l'analisi

Smart working, troppi remano contro nella PA e nel privato

Nonostante sia uno degli strumenti da privilegiare nel covid, lo smart working continua ad avere nel nostro paese più detrattori che supporter. Le denunce di imprenditori e professionisti contro una PA (forse) più inefficiente in smart working saranno fondate, ma la prospettiva è sbagliata: ecco come cambiarla

Pubblicato il 06 Nov 2020

Alessandro Lavarra

IPway - Network and Cybersecurity Provider

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Che paradosso: nel DPCM del 25 ottobre, nonostante la recrudescenza dell’epidemia e la nuova richiesta di sacrifici ad alcune classi di attività, lo smart working è stato a malapena citato tra le raccomandazioni. Questo lascerà di fatto invariata la tendenza al suo non utilizzo o allo scarso utilizzo da parte di imprenditori e amministrazioni con conseguenze ben rilevabili nel sovraffollamento dei mezzi pubblici.

Del resto era abbastanza evidente l’ostilità di una certa imprenditoria e della politica nei confronti delle forme di lavoro alternative con troppa facilità ed enfasi chiamate “agili”.

E ci sarebbe anche qualche fondamento, se consideriamo il grido di dolore che arriva in questi giorni da tanti commercianti, professionisti e imprenditori (tramite Confcommercio, Confartigianato, Ance, ossia l’edilizia, ma anche da associazioni commercialisti): denunciano che le loro pratiche subiscono forti ritardi perché le PA, in smart working, sono molto poco efficienti.

Credo ci sia di fondo un errore prospettico. Considerare lo smart working pericoloso solo perché non abbiamo imparato a usarlo bene. Ma usarlo bene è possibile; anzi, doveroso, per contenere meglio la pandemia.

Chi rema contro lo smart working?

Se la guardiamo con occhi scevri dalle polemiche, il paradosso diventa ancora più feroce. Ma quale danno alla produttività dallo smart working!

Che cosa può esserci di meglio, infatti, per la produttività che non scendere al panificio del quartiere al mattino presto e, giusto il tempo per una colazione sana con il pane fresco, essere operativi al proprio PC nel comfort della propria abitazione, avendo risparmiato quei 45 minuti medi che ognuno di noi impiega per il tragitto casa-lavoro fonte di stress e di costi? L’Italia è tra i paesi con la più alta media europea di pendolarismo, con un notevole impatto del livello di stress sul lavoratore. Fonte Michael Page.

Eppure lo smart working, sostenuto da fior fiore di studi e da una mole enorme di dati sui benefici per le città, per l’ambiente, per la produttività per l’Employee Retention e chi più ne ha più ne metta, fino al ripopolamento di periferie e borghi abbandonati o come alternativa all’emigrazione, o, ancora, come opportunità per la rivitalizzazione dei quartieri, sembra conoscere più detrattori che supporter tra i dirigenti e gli imprenditori italiani.

Il giornalismo nazionale, non si capisce bene a quale scopo, ha condotto una campagna sistematica contro l’organizzazione alternativa del lavoro. Abbiamo letto di tutto, dalla preoccupazione per il mercato immobiliare dei centri direzionali delle grandi città alla salute economica dei baretti del tramezzino, fino agli effetti negativi sul lavoratore, per il quale rimanere a casa dovrebbe essere fonte di ansia, stress, solitudine, privazione della socialità. Come se la media degli italiani considerasse la pausa caffè alla macchinetta il momento topico delle proprie relazioni interpersonali. Sono arrivati anche a scrivere che i telelavoratori proverebbero nostalgia per il ticchettio dei tasti del vicino di scrivania nell’open space!

Come spesso accade in Italia il dibattito si è polarizzato su due posizioni e ha più il sapore del tifo che dell’approfondimento tecnico. Da una parte i sostenitori a prescindere, chi immagina che sia sufficiente accendere il proprio PC di casa e che qualsiasi processo possa essere così gestito come per magia e chi, al contrario, immagina il telavoratore che dal letto accende il proprio portatile sul comodino giusto per apparire online su Teams.

