Limitandoci a considerare, per ovvi motivi, i paesi a democrazia liberale, sembrano ormai maturi i tempi per interventi normativi tesi ad arginare il dilagare di contenuti “inappropriati” (eufemismo) sulle piattaforme social.
È annoso il dibattito tra gli assertori della libertà d’espressione senza limiti, e coloro che, sposando un’impostazione più europea al problema, propendono per una sua versione più elastica, in ogni caso cedevole rispetto a diritti di pari rango ed importanza.
E se l’UE, seguendo un consolidato indirizzo dottrinale, normativo e giurisprudenziale dei paesi membri (quelli di democrazia liberale assestata, non certo i “Visegrad”), ha avviato da tempo l’iter per una regolamentazione complessiva – con il GDPR in vigore da qualche anno, il Digital services act e il Digital markets act in corso di esame – anche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Australia il dibattito è in itinere.
Regolamentazione dei contenuti social: come si muovono Ue e Usa
In particolare, in Europa, giusto qualche giorno addietro la commissaria europea per la concorrenza Margrethe Vestager è intervenuta per sollecitare il Parlamento e il Consiglio europeo, dopo che una bozza di DMA è stata approvata in Commissione, a sostenere le due proposte di regolamento affinché si giunga alla loro emanazione in tempi ragionevoli. “È importante che tutti si rendano conto che è meglio ottenere l’80% ora che il 100% mai”, ha affermato Vestager. E i suoi timori vanno condivisi, viste le ingenti somme che le Big Tech stanno investendo nelle attività di lobby, al di là dell’Atlantico ma anche da questa parte dell’oceano.
Negli Stati Uniti, in questo primo scorcio di dicembre sono previste audizioni presso il Comitato per l’energia e il commercio della Camera dei Rappresentanti per esaminare e “ricalibrare lo scudo di responsabilità della Sezione 230 e migliorare la trasparenza, promuovere la sicurezza online e responsabilizzare Big Tech”. Tra l’altro, a distanza di qualche mese dalla prima, clamorosa, sortita pubblica, Frances Haugen – la cosiddetta talpa di Facebook – tornerà a parlare ai legislatori che l’hanno convocata appunto per un confronto sul tema.
Il loro compito non è facile.
Il comma 230, all’origine della fortuna delle Big Tech
C’è da scalare la montagna della famosa Sezione 230, un comma del Communications Decency Act del 1996, che così recita: “Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”.
È opinione diffusa che vi sia proprio questo comma, di due righe appena, all’origine della fortuna di molti dei paperoni della rete. La 230 di fatto sancisce che le piattaforme non sono responsabili di ciò che viene pubblicato da altri su di esse. Non solo: dà anche alle società che le gestiscono ampia discrezione nel modo in cui moderano i post e gli altri contenuti. Ma da dove ha origine questa regola? Lo ricorda Jeff Kosseff nel suo “26 words that created the Internet”. In California, nel 1956, un libraio vende un libretto erotico a due agenti sotto copertura. Viene denunciato e portato in tribunale perché ritenuto colpevole di diffusione di materiale osceno. In tribunale la sua difesa è: “Io quel libro non l’ho mai letto, non sapevo di che trattasse, come non so di cosa trattano centinaia di libri nel mio negozio”.
Viene assolto, e il principio stabilito: chi distribuisce contenuti non ha responsabilità sui contenuti stessi, altrimenti si violerebbe il primo emendamento della Costituzione americana oltre ad arrecare un notevole danno economico all’indotto dell’editoria.
Gli Usa sulla scia dell’Europa
Da allora è cambiato un po’ tutto, ma il principio che regola i distributori di contenuti di terze parti è tutto sommato lo stesso, anche oggi che sono per lo più digitali. Ed è lo stesso principio che finora ha regolato i social. Ora sembra che il Parlamento voglia fare sul serio, prendendo esplicitamente a modello, nelle dichiarazioni di molti politici e commentatori americani, il modello europeo.
Il Comitato per l’energia e il commercio focalizzerà la sua attenzione su progetti di legge presentati dai suoi membri, tra i quali quelli che riguardano l’amplificazione algoritmica, le violazioni dei diritti civili e la pubblicità digitale. Affinché possano aspirare ad arrivare fino in fondo, è necessario comunque che i progetti godano di un consenso bipartisan, in particolare al Senato, dove la maggioranza richiesta è più elevata e le elezioni di midterm potrebbero alterare i rapporti di forza a vantaggio dei Repubblicani. Al momento, il sostegno potrebbe essere ampio per una normativa che intervenga su contenuti che abbiano a che fare col terrorismo, le droghe illegali, lo sfruttamento minorile e il cyberbullismo. L’EARN IT Act, per esempio, è uno dei progetti con maggiori chances: è uscito all’unanimità dalla commissione al Senato e ha raccolto adesioni della Camera.
