Mentre molti di noi ancora cercano di comprendere come gestire le dinamiche più importanti del web 2.0, gli addetti ai lavori già sono a pieno titolo immersi nel web 4.0. Al di là delle etichette che vogliamo dare ai processi, viviamo all’interno di un qualunque racconto di fantascienza di meno di venti anni fa, in cui robot ed umani interagiscono nel quotidiano con ordinaria familiarità e ci siamo arrivati mentre eravamo ancora distratti dall’euforia dell’iperconnettività e della socialità a portata di like. L’unica differenza dall’immaginario classico è che, per il momento, questi robot non hanno fattezze antropomorfe. Si sono insinuati nel nostro mondo come vere e proprie “protesi cognitive”, dall’aspetto innocente ed in taluni casi perfino intangibile.
I nostri smartphone ci conoscono meglio del nostro partner, indovinano i nostri gusti musicali, i nostri amici, i nostri appuntamenti, i libri che preferiamo e le ricette che cuciniamo; ci suggeriscono dove comprare e cosa ed arrivano perfino a monitorare con accudente precisione il nostro bioritimo più adeguato. Anticipano le nostre esigenze ed in molti casi, effettivamente, ci semplificano la vita. Sicuramente la capacità di personalizzazione delle tecnologie è parte integrante del loro successo contribuendo a fornirci un’estensione delle nostre capacità cognitive che rende il servizio di questi strumenti un vero e proprio potenziamento digitale (Prensky, 2011).
In questo idilliaco panorama di uno spazio sociale in cui le applicazioni diventano la Mary Poppins della nostra vita, navighiamo senza troppa consapevolezza e senza sufficiente comprensione della maggior parte dei fenomeni di cui siamo protagonisti. Sembra elementare solo perché è facile – smart si dice oggi – eppure non è esattamente così. Sono facili le azioni, ma sono decisamente complesse le dinamiche sottese.
Concentrandoci sulle interazioni mediate dalle tecnologie digitali, è necessario riflettere sui meccanismi che ne hanno garantito la diffusione e che quotidianamente ci rendono parte di un processo più ampio. Questa forma di ossessione collettiva è tacitamente tollerata, per le dimensioni che ha acquisito, finendo per rendere sempre più difficile distinguere l’uso dall’abuso e scindere i momenti online da quelli offline. Questo non solo a causa di una contiguità sempre più spinta tra reale e virtuale,[1] ma di una diffusione che rende la “norma” (normale) un comportamento perché diffuso dalla maggior parte delle persone. Portiamo i nostri device sempre con noi, riuscendo in questo modo ad essere in ogni istante in contatto con la nostra “rete” sociale, ospitata da quel cyberspazio che ha assunto un ruolo decisamente impegnativo nel nostro tempo e nelle nostre interazioni: i social network. Sono loro che ci raccontano la nostra storia, in quella versione avvincente e pubblica che gli abbiamo suggerito, selezionando con un sempre più talento registico foto, status, hashtag e localizzazioni.[2]
Di fatto, il successo dei social si basa sulla principale leva della socialità: il confronto sociale. Online viviamo nella costante necessità di stimolare il riscontro dei nostri contatti, di avere un feedback più o meno continui sulle nostre azioni, pensieri e su ogni cosa possa essere oggetto di condivisione. Attiriamo in questo modo l’attenzione e sfoghiamo le nostre emozioni, certi dell’empatia dei nostri contatti, in un ambiente che percepiamo come controllato e sicuro.[3]
Proprio perché considerata intima e basata su un pregiudizio positivo di fiducia, la comunicazione digitale entro i social network si dimostra in realtà estremamente persuasiva, per quanto inconsapevolmente, in virtù del processo che BJ Fogg (2008), il teorico della captologia[4], già all’inizio della loro diffusione aveva intercettato e definito persuasione interpersonale di massa (Mass Interpersonal Persuasion – MIP)[5].
In particolare, unendo la persuasione interindividuale alle caratteristiche dei media di massa la MIP, all’interno dei social network si genera un’esperienza persuasiva che incide sia sugli atteggiamenti che sui comportamenti.
Per comprendere meglio, è possibile analizzare gli elementi salienti su cui si basano le tecnologie orientate a processi persuasivi.