La realtà però non è così. In alcuni casi, certo, ha estremi ancor più radicali. Da una parte lavoratori che perdono il controllo della propria vita sfociando in un fenomeno che ha preso il nome di “workaholic” una sorta di dipendenza dal lavoro, un alcolismo da presenza online, e dall’altra lavoratori ufficialmente “messi in smart” che paradossalmente non possiedono nemmeno un PC o una connessione per poter lavorare da casa e di fatto vengono pagati per non far nulla. Più spesso però le cose sono sfumate ma, in ogni caso, mai semplici o banalizzabili.

Lo smart working nella pubblica amministrazione

Chiunque abbia lavorato con un ente o abbia solo dimestichezza con gli uffici pubblici potrà dare un proprio giudizio sul livello medio di digitalizzazione delle procedure o anche solo sul livello delle dotazioni informatiche, senza scendere nel dettaglio della cultura digitale media del personale.

Il Sindaco della mia città, con orgoglio mi ha confermato “siamo riusciti a far lavorare da casa il 75% del personale del Comune nel periodo del lock-down, mantenendo in presenza solo i servizi come la Polizia Municipale e i Servizi Sociali”, ma poi, a domanda precisa, ammette che si trattava di “resistenza” e non di una appropriata continuità di servizio. “Non siamo pronti – dice – forse nel privato sono più attrezzati”

Ho raccolto personalmente testimonianze ed esperienze dirette di come, nelle amministrazioni meno digitalmente preparate, ci siano stati due tipi di problemi:

  • Servizi del tutto non erogati o con tempi di attesa incompatibili con il normale svolgimento delle attività,
  • Servizi erogati “in deroga” alle normali procedure, documenti consegnati via mail, richieste verbali, mancanza di firme e procedure, mancanza di sicurezza nell’accesso ad atti e documenti, il tutto giustificato dallo stato di emergenza.

Uno studio Fipe-Confcommercio rileva che il 69% delle piccole e micro imprese ha ora grosse difficoltà di accesso agli sportelli degli enti pubblici, con danni alla produttività. Un’ impresa di costruzioni su tre (33,1%) denuncia la gravità del problema.

Spesso si è fatto affidamento più all’elasticità e alla buona volontà dei singoli che non a procedure effettivamente remotizzate o remotizzabili e questo può essere apprezzabile solo in tempi di emergenza ma non può, ovviamente, costituire un’esperienza di digitalizzazione dei processi della PA ripetibile nell’ordinario.

Certo generalizzare sulla Pubblica Amministrazione non rende giustizia alla complessità di un mondo che riguarda quasi 13.000 Enti e più di 3 milioni e mezzo di lavoratori ma sapendo che siamo gli ultimi per efficienza digitale in Europa non ci siamo per nulla sorpresi che la rivoluzione “smart”, imposta dall’oggi al domani, potesse deludere e dimostrarsi impraticabile.

Lavorando nell’innovazione non posso che essere favorevole a qualsiasi forma di flessibilità del lavoro, ma occupandomi di questioni pratiche e non di sola teoria, non ho illusioni in merito. Certo auspico, ma da ben prima del lockdown, che si intraprenda un percorso virtuoso nella digitalizzazione che possa abilitare anche a forme di lavoro più efficienti per gli equilibri del nostro ambiente e del bilanciamento vita lavoro, nella PA così come nell’azienda privata.

Lo smart working nelle imprese private

Si, perchè, il mondo dell’impresa, pur non avendo, nella stragrande maggioranza dei casi, le giustificazioni del complesso mondo della PA si è dimostrato, in troppi casi, miope verso una riorganizzazione più snella. Qui si mi sono stupito negativamente di quanto siamo ancora legati a modelli di comando e controllo che stridono con la riorganizzazione del lavoro tipica del vorticoso mondo in cui operiamo.