L’approccio australiano
Veniamo all’Australia, caso significativo in quanto la Confederazione ha da tempo ingaggiato una serie di dispute con le grandi aziende della Silicon Valley. Un antefatto che ha dato un ulteriore spinta verso il proposto intervento normativo presentato dal premier Scott Morrison, ha a che fare con noi italiani, andiamo a scoprire il perché.
A maggio, John Barilaro, allora vicepremier del New South Wales, ha citato in giudizio uno YouTuber per diffamazione, sostenendo che due suoi video suggerivano che fosse corrotto, spergiuro e ricattatore. Inoltre, lo stesso soggetto aveva manifestato idee razziste nei confronti del politico di origini italiane, definendolo “truffatore fino al midollo, alimentato dagli spaghetti”.
Il caso è stato risolto in via stragiudiziale, con le scuse, il pagamento di 100.000 dollari di spese processuali da parte dell’ideatore dei video, e la rimozione degli stessi dalla piattaforma.
Un’altra vicenda, conclusasi in questi giorni, ha visto quale protagonista l’attuale Ministro della Difesa della Confederazione, Peter Dutton. Questi ha intentato un’azione nei confronti di un soggetto autore di tweet (con la spunta blu del social media) nel quale veniva definito un “apologista dello stupro”, ciò in quanto l’allora Ministro degli Interni Dutton aveva dichiarato che le donne in cerca di asilo in Australia avevano usato le richieste di stupro come pretesto per ottenerlo.
Il giudice Richard White ha stabilito che il tweet era stato, in effetti, diffamatorio – riconoscendo al Ministro 35mila dollari di danni – e ha anche respinto la difesa del soggetto chiamato in causa, secondo la quale egli si era limitato a esprimere la sua onesta opinione, affermando che le dichiarazioni del Ministro non potevano far dedurre che egli giustificasse lo stupro.
Critici ed esperti hanno affermato che il caso giudiziario ha accelerato l’approccio del governo alla regolamentazione dei commenti dannosi sui social media, e che ha anche rappresentato un cambiamento preoccupante in quanto i politici saranno incentivati a intentare più azioni legali contro i cittadini.
C’è da sottolineare, a mio avviso, tuttavia, che l’intento intimidatorio ravvisabile nell’azione del politico che querela per diffamazione il giornalista non è assolutamente assimilabile alla pubblicazione di contenuti offensivi, o peggio, da parte di privati cittadini sulle piattaforme social. Dal punto di vista soggettivo e oggettivo. Nel primo caso si tratta, evidentemente, del lavoro di un professionista cui è demandato il compito di fare da “cane da guardia” del potere, e di articoli realizzati quando sussiste l’interesse del pubblico a essere informato. Solo in casi estremi il Giudice terzo può eventualmente intervenire per verificare se tali elementi sono sussistenti o meno.
In ogni caso, le vicende narrate hanno senz’altro contribuito a determinare il recente passo del primo ministro australiano, il quale, tra l’altro, aveva promesso esplicitamente, nell’ottobre scorso, che il governo avrebbe fatto di più per ritenere responsabili i giganti dei social media, accompagnando la promessa con una dichiarazione abbastanza forte e cruda: “I social media sono diventati un palazzo dei codardi, dove le persone possono semplicemente andare lì, senza dire chi sono, distruggere la vita delle persone e dire le cose più disgustose e offensive alle persone e farlo impunemente”.
Il piano del premier australiano
Scott Morrison, Premier australiano, ha illustrato giorni fa il suo piano: verrà approvata una legge per rendere le società di social media responsabili dei commenti diffamatori pubblicati sulle loro piattaforme e per smascherare le persone che scrivono commenti offensivi online, ciò richiedendo alle piattaforme social di rivelare i loro dettagli, ad esempio indirizzo e-mail o numero di cellulare, quando viene presentato un reclamo.
In sostanza, esse dovrebbero istituire sistemi di reclamo per consentire al soggetto che si ritiene diffamato di chiedere a chi ha postato il contenuto di rimuoverlo. Se quest’ultimo non ottempera, o se il reclamante vuole ricorrere al giudice, la società di social media chiede alla persona che ha postato il contenuto il consenso a fornire le proprie informazioni personali al reclamante. Se ciò non avviene, potrà essere adito il giudice, il quale avrà il potere di ordinare alla società di social media di rilasciare le informazioni.
La proposta di legge arriva dopo che la più alta corte australiana ha stabilito che le organizzazioni che diffondono notizie sono legalmente responsabili per i commenti sulle loro pagine Facebook.
Secondo il tribunale, le società di media sono responsabili di qualsiasi contenuto diffamatorio che appare sulle loro pagine perché vanno considerate editori dei commenti.
Conclusioni
Per concludere, appare oramai chiaro che ci si sta muovendo su un percorso già tracciato. La potenza di Big Tech ha finalmente smosso i poteri statuali, sotto il profilo della responsabilità sui contenuti ma anche per ciò che concerne la necessità di mettere un freno all’oligopolio e di favorire la concorrenza in un settore nel quale essa è, fin dagli albori, completamente assente. C’è da sperare che questa sia la volta buona.