Osservare oggi la realtà dei social media in Italia significa confrontarsi con la loro mainstreamizzazione, che è il prodotto di un accesso sempre più di massa a cui è corrisposto un uso sempre più “normalizzato” degli ambienti digitali. Quella che fino a qualche anno fa sembrava essere la condizione naturale di queste realtà, il loro essere aperte ad una continua sperimentazione – in “beta permanenente”, avremmo detto, anche dal punto di vista dell’uso da parte degli utenti – oggi è diventata sempre più una nicchia evolutiva: l’eccezione e non la regola. La normalità è invece costituita dalla parte emersa, quella che si mostra con tutta la sua auto-evidenza nella nostra esperienza quotidiana, e che mette in evidenza un’attività social che si sta polarizzando tra due estremi.
Da una parte troviamo una realtà di tipo “social-broadcast” dove celebrity di diverso tipo (star televisive, politici, giornalisti, sportivi… ma anche celebrità nate dallo stesso web) mandano in onda il proprio personaggio giocando con lo svelamento del retroscena. Ecco allora le dirette Periscope di artisti durante le prove per tour e spettacoli, collegamenti dai camerini o prima di una trasmissione in radio. La timeline Twitter di giornalisti di fama che alterna commenti alle news con foto delle vacanze, divagazioni sulla propria vita, piatti consumati durante gli spostamenti lavorativi. Profili Facebook in cui si tiene un contatto quotidiano con i propri fan lasciandoli entrare nei propri soggiorni, nei giardini, suonicchiando per loro…
Una costante messa in scena del retroscena, quindi, come retorica dell’accesso al mondo intimo, al dietro le quinte della vita come momento di “autenticità” che diventa un format preciso.
Dall’altra parte troviamo una simmetrica realtà di “social-lifecast”, dove si vede rappresentato il quotidiano della propria cerchia di amici o di conoscenti con i quali i social media ci consentono di mantenere un contatto costante e di superficie allo stesso tempo. Dire “di superficie” non significa necessariamente dire “superficiale”. È semplicemente una costruzione di intimità con l’altro costruita attraverso contatti rapsodici, che si inseriscono a colpi di notifiche lungo la giornata, che si presentano in modo costante come epifanie che interrompono il tempo lavorativo o anche quello libero. Spesso, la sera, lo spettacolo della vita degli altri che passa su Facebook è diventato un surrogato della televisione e ci si ritrova a fare zapping tra i profili, facendo del newsfeed il nuovo palinsesto per informarci ed intrattenerci.
In mezzo a questi due estremi troviamo ancora una rete di persone che sperimentano le potenzialità della connessione – anche in chiave professionale – ma con un orientamento ai social media come realtà che permette di stringere relazioni e aumentare strategicamente il proprio capitale sociale e relazionale. Se prima però la Rete era identificabile con questa tipologia di connessione (qualcuno si ricorda l’epoca dei blogger?) oggi non lo è più. È il prezzo che si paga quando i social media diventano di massa.
Lo so che la Rete non è solo questo e chi sta leggendo queste righe ha una propria esperienza diversa da questa polarizzazione. So che le storie d’uso dei social media raccontano di specificità e differenze, che si legano ai vissuti dei singoli, alle reti sociali. So che esistono progetti bellissimi nati solo grazie alle possibilità di networking che questo ambiente consente.
Ma la narrazione dominante che oggi stiamo costruendo dei social media in Italia e che finisce per costruirne la rappresentazione per gli utenti, pare proprio essere questa. È quella ancorata agli interessi di mercato generati dalla social television e alla corrispondente mitizzazione del “pubblico social” che partecipa, esaltata da produzioni e testate. È nella centralità tutta italiana di Twitter nel dibattito politico – avere un Presidente del consiglio che twitta e vedere trasformati i suoi tweet in virgolettati che fungono da titoli dei giornali è un fenomeno nostrano –, che esalta il carattere di personalizzazione e il culto della celebrity che comunica alle masse. È nell’interesse particolare dei media per i fenomeni borderline dei social media (bufale e troll, in primis) o per i memi che si generano coniugando intrattenimento e masse. Più difficile mettere a fuoco le narrazioni minoritarie, quella ricchezza delle vite connesse che le moltitudini, nella loro nudità antropologica, stanno generando attingendo, ancora oggi, alla natura del “beta permanente” che è nel DNA della rete.