La cultura dell’innovazione ci ha insegnato, o dovrebbe averci insegnato, che le gerarchie sono superate. Il leader/capo che impartisce compiti e ne controlla l’esecuzione è un modello non più valido. Nel rapido divenire le competenze non possono più essere acquisite per anzianità o esperienza, ci sono nozioni, metodi, modelli così nuovi che l’ultimo arrivato in azienda potrebbe essere depositario di risposte che il più anziano dei manager non ha. Il leader di successo è un facilitatore, qualcuno che opera affinché le persone siano messe nella miglior condizione possibile per dare il meglio di sè e questo, chiaramente, vale anche per l’organizzazione del lavoro nei tempi e nei luoghi.

Per un “knowledge worker” il luogo o l’orario in cui viene svolto un compito è assolutamente indifferente e quindi, se lavorare da casa o da un hub o da un coworking, ci facilita nell’organizzazione della giornata e ci toglie stress, va fatto. Purtroppo nel paese in cui lo straordinario in ufficio è visto come un segnale di impegno e non come un allarme di inefficienza, stare seduti alla propria scrivania è ancora indice di produttività.

Ma oltre alle opinioni e al parere di commentatori spesso estranei alla materia. qual è il panorama nelle organizzazioni per lo smart working?

E’ possibile dividere gli operatori economici coinvolti dal fenomeno in categorie molto differenti tra di loro, ho provato  ad etichettarli come

  • Game changer
  • Follower
  • Out of the picture

I game changer

Sono le aziende e società dell’innovazione o i grandi gruppi capaci di interpretare i tempi e anticipare i fenomeni. Organizzazioni che fanno del cambiamento e della centralità della persona uno stile manageriale, come:

Multinazionali del mercato digital

Inutile dire che società come Twitter o IBM abbiano immediatamente attivato tutte le leve possibili per incentivare il full smartworking dei propri dipendenti.

Sicuramente dal punto di vista delle procedure e del grado di digitalizzazione queste organizzazioni erano già pronte. Ma hanno fatto di più, hanno considerato il fenomeno non un’emergenza fine a se stessa, ma una nuova condizione che ha cambiato la percezione del lavoro per sempre e così hanno deciso di cavalcare e assecondare il cambiamento.

In quanto innovatori, in  perfetta sintonia con la teoria del antifragilità di Nassim Taleb, per cui la sfida è quella di migliorarsi se sottoposti ad uno stress e non semplicemente resistere, hanno approfittato di questa rivoluzione e rimodulato il modo di concepire il lavoro, rivista la loro idea di sede, l’organizzazione dei processi, i piani di incentivi, i benefit. Tutto è stato messo in discussione per cogliere, da questo cambiamento, quanti più benefici possibili per il business ma soprattutto per le persone.

Big nazionali

Grandi gruppi che già facevano dello smart working un modello organizzativo, come Intesa San Paolo o Fastweb, hanno esteso la flessibilità ad un maggior numero di persone, per più giorni alla settimana fino, in molti casi, al full smart working.

Intesa, in pochi mesi, stando alle dichiarazioni della dirigenza, è passata da 14 mila dipendenti in Smart a 40 mila. Il colosso bancario, in virtù anche delle numerose acquisizioni, era già distribuito sul territorio e le sue persone abituate a lavorare in team remoti con procedure digitalizzate, la numerosità di sedi e filiali garantisce poi la facilità di accesso agli hub territoriali.

I dipendenti di Fastweb, invece, possono liberamente scegliere la sede di lavoro in base ad un accordo sindacale denominato “working Smarter” che prevede massima flessibilità per il 100% della popolazione aziendale.

I Follower

Aziende, che a prescindere dalle dimensioni e dal grado di organizzazione e dal settore industriale si sono comunque sforzate di gestire l’emergenza e garantire la continuità del servizio. 

