Il Covid-19 ha portato un cambiamento molto forte anche nell’organizzazione del lavoro: lo smart working, pur indicato da tempo come una modalità nuova e innovativa di gestire il rapporto di lavoro non era mai stato applicato prima in Italia su larga scala, né nella pubblica amministrazione né nelle imprese private. Ecco invece che, di colpo, a seguito della pandemia, ci si è travati nella situazione di dover, obtorto collo, ricorrere al lavoro a distanza, non sempre con risultati positivi dal punto di vista della produttività.
Il problema di fondo è che lo smart working è il punto di arrivo di un’organizzazione che si progetta in maniera digitale. Questo vale per le imprese private, ma vale ancor di più per le pubbliche amministrazioni che spesso sono chiamate a certificare gli output prodotti dallo smart working.
In una situazione di emergenza non si può che turarsi il naso e fare di necessità virtù, ma se si vuole che almeno un lascito positivo rimanga all’interno di questa tragedia, non ci si può non porre il problema di come riprogettare le organizzazioni per renderle in grado di gestire in maniera ottimale lo smart working.
Il peccato originale
Il codice dell’amministrazione digitale (CAD) prescrive per le Pubbliche Amministrazioni l’obbligo di sviluppare un sistema informativo integrato basato sul principio dell’alimentazione diretta e automatica. A tutti i livelli mancano, però, strumenti che permettano di realizzare questo obiettivo. L’utilizzo subottimale dello smart working è legato sostanzialmente a questo.
Il primo passo, banale se volete, è quello di potenziare i sistemi informativi aziendali. Molte organizzazioni hanno avuto problemi a gestire il carico degli accessi in VPN ai server, accessi spesso effettuati senza solide misure di cybersecurity. Lo smart working amplifica enormemente gli accessi ai server anche a causa dei flussi di dati che derivano dagli utenti che devono collegarsi in remoto.
Le pubbliche amministrazioni in genere hanno sistemi informativi sottodimensionati che in condizioni normali non sono in grado di governare e gestire i flussi di dati che derivano dallo smart working. Basti pensare il sistema scolastico che ha dovuto gestire con mezzi di fortuna la didattica online, facendo uso di piattaforme pensate per altri tipi di meeting e generalmente molto limitate in quanto utilizzate nella versione free e tralasciando spesso di considerare problemi enormi di tutela della privacy che derivavano da questo tipo di didattica. Lodevole è stato lo sforzo degli insegnanti che si sono ingegnati come potevano, senza risorse, ma il sistema scolastico italiano era totalmente impreparato alla gestione a distanza dell’insegnamento. La didattica online può essere un eccezionale strumento di inclusione, ma ha bisogno di investimenti, di risorse e di competenza.
Tutte la falle della PA 4.0
Ma lo smart working efficiente resterà una chimera se non si attivano processi di digitalizzazione. Troppo spesso molti processi sia nelle organizzazioni pubbliche che in quelle private sono ancora ancorati al cartaceo. La transizione digitale completa non si è mai totalmente realizzata in Italia, basti pensare ai tanti rinvii che sono stati necessari per realizzare la fatturazione digitale.
Il sito dell’Inps, che dovrebbe costituire un’eccellenza nella digitalizzazione e che va in tilt per un picco di domande online, denotando allo stesso tempo falle gravissime nella privacy, è lo specchio drammatico di un paese e di una pubblica amministrazione che di 4.0 ha veramente poco. In un corretto approccio alla digitalizzazione l’output digitale deve essere formato e conservato con passaggi totalmente telematici, validato attraverso firme digitali e pec e conservato secondo regole ben precise che ne assicurino la sicurezza e l’accessibilità. Un processo di questo genere non ha bisogno di un ufficio tradizionale, ma può svolgersi in maniera decentralizzata. Questo sistema tutela l’utente finale e deve esser accompagnato da un grande sforzo di trasparenza dell’organizzazione che deve mettere l’utente in condizione di trovare sul sito tutte le risposte alle richieste che ha bisogno di formulare. E anche in questo caso il grado di trasparenza delle organizzazioni in Italia è ben lontano dagli standard di un paese avanzato.
L’inerzia organizzativa
Ma vi è un ulteriore causa che spiega l’utilizzo subottimale delle tecnologie ed è l’inerzia organizzativa che crea resistenza al passaggio dalle forme di lavoro tradizionali allo smart working. Questa inerzia assume varie forme: si può parlare di inerzia psicologica, correlata all’ansia per l’apprendimento di nuove tecnologie, culturale, in quanto si troppo legati alla modalità di lavoro tradizionale, tecnologica, intesa come incapacità di superare i limiti dei sistemi informatici esistenti, di allocazione delle risorse. Le organizzazioni mostrano in sostanza una certa resistenza quando vivono come una minaccia i cambiamenti tecnologici. È una sorta di resilienza negativa che si oppone al cambiamento, che l’emergenza covid ha contribuito fino ad ora ad attutire, ma che si riproporrà con forza alla fine dell’emergenza.
Conclusioni
Occorre quindi incentivare il cambiamento tecnologico e l’orientamento allo smart working introducendo sistemi premianti nella valutazione per l’utilizzo efficiente di queste tecnologie, ma occorre anche un riorientamento di tutto il sistema gestionale che deve esser in grado di cogliere i cambiamenti e di governarli in lamiera ottimale.
La sfida quindi va giocata su tre livelli, quello dell’infrastruttura tecnologica, (Technology) quello della trasparenza e della digitalizzazione (Transparency) e quello del cambiamento organizzativo (Transfer). Potremmo sintetizzare questo con una regola delle tre T (Technology, Transparency, Transfer) come base per rendere stabili ed efficienti i processi legati allo smart working.