I social network danno per la prima volta voce a intere categorie di persone fino a poco tempo fa “invisibili”. Si tratta di una grande novità foriera di possibilità anche se scomoda e difficilmente canalizzabile. Ma la qualità della comunicazione dipende da noi: ecco una serie di consigli per evitare sovraccarico e disordine informativo e fare qualcosa di costruttivo sui social. Sia che rappresentiamo enti, aziende, o semplicemente noi stessi.
Ogni volta che si discute di social network, molti manifestano un atteggiamento piuttosto ostile: la comunicazione social è percepita spesso come frivola nei contenuti (“Una perdita di tempo”) e povera, quando non direttamente diseducativa, nella forma (“La rovina dell’italiano”). Tra le frasi celebri più condivise in rete ne troviamo una di Umberto Eco: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”; è abbastanza prevedibile che chi la pubblica sul proprio profilo lo faccia senza pensare che con quell’atto rientra a sua volta tra coloro ai quali è stato concesso quel famoso diritto di parola.
Accade continuamente che, quando si parla delle brutture della rete, si tendano a imputare tutte le colpe agli altri. E quando i colpevoli sono gli altri, abbiamo un ottimo motivo per non fare niente noi: di fatto, ci lamentiamo di ciò che vediamo non funzionare o che reputiamo sbagliato, aspettando che la soluzione venga da altrove. Qualcuno dichiara che si dovrebbe impedire l’accesso alla rete agli imbecilli di cui sopra, altri affermano che dovrebbero essere i governi e le multinazionali ad agire: non di certo noi, che non abbiamo nessuna rilevanza (oltre che nessuna colpa).
I social come luoghi di dibattito culturale?
Nessuno vuole negare che il contesto dei social sia, effettivamente, molto “rumoroso” e dispersivo, e forse proprio per questo è ancor più difficile pensarlo come un luogo dove fare cultura. Soprattutto nelle persone meno attratte dall’opinione urlata, dalla polemica e dal litigio, una delle reazioni ricorrenti davanti al caos comunicativo imperante è chiudere i propri profili e abbandonare l’aiuola che ci fa tanto feroci. Tuttavia, quando chi potrebbe favorire un dibattito “di sostanza” (perché magari più propenso a una riflessione metacomunicativa, oltre che più competente) lascia il confronto – ritenendo, appunto, i social inadatti tout court a contenuti di valore – e si rifugia su una sorta di Aventino culturale, lasciando spesso il campo a chi urla più forte, e magari a sproposito.
Diciamocelo: che i social non scompariranno da un giorno all’altro è ormai evidente. Viene quindi da chiedersi se al di là di leggi, algoritmi, multinazionali e governi sia possibile, a parte andarsene sbattendo la porta, fare qualcosa a livello personale per rendere la nostra permanenza in rete più produttiva. E la risposta è sì, avendone voglia.
Non è facile, ma è alla portata di tutti. Intanto, va compreso che la qualità di quanto troviamo sui social dipende molto da ciò che ci immettiamo noi: di conseguenza, riflettendo un momento sulle nostre azioni in rete, sia nel nostro ambito privato che in quello professionale, possiamo evitare di andare ad alimentare il sovraccarico e il disordine informativo.
Quel dialogo asimmetrico interrotto
Negli ultimi anni si è diffusa, un po’ in tutti i contesti, la coscienza del valore che può avere una salda presenza social e sono emerse, al contempo, le difficoltà poste da questo àmbito comunicativo, al di là della sua apparente immediatezza. Tra queste, la generalizzazione delle discussioni, non più riservate a una minoranza colta e preparata ad affrontarle (l’unica, in precedenza, ad avere accesso al dibattito pubblico); l’accorciamento delle distanze tra esperti e non esperti, aziende e consumatori, VIP e “gente comune”, con il conseguente tradimento di quella specie di “galateo delle discussioni” a cui il dialogo asimmetrico era abituato (compreso un tacito, quasi automatico, rispetto per l’autorevolezza); il fatto che le persone siano propense al litigio e al dissenso scomposto, e mostrino scarsa capacità di dissentire senza litigare, per citare parte del sottotitolo del volume di Bruno Mastroianni “La disputa felice” (Cesati, 2017); parallelamente, a livello di lingua, mentre si può ridimensionare il ruolo dei social nella rovina dell’italiano, è indubbio che essi abbiano reso pubbliche forme di scrittura casual (e di conseguenza tutt’altro che ineccepibili dal punto di vista della forma) che prima, proprio per la limitata possibilità di partecipare al dibattito pubblico, erano meno visibili.
Dunque, che consigli dare a chi volesse “fare qualcosa di costruttivo” sui social, ente, azienda o utente singolo che sia? Eccone quattro per iniziare.
1. Riflettere sull’utilità o imprescindibilità di quanto si sta per pubblicare in un contesto pubblico ed estremamente longevo (Altri hanno già scritto la stessa cosa che volevo scrivere io? Voglio essere identificato per un tempo potenzialmente molto lungo con le parole che sto per scrivere?).
2. Porsi qualche dubbio in più rispetto alle proprie competenze, evitando di cadere nel tranello di pensare che googlare equivalga a conoscere (L’intervento che sto per fare si basa su dati e informazioni di cui ho la certezza, che conosco bene, che ho ricontrollato? Oppure sono solo alla ricerca del like facile?).
3. Prestare maggiore attenzione alla correttezza e precisione linguistica, in modo da evitare fraintendimenti o incomprensioni; come nota Dave Foster Wallace, rispettare la norma linguistica è prima di tutto una forma di cortesia nei confronti dell’interlocutore (Ho riletto bene? Se ho un dubbio linguistico, ho ricontrollato su una fonte autorevole? Sono pronto a difendere le mie scelte comunicative in maniera circostanziata?).
4. Considerare la possibilità di rimanere in silenzio, ossia di non intervenire per forza laddove non siamo davvero competenti o a conoscenza dei fatti. Il modo più semplice per costruirsi una reputazione salda in rete è proprio intervenire quando se ne hanno le competenze e tacere negli altri casi: quelli in cui non faremmo altro che contribuire alla ridda di illazioni, informazioni imprecise o opinioni espresse in maniera incerta che già pullulano in rete.
L’invasione delle persone
Quando abitiamo i social (e non ne parliamo solo per sentito dire), quando abbiamo qualcosa da dire, cioè possediamo contenuti di spessore, quando ci impegniamo a comunicarli al meglio, possiamo aspirare a dare il nostro contributo alla creazione di una rete “sana”, nella quale poter vivere felici e connessi; una rete nella quale incontrare contenuti interessanti e utili possa diventare un’esperienza quotidiana e non più un evento eccezionale. Non ci hanno mai insegnato come fare, ma possiamo sempre impararlo. In fondo, a livello di evoluzione umana siamo solo dei giovani utenti della rete: possiamo e dobbiamo evolverci per prendere pienamente possesso dell’iperconnessione nella quale ci siamo, di fatto, un po’ “ritrovati” a vivere.
In sostanza, davanti alla generalizzazione del dibattito pubblico, possiamo smettere di lamentarci e lavorare, ognuno di noi, sul proprio circolo virtuoso, piccolo o grande che sia. Il fatto che oggi abbiano voce udibile categorie di persone che prima, di fatto, non ce l’avevano, è una grandissima novità foriera di possibilità altrettanto grandi, seppure scomoda e difficilmente “canalizzabile”. Riprendiamo, allora, la famosa frase di Umberto Eco, ma modifichiamola leggermente: “I social media danno diritto di parola a legioni di persone che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messe a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione delle persone“.
Prendiamola come un’opportunità, non come un problema.