Qui ci sono aziende nazionali ed internazionali che hanno cercato di far fronte alla nuova condizione lavorando da remoto. In questo caso non è sempre appropriato parlare di Smart, e ancor meno di Agile, in quanto le procedure e i metodi di valutazione e gestione del personale non sempre sono coerenti con queste modalità di lavoro, ma si è trattato soprattutto di telelavoro e spesso si sono registrate alcune carenze come:

  • assenza di un’adeguata base tecnologica che ha lasciato falle aperte in termini di sicurezza e accesso a dati e documenti,
  • Nessun benefit a supporto del telelavoro come PC portatili e connettività se non per poche figura direzionali,
  • Procedure e applicazioni non sempre compatibili con il lavoro full-remote
  • Poca dimestichezza nella conduzione di meeting on-line e nell’uso di strumenti di collaborazione da remoto.

In questa categoria una rappresentanza eterogenea di PMI innovative, società di servizi, medio e grandi aziende che nel nostro tessuto sono in gran parte aziende manifatturiere con logiche gestionali più tradizionali e legate alle attività in presenza, ma che hanno comunque, seppur con il ritardo di una delle nazioni meno digitalizzate d’Europa, cercato di spingere nella giusta direzione con diversi livelli di efficacia a seconda del loro grado di maturità digitale.

Tra questi si registrano casi di particolare lungimiranza e decisioni efficaci di redistribuzione degli orari di lavoro e dei carichi per liberare il più possibile le persone da obblighi inutili nella gestione della propria giornata.

Out of the picture

Nel privato

Tutto il tessuto imprenditoriale più tradizionale, per esempio quel Nord-Est produttivo, dove vivo e opero anch’io, tanto osannato negli anni 90, fatto di realtà padronali o artigianali cresciute a rango di azienda si è dimostrato quasi sempre fuori dai giochi nell’approccio innovativo al lavoro.

Spesso eccellenti nell’ideazione e produzione di prodotto e carenti dal punto di vista gestionale e manageriale, sono realtà dove l’innovazione è quasi esclusivamente declinata in fabbrica e la tecnologia spinge l’industria 4.0 e lo sviluppo di prodotti e materiali più che non il ripensamento di processi gestionali e di management delle persone.

O, ancora, le piccole realtà, operanti anche nei servizi, impostate su una visione padronale e sulla centralità del proprietario/capo nell’esecuzione di tutti i processi core. Per questi, il rapido mutamento delle condizioni sociali e nell’approccio al lavoro dei nuovi talenti, ridurrà la possibilità di accedere a professionalità e risorse maggiormente attratte da ambienti più evoluti, condannandoli alla mediocrità.

La Pubblica Amministrazione

Fatta salva qualche eccellenza o qualche amministrazione particolarmente innovativa per vocazione o per natura, la stragrande maggioranza degli Enti Italiani non ha le basi organizzative minime per poter accedere a forme di flessibilità del lavoro.

Dalla dotazione informatica di base, alla cultura gestionale di dirigenti e organi di controllo politici, alla media di alfabetizzazione digitale del personale, alla cultura stessa del lavoro che permea la macchina pubblica tra mentalità sindacale, scarsa cura del coinvolgimento e engagement del personale, modalità di misurazione e incentivazione del lavoro… tutto nella PA rema contro ai modelli di lavoro Smart e tutto rende difficilmente gestibile anche solo il lavoro da remoto.

Leggo con favore il decreto del Ministro Dadone perché il segnale e la direzione sono chiari, ma pensando alla varietà e numerosità degli Enti coinvolti mi chiedo chi di questi abbia le capacità economiche e organizzative per adempiere e come sia pensabile parlare del 50% del personale.

Leggendo con attenzione anche solo il primo punto della nota di presentazione, mi rendo conto che, la stampa e gli annunci, hanno dato un taglio un po’ ottimistico all’iniziativa del Ministro.

