Dopo tanti dibatti e tanti tentativi andati a vuoto alla fine il Covid-19 ha fatto quello che negli ultimi quindici anni Governi, piani e agende digitali (nazionali e non) non erano riusciti fare: portare la PA a innovare e a trasformare in chiave digitale i vecchi modelli in essere di produzione e messa a disposizione del pubblico dei propri servizi.
Una novità che diventerà sistema, come emerge fin dalle primissime azioni del nuovo ministro alla PA Renato Brunetta (vedi sotto).
Assunzioni per una PA più digitale, tutta la (vera) formazione che serve
E’ la conseguenza di quanto successo. Da un anno, cioè dal primo lockdown, tutte le amministrazioni pubbliche lavorano principalmente in modalità smart, con i dipendenti che producono da casa i servizi a favore della cittadinanza e delle imprese, i quali vengono resi disponibili e accessibili in forma digitale.
Come questa esperienza abbia funzionato è ancora presto per dirlo dato che l’urgenza con cui si è proceduto al cambiamento non ha consentito di avere un quadro di raccolta sistematica di informazioni su come in questi mesi si proceduta l’offerta di servizi da parte pubblica amministrazione. Ciò non toglie che, sia pure in modo confuso e approssimato, alcuni punti fermi su ciò che è successo sembrano comunque emergere.
La risposta del sistema all’urgenza di digitalizzare
Il primo aspetto da sottolineare è che il sistema ha risposto complessivamente in modo realmente apprezzabile alle difficoltà e, comunque, molto meglio di quel che ci si poteva aspettare considerato l’avanzamento titubante registrato nel recente passato dai processi di digitalizzazione del sistema pubblico. Di fronte all’emergenza, la PA ha saputo dimostrare una capacità di adattamento e di risposta che così scontata non era.
Il che conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il problema della digital transformation non riguarda tanto i soldi, le infrastrutture o le skill (intendiamoci, tutte cose fondamentali e comunque da migliorare), ma è innanzitutto una questione di change organizzativo, di resistenza al cambiamento dei modelli di lavoro, di blocco rispetto a potenziali ridefinizioni dei sistemi interni di potere.
Cosa non ha funzionato
È chiaro però che non tutto è andato come doveva andare. In assenza di un regole – e di strumenti di tipo generale – l’unica possibilità per le amministrazioni per dare riscontri immediati alle necessità del momento non poteva che essere quella del “fai da te”. Di qui l’inevitabile differenziazione in termini di soluzioni, e soprattutto, di capacità di risposta alle esigenze dei cittadini e delle imprese, prodottasi all’interno di un contesto già di per sé frammentato e disarticolato, come quello della PA italiana.
I problemi di infrastruttura
Su questo quadro hanno certamente pesato i gravi ritardi che ancora si registrano sul fronte della connettività in banda larga e soprattutto ultralarga, dove ancora oggi solo un quinto di tutte le abitazioni italiane risulta effettivamente collegato tramite fibra ottica. In una situazione di improvviso picco del traffico dati, la presenza nella rete di buchi o di smagliature, ha influito in modo determinante, sia sulle possibilità di produzione “in remoto” dei servizi pubblici, sia sul lato della delivery degli stessi servizi, rendendo difficile una corretta fruizione da parte di cittadini e imprese.
L’esperienza dello smart working
Inoltre, in assenza di dati più precisi, quello che oggi sappiamo è che di fatto lo smart working di questi mesi è consistito soprattutto nell’applicazione estensiva da parte delle PA – o meglio, dei dipendenti pubblici – delle soluzioni di comunicazione online (teleconferenze, posta elettronica, messaggistica).
Meno evidente, seppure passi in avanti importati sono stati fatti da molte amministrazioni, è invece il cambio di passo nell’uso di soluzioni specializzate di telelavoro realizzate per dare la possibilità al personale pubblico di svolgere da casa tutte le operazioni altrimenti eseguite in sede, senza perdite di efficienza. Ciò ha determinato chiare asimmetrie nel modo in cui lo smart working è stato utilizzato, con un ampio uso per tutti i servizi a forte contenuto professionale e con una linea di produzione corta, in cui il grado di coordinamento richiesto è relativamente leggero.
Al contrario, ritardi frequenti si sono creati per i servizi la cui produzione presuppone un preciso coordinamento tecnico tra i diversi attori e la frequente interazione con le informazioni presenti nei dataset residenti nei sistemi informativi delle amministrazioni (si pensi ad esempio ai servizi amministrativo-contabili, oppure ai servizi relativi alla concezione di permessi) dove pesano i noti ritardi nell’uso del cloud e, in generale, nell’adozione di soluzioni soft allineate con gli standard tecnologici prevalenti. Oltre all’insufficienza di adeguata connettività e ai ritardi sul fronte della digitalizzazione, lo smart working diffuso di questi mesi ha messo inoltre in risalto la centralità di due questioni: quello della regolazione di queste nuove modalità di lavoro e quello della sicurezza.
Le priorità da affrontare
Finora, considerata la situazione di urgenza, a questi temi è stato data un’attenzione marginale. Ora serve correre rapidamente ai ripari. Serve intervenire presto con la messa a punto di un corpus normativo ad hoc che stabilisca le regole dello smart working nel pubblico impiego: limiti applicativi, modi di esecuzione delle attività, modalità e strumenti di controllo delle prestazioni.
Parallelamente è necessario mettere a punto, da subito, la definizione di standard, architetture e soluzioni finalizzati a creare delle barriere contro il rischio di attacchi informatici in grado di mettere a rischio l’operatività e la correttezza dell’attività delle amministrazioni. La capacità di risposta e di adattamento dimostrata dalla PA nel corso dell’ultimo anno dimostrano come il sistema pubblico abbia in sé la capacità e la voglia di cambiare.