Persuasive experience
Le interazioni mediate dalle applicazioni social hanno come obiettivo le principali dinamiche dell’influenza sociale: la modifica degli atteggiamenti e dei comportamenti. Per comprendere meglio è sufficiente pensare ad una qualunque pagina Facebook: il suo primo intento sarà quello di indurre una disposizione positiva verso il prodotto o il personaggio, che costruirà pianificando attentamente intrattenimento e/o consigli. Ottenuto questo risultato – costruendo la community e fidelizzandola – chiederà un’azione concreta, dal condividere un post, scrivere una recensione positiva, partecipare ad un evento, visitare il sito o acquistare un certo prodotto.
Automated structure
La convergenze multimediale dei media digitali agevola la viralità della comunicazione per via di una progettazione finalizzata a convincere gli utenti ad impegnarsi in un’azione che è strutturata proprio per essere estremamente semplice. Si pensi, ad esempio, alla facilità con cui attraverso un “I like” si diffonde un’informazione o ancora come sia efficace chiedere una “semplice” condivisione di un link per promuovere un prodotto, un’attività o un’idea. La facilità con cui condividiamo contenuti è frutto di una progettazione che si impegna a renderli sempre più automaticamente virali.
Social distribution
Il meccanismo persuasivo è implicitamente condiviso tra gli amici, quindi dotato di un’elevata accettabilità sociale e di una affidabilità garantita dalla prossimità. La facilità con cui accetto l’invito di un amico ad iscrivermi ad un gruppo o scaricarmi una App è paragonabile a quella con cui a mia volta girerò l’invito ad altri amici, amplificando esponenzialmente il processo di distribuzione sociale del meccanismo stesso. Richard Brodie (2000) parla di “virus della mente” ritenendo che l’individuo possa essere concepito come mero replicatore dei memi dai quali viene “infettato” durante le interazioni sociali, processo decisamente accresciuto con l’avvento del digitale. La facilità con cui cliccando un tasto inviamo inviti a centinaia di contatti ci rende contestualmente attivi ed inconsapevoli portatori di “virus culturali”. [6]
Rapid cycle
Per sua stessa natura la rete si basa su processi virali estremamente rapidi, che trovano negli ambienti social un terreno fertilissimo di propagazione grazie all’elevata affordance dei meccanismi di reazione e condivisione. Non devo faticare per condividere immediatamente un contenuto ed ho la consapevolezza che la velocità di propagazione è proporzionale al successo del mio intervento. Se condivido contenuti “datati” perdo appeal rispetto alla mia performance. Si pensi, ad esempio, in proposito al successo del real time marketing e di come la propagazione di un #hashtag di moda richieda a tutti di essere tempestivi al massimo nella partecipazione alla cerimonia sociale di condivisione. Ugualmente, pensiamo a come la rapidità diventi utile ad esempio nel caso di attentati o disastri naturali: Facebook ha attivato il Safety check per avvisare immediatamente i propri contatti di essere in salvo.
Huge social graph
Facebook – per citare il social più popolare ed utilizzato al mondo – ad oggi conta circa 2 miliardi di utenti (di cui 1, 28 attivi giornalmente con un incremento annuale del 18%)[7] e solo in Italia supera i 30 milioni di utenti, per cui ogni interazione online può creare delle connessioni che coinvolgano potenzialmente miliardi di persone. Nessuno, ovviamente arriva a tutti, ma senza dubbio, i celebri Sei gradi di separazione di Milgram sono drasticamente diminuiti con il diffondersi delle reti sociali.
Measured impact
Gli effetti del proprio comportamento nel network possono essere osservati da utenti e creatori, ragione che amplifica la “cultura della quantità”. In particolare la possibilità di ricevere feedback immediati di apprezzamento aumenta la motivazione a pubblicare altri contenuti. Di fatto, il processo della riprova sociale ci induce a ritenere attrattivo ciò che è popolare nella maggioranza. Un esempio della nostra tendenza a farci guidare dalla “saggezza delle folle” governa la popolarità dei meccanismi di recensione sempre più popolari del mondo digitale (si pensi al ruolo giocato sulla brand reputation da tripadvisor o da yelp) che sempre più influenzano le nostre esperienze di acquisto.
Senza scomodare Vans Packard e i persuasori occulti, come ogni altra forma di persuasione la MIP non è in sé positiva e negativa, ma è sicuramente un potenziale enorme dei social network, che rende per la prima volta nella storia l’individuo ordinario dotato dell’abilità di acquisire visibilità ed esercitare potenzialmente la propria influenza su milioni di persone.
Il problema è un bias di fondo nell’utilizzo dei social ovvero l’illusione della libertà intrinseca alla partecipazione online. Questa idea (illusione) di sostanziale democrazia ci rende meno reattivi ai tentativi di influenza interpersonale sia quando li subiamo sia quando li agiamo, perché non arrivano più dai grandi media di massa (come tv e radio), ma dal nostro “vicino di banco”.