Si tratta,  infatti,  del “50% del personale coinvolto in attività remotizzabili”, in sostanza se un ente non ha procedure remotizzabili può chiedere alla totalità del proprio personale di lavorare in presenza. Il lavoratore agile – precisa il decreto –  dovrà alternare giornate in presenza e giornate in remoto escludendo quindi il full remote working. Il decreto rimane uno strumento di indirizzo per l’organizzazione del lavoro in una fase di emergenza sanitaria più che una svolta per l’organizzazione innovativa della nostra macchina amministrativa.

Il decreto risulta anche fuorviante per tutti i riferimenti al lavoro Agile quando di Agile non si tratta, dimostrando che i modelli innovativi di organizzazione dei processi della nostra amministrazione sono del tutto sconosciuti al legislatore.

Dal fanalino di coda Europeo per digitalizzazione, del resto, non ci si poteva certo aspettare un balzo in avanti da un giorno all’altro.  

Il mio timore è che continuare a considerare questo lavoro remoto in emergenza come una prova generale di lavoro Agile porti ad una valutazione negativa di questo modello e che, quando sarà il tempo di farlo sul serio,  politici, dirigenti e operatori economici non ne vorranno più sentir parlare dopo le difficoltà e il deficit di servizio sperimentati ora.

Conclusioni

In mezzo a tante argomentazioni in alcuni casi anche di segno diametralmente opposto come farsi un’opinione? Innanzi tutto abbandonando l’atteggiamento da tifo e le prese di posizione. Il fenomeno è in corso e va interpretato correttamente.

Poi nel valutare rischi e benefici è necessario fare i dovuti distinguo tra telelavoro, smart working, lavoro Agile e capire quando si tratta di spostare semplicemente la scrivania a cui ci si siede o quando è l’intera organizzazione dei processi e dei rapporti tra persone che viene messa in discussione.

Ho ascoltato lamentele e letto articoli di illustri testate sui disagi creati dal lavoro Agile, quando in realtà si trattava di disservizi dovuti alla remotizzazione del lavoro eseguita in condizioni di emergenza e utilizzati, per ignoranza o malafede, a dimostrazione dell’inefficienza delle modalità alternative di lavoro in remoto.

Dobbiamo lavorare davvero sodo verso quella trasformazione che ridisegna il ruolo di leader, cancella le gerarchie in favore del network, si apre e allarga i propri confini attingendo a professionalità di qualsivoglia provenienza, mette al centro il benessere delle persone. In queste trasformazioni di ci sono i margini di miglioramento e i benefici del pensiero innovativo, il lavoro Smart sarà una conseguenza di questo e non un benefit come un altro raggiunto per decreto a causa di un rischio sanitario.

Mi auguro che anche informazione e giornalismo generalisti aumentino la propria consapevolezza sulla cultura e mentalità dell’innovazione, sulla digitalizzazione, sull’etica del lavoro.

La strada è lunga ma dobbiamo cominciare fin da subito a censire quali parti della nostra organizzazione e chi tra il nostro personale può da subito intraprenderla. Dobbiamo attrezzarci per garantire accessibilità e sicurezza informatica, rivedere i benefit per i dipendenti che devono rimodulare la propria organizzazione del lavoro, ricalcolare il nuovo assetto dei costi aziendali e abituarci a pensare senza confini.

Il gap culturale e tecnologico è enorme, a partire dalla politica che nonostante gli sforzi in larga parte stenta a capire le dinamiche innovative abilitate dalla digitalizzazione per arrivare alle persone che troppo spesso non hanno un’etica del lavoro compatibile con questi nuovi approcci.

Io, dal canto mio, spero che le imprese anche solo per meri interessi di profitto capiscano il valore dei nuovi approcci al lavoro per aumentare rendimento e fedeltà dei propri dipendenti

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