in cui la prestazione lavorativa non veniva affatto facilitata, ma al contrario resa più difficile e disagevole da obblighi di distanziamento, carenza di trasporti pubblici, frammentazione dei team di lavoro. A una giusta domanda di riequilibrio si è quindi data, in molti casi, una risposta acritica e inadeguata che ha creato non poca demotivazione e sconforto tra lavoratori che nei mesi precedenti avevano dimostrato impegno e senso di responsabilità.
Dal mese di ottobre, il perdurare ed anzi l’acuirsi della pandemia nella sua seconda drammatica ondata, ha rallentato il rientro, suggerendo di non abbandonare ma al contrario di affinare e rendere più efficaci, le modalità di lavoro da remoto avviate nella fase emergenziale, bilanciandole dove possibile con una presenza in ufficio selettiva e finalizzata.
L’impatto dello smart working sui lavoratori e sulle PA nel lockdown
Lo smart working emergenziale ha sicuramente supportato la continuità di business. Da un sondaggio realizzato nei mesi del lockdown su oltre 8000 lavoratori pubblici e privati in smart working forzato, il 58% dei lavoratori della PA dichiarava di riuscire a portare avanti tutte le attività, il 38% di riuscire a farlo in parte e solo il 4% di non riuscire a realizzare la maggior parte delle attività. I limiti nella PA non riguardavano tanto le caratteristiche intrinseche dei compiti, quanto lo scarso livello di dematerializzazione e digitalizzazione dei processi e problemi legati alle tecnologie, spesso inadeguate o in numero insufficiente per garantire lo svolgimento delle attività da remoto, a cui si uniscono le limitate competenze digitali delle persone.
Gli enti hanno dovuto adeguare la dotazione delle proprie persone in termini di strumenti e device, e di software per la collaborazione e la comunicazione da remoto, ma la scelta più diffusa, dovuta ai vincoli di spesa e all’arretratezza tecnologica, è stata il ricorso al BYOD adottato da 3 PA su 4. Circa la metà delle PA che ha introdotto tale approccio non ha effettuato integrazione della dotazione hardware dei dipendenti, quindi chi non aveva strumenti aziendali per lavorare da remoto ha dovuto organizzarsi con proprie risorse. Altrettanto significativo è il fatto che solo il 38% delle PA che ha adottato la logica del BYOD ha sviluppato iniziative per l’accesso sicuro a dati e applicazioni. Questo ha aperto il fianco ad attacchi informatici rivolti a strumenti personali che sono stati frequenti nel periodo di lockdown.
Nonostante le difficolta sono stati percepiti anche dei benefici tra cui l’opportunità di sperimentare strumenti digitali differenti da quelli usuali (56%), il miglioramento delle competenze digitali dei dipendenti (53%) e dal ripensamento dei processi aziendali (42%). In definitiva si può affermare che, pur al netto delle criticità dovute ad un’applicazione estrema e improvvisata, lo smart working durante i mesi dell’emergenza ha costituito un’esperienza preziosa che ha permesso di fare in poco tempo un percorso di apprendimento e crescita di consapevolezza che in condizioni normali avrebbe richiesto anni. Le persone hanno imparato ad usare strumenti digitali innovativi e a relazionarsi efficacemente in team virtuali con un impatto positivo sulle performance.
L’applicazione dello smart working nella PA durante la prima fase l’emergenza ha quindi non solo il merito di aver preservato la salute di tanti cittadini garantendo al tempo stesso la continuità di servizi essenziali, ma anche di aver posto le basi per una accelerazione della modernizzazione tecnologica e organizzativa delle PA. Appaiono per tanto preconcetti, ingenerosi e infondati gli attacchi che, proprio su questo tema, sono stati fatti ai lavoratori del pubblico impiego accusati di aver goduto di privilegi laddove proprio il loro impegno ha permesso di far fronte alle carenze tecnologiche, organizzative e culturali dovute ad anni di tagli e sostanziale assenza di investimenti adeguati in tecnologia e capitale umano.
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Note
- “Piano organizzativo del lavoro agile” (DL 34/2020 art. 263), prevede che siano indicate le attività che possono essere svolte in lavoro agile, le misure organizzative compresi i requisiti tecnologici, i percorsi formativi del personale e gli strumenti di rilevazione e verifica dei risultati ↑