Nonostante la diffusa percezione di autonomia intellettuale all’interno dei social network, è dimostrata la minor propensione ad esprimere la propria opinione reale online, qualora questa sia difforme da quella della “nostra” maggioranza (i nostri contatti), rispetto a quanto faremmo in un’interazione in presenza. Le dinamiche di desiderabilità sociale aumentano esponenzialmente all’interno dei social, rendendoci ancora più sensibili a quel processo che prima riguardava solo la comunicazione pubblica: la spirale del silenzio.[8] Restiamo poco consapevoli del fatto che a decidere di cosa ci interessa parlare sono i nostri “affidabili contatti” o meglio gli algoritmi che ci costruiscono attorno un mondo su misura, a partire dalle nostre preferenze lasciate inconsapevolmente in rete. Nella nostra “bolla” social edifichiamo una realtà basata sulle nostre preferenze e sulla rinnovata interconnessione dei nostri small worlds, mantenendo viva l’illusione che in rete sia rappresentata la totalità della realtà sociale (effetto echo-chambers).
La cultura della rete appare come dominata dall’idea che le interazioni online rappresentino la “voce non mediata della gente”,[9] espressione di quella tanto idealizzata democrazia di rete che permette a chiunque di dire la sua sul palcoscenico esteso dei social media. Ma se questo è vero a livello teorico e resta (sia chiaro) un’opportunità concreta e appassionante di connettività globale e potenziamento cognitivo, in assenza di una cultura della comunicazione digitale e di un consapevole ed eticamente responsabile utilizzo, finisce per trasformarsi in una babele di monologhi, generati da inconsapevoli processi di persuasione interpersonale di massa, tanto non interessanti (per i più), quanto economicamente proficui (per pochi). L’iperconnettività propria dei social si rivela al servizio della legge della quantità, che domina il giudizio sociale diffuso. [10] Per il principio dell’aggregazione preferenziale la numerosità delle interazioni e dei gradimenti online, agevola la popolarità e la conseguente attrattività di un net (nodo: utente, pagina etc): da cui più like, più reactions, condivisioni e commenti, più il post diventa virale ed il nodo che lo ha diffuso ne ricava visibilità che si traduce in “produzione sociale di valore”.[11] Eppure “quando tutti sono lì a trasmettere non rimane nessuno ad ascoltare” (Keen 2007), così ci ritroviamo impegnati a produrre con costanza contenuti su contenuti per ampliare la nostra rete e monitorarne l’apprezzamento, nonostante la richiesta di velocità propria del social sia incompatibile con la lentezza dell’introspezione, dell’approfondimento e della riflessione. Non c’è tempo per pensare prima di parlare. Accade, quindi, di trovarci davanti a quella che Wolf, definisce una evidente e sempre più diffusa perdita della capacità di lettura profonda, ampliando la ricaduta di quello che può intendersi come un vero e proprio analfabetismo funzionale[12].
Imparare a gestire la comunicazione in rete in qualità di agenti di persuasione, conoscere l’impatto del nostro comportamento online, anche il più piccolo, non è una necessità solo per gli addetti ai lavori, quanto un’urgenza sociale più ampia, che riguarda ciascuno nel proprio ruolo di cittadino globale.
Citando il celebre teorizzatore della distinzione tra nativi ed immigrati digitali, la saggezza digitale va attentamente distinta dalla destrezza digitale.[13] Non basta saper usare le tecnologie per farlo con cognizione. Così come non basta digitalizzare aziende e pubbliche amministrazione senza fornire le conoscenze essenziali relative ai processi di comunicazione digitale, per gestire al meglio le interazioni dietro gli strumenti.
Tra le possibili strade da approfondire per imparare a dirigere il legame tra comunicazione digitale e persuasione interpersonale di massa (MIP) sembra fondamentale la pianificazione di un’azione educativa che non agisca solo sugli strumenti, ma anche sui processi. È necessario fare in modo che si sviluppi una maggiore sensibilità rispetto agli effetti delle proprie interazioni online (e dell’impatto che hanno nell’offline), così come è importante riflettere sulla sempre più efficace affordance degli strumenti, che li rende e renderà ancora più user friendly, offuscando il bisogno di cognizione delle implicazioni d’uso. [14] Solo in questo modo si può realmente sperare nella valorizzazione di una dimensione creativa, costruttiva, della comunicazione in rete, a dispetto di quella autoreferenziale, replicativa e mainstream che domina attualmente.