Il datore di lavoro non è più propriamente è libero di decidere se adottare la modalità di svolgimento del lavoro per i suoi dipendenti, in modalità di lavoro agile, finché l’emergenza coronavirus non sarà finita.
Ciò si evince dal DPCM del 11 marzo in cui è previsto che sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza.
Le aziende che non hanno voluto attivare il lavoro agile – o smart working, come molti preferiscono chiamarlo – in caso di contagio del virus contratto nello svolgimento dell’attività lavorativa in azienda, potrebbero trovarsi a dover giustificare le proprie decisioni.
Il lavoro agile come “prevenzione”
Sino a quando sarà in corso l’emergenza il lavoro in modalità “agile” rappresenterà infatti una vera e propria misura di prevenzione che il datore di lavoro deve adottare per evitare di esporre al contagio il proprio personale.
Occorre infatti tener presente che in capo al datore di lavoro sussiste un preciso obbligo di protezione della salute psico-fisica del prestatore di lavoro che trova la propria fonte nell’art. 2087 cod. civ.: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
L’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare
- le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata;
- le misure generiche dettate dalla comune prudenza;
- tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoratore secondo la particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica.
Dunque, ai sensi dell’art. 2087 Cod. Civ. la responsabilità per violazione di obblighi è configurabile nel caso in cui il comportamento del datore di lavoro costituisca inadempimento di una regola di condotta preesistente al fatto lesivo e, quindi, quando il datore di lavoro
- ha violato una misura di sicurezza espressamente prevista dalla legge e/o ragionevolmente individuata e/o individuabile prima del verificarsi dell’evento dannoso;
- non ha adottato le misure di prevenzione e di sicurezza volte a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore anche tenuto conto di particolari e persistenti situazioni concrete che influenzino il corso dell’attività aziendale (come nel nostro caso, con il diffondersi della pandemia del Covid-19).
Le responsabilità dei datori di lavoro se il dipendente si ammala di coronavirus
Ne consegue che la violazione di questo obbligo comporta il rischio che sia imputata al datore di lavoro la responsabilità in questo caso:
- di un eventuale contagio di un lavoratore per effetto della frequentazione degli uffici,
- della diffusione del COVID-19 in considerazione del contatto tra più soggetti presso la sede di lavoro, con la conseguenza che possa essere chiamato a risarcire il lavoratore o i soggetti contagiati per l’eventuale danno patito e a rispondere dei reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società.
Da ultimo si sottolinea che la rilevanza della previsione contenuta nell’art. 2087 Cod. Civ. emerge soprattutto nella lettura combinata con la disposizione contenuta nell’art. 25 septies, D. Lgs. n. 231/2001 che prevede tra i reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società, l’omicidio colposo (art. 589 Cod. Pen.) e le lesioni personali colpose (art. 590 Cod. Pen.) quali conseguenze della violazione della normativa sulla salute e sicurezza sul lavoro.
In questo caso, le sanzioni a cui sarà soggetto l’ente potranno essere di carattere pecuniario e interdittivo.
Indubbiamente, questo sarebbe un prezzo molto alto da pagare per i datori di lavoro che da molteplici punti di vista si ritrovano, oggi, a fronteggiare – talvolta con mezzi e risorse ridottissime – le conseguenze COVID-19 e ad evitare il blocco totale dell’attività aziendale.
In definitiva, il datore di lavoro non può abbassare la guardia. E in questo contesto si inserisce il Protocollo per la regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro che le Parti Sociali hanno siglato il 14 marzo 2020.
Fin dall’introduzione, il Protocollo sancisce che si ritiene prioritario l’obiettivo di coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative e fa intendere che il lavoro agile, unitamente alla possibilità per l’azienda di ricorrere gli ammortizzatori sociali e assieme ad altre soluzioni organizzative straordinarie, rappresenta una misura che favorisce il contenimento della diffusione del virus.
In particolare, poi al punto 8 “Organizzazione aziendale (turnazione, trasferte e smart work, rimodulazione dei livelli produttivi” si prevede che, limitatamente al periodo della emergenza dovuta al COVID-19, le imprese dovranno:
• disporre la chiusura di tutti i reparti diversi dalla produzione;
• procedere ad una rimodulazione dei livelli produttivi;
• prevedere un piano di turnazione dei dipendenti dedicati alla produzione;
• utilizzare lo smart working per tutte quelle attività che possono essere svolte presso il domicilio o a distanza;
• nel caso in cui vengano utilizzati ammortizzatori sociali, anche in deroga, valutare la possibilità di assicurare che gli stessi riguardino l’intera compagine aziendale, se del caso anche con opportune rotazioni;
• utilizzare in via prioritaria gli ammortizzatori sociali disponibili (par, rol, banca ore)
• nel caso in cui l’utilizzo dei predetti istituti non risulti sufficiente, si utilizzeranno i periodi di ferie arretrati e non ancora fruiti;
• annullare tutte le trasferte/viaggi di lavoro nazionali e internazionali.
Lo stesso Protocollo, per le aziende a cui si applica, contiene le linee guida per l’adozione da parte delle aziende di protocolli di sicurezza in attuazione delle disposizioni contenute nel DPCM dell’11 marzo u.s. e prevede la creazione in azienda un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo con la partecipazione delle rappresentanze sindacali e del RLS.