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Social, tutti i reati che rischiamo di fare con post offensivi: la guida

I principali rischi penalistici e i provvedimenti giurisprudenziali più recenti collegati alla pubblicazione di contenuti offensivi sui social network, in particolare su Facebook

Pubblicato il 11 Ott 2019

Ilenia Alagna

Data protection Specialist, Cultrice della materia in Informatica giuridica presso l’Università Statale Milano

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I reati che ledono e offendono l’altrui reputazione stanno conoscendo una vera e propria esplosione grazie ai social network; in particolare, il reato di diffamazione attraverso il web, posto l’evidente carattere di diffusività delle notizie pubblicate tramite strumenti informatici, è qualificabile come diffamazione aggravata. 

Ma, come vedremo, non è questo l’unico reato legato alla pubblicazione (o anche al semplice commento) di un post offensivo.

Posto quindi, che le società fornitrici di servizi di comunicazione elettronica non sono responsabili dei contenuti, offensivi e diffamatori, immessi sui loro server in quanto ritenuti meri soggetti passivi e neutrali, vediamo quali sono i principali reati collegati alla pubblicazione di vari contenuti offensivi sui Social network e i più recenti provvedimenti giurisprudenziali risolutivi sul tema.

I social network e i principali reati aventi contenuto diffamatorio

Mediante i Social network e il web in generale sono sempre più diffusi i reati che ledono e offendono l’altrui reputazione. In particolare, la consumazione del reato di diffamazione attraverso il Web è qualificabile come diffamazione aggravata e, pertanto, qualsiasi immissione di contenuti di carattere diffamatorio che colpisca l’immagine e la reputazione di una persona è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore a euro 516.

Per la configurabilità del reato di diffamazione, la Suprema Corte nella propria giurisprudenza, ha, da tempo, manifestato la convinzione di poter includere nel riferimento a “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” anche gli strumenti telematici, qualificando pertanto come “aggravata” la diffamazione avvenuta tramite Internet (art. 595 comma 3 c.p.).

La pubblicazione di un post offensivo sul proprio profilo Facebook integra il reato di diffamazione aggravata, in quanto l’utilizzo del Social network consente di diffondere e rendere pubblica l’espressione denigratoria tra un gruppo di persone indeterminato. Tale Provvedimento, deciso dal Tribunale di Campobasso, ha fatto proprio l’orientamento della Corte di Cassazione del 2004 in tema di diffamazione il quale affermava che: mediante lo strumento del social network “la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica” (Sentenza n.396 del 2 ottobre 2017).

Anche una pronuncia della Corte di Cassazione penale, sez. V, 23/01/2017, n. 8482 stabilì che la pubblicazione di un messaggio diffamatorio sulla bacheca Facebook con l’attribuzione di un fatto determinato configura il reato di cui all’art. 595, commi 2 e 3, c.p. ed è inclusa nella tipologia di qualsiasi altro mezzo di pubblicità e non nella diversa ipotesi del mezzo della stampa giustapposta dal Legislatore nel medesimo comma. Deve, infatti, tenersi distinta l’area dell’informazione di tipo professionale, diffusa per il tramite di una testata giornalistica online, dall’ambito, più vasto ed eterogeneo, della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo. In caso di diffamazione mediante l’utilizzo di un social network, non è dunque applicabile la disciplina prevista dalla l. n. 47 del 1948, ed in particolare, l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 13.

Per quanto concerne l’accertamento del contenuto diffamatorio via Internet, valgono le regole generali predisposte per la diffamazione a mezzo stampa e, tra queste, suscitano interesse particolare le scriminanti del diritto di cronaca, di critica e di satira, oltre al riferimento ai canoni della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Il diritto alla libertà d’espressione dev’essere, quindi, mitigato con altri diritti, anch’essi di rango costituzionale, quali quello all’onore e alla reputazione, nel rispetto dei parametri di correttezza dell’informazione dettati per la diffusione di notizie a mezzo stampa.

La diffamazione rientra nel novero dei “reati di evento” e si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa. Inoltre, come stabilito in una pronuncia della Corte di Cassazione, il post si considera diffamatorio anche quando non indica esplicitamente il nome della vittima ma è sufficiente che questa sia facilmente riconoscibile e individuabile dalla collettività. Tuttavia è fondamentale che la persona offesa sia precisa nelle accuse così come la frase offensiva, l’autore e gli estremi del profilo dal quale è avvenuta la pubblicazione (Corte di Cassazione, n.25420/2017).

Facebook: luogo privato o pubblico?

Il diritto alla riservatezza, e quindi la pretesa che i terzi non vengano a conoscenza di informazioni contenenti dati personali o che li divulghino a terzi, va coordinato con le regole e con le caratteristiche del sistema informatico e con la sua stessa natura di sistema aperto o chiuso. Al fine di mantenere riservata una comunicazione, la stessa deve essere formulata da un soggetto con l’obiettivo di giungere ad una cerchia ristretta e determinata di destinatari.

Il Consiglio di Stato, nella Sentenza 3 dicembre 2013 del 21 febbraio 2014, n.848, avente ad oggetto il caso di un dipendente delle forze dell’ordine sanzionato dall’amministrazione per aver tenuto un profilo di carattere omoerotico in un social network, al quesito relativo ai Social Network da intendersi come luogo privato o pubblico, si è in tal modo pronunciato, assolvendo il dipendente: “non può ritenersi “pubblica” la foto inserita nel profilo di un social-network, non immediatamente visibile a chiunque, ma accessibile tramite alcune specifiche operazioni e, in particolare, se lo sia la foto accessibile solo tramite autorizzazione del titolare del profilo”.

I giudici del Tribunale del di Campobasso hanno affrontato un caso relativo alla configurabilità del reato di diffamazione su Facebook quand’anche il post offensivo lede la reputazione altrui. I giudici hanno stabilito che pubblicare un post offensivo sul proprio profilo Facebook integra il reato di diffamazione aggravata, poiché l’utilizzo del Social network consente di pubblicizzare e diffondere l’espressione denigratoria tra un gruppo di persone apprezzabile per composizione numerica. Tale fattispecie di reato scatta anche nei confronti di chi si limita a pubblicare un commento offensivo al post diffamatorio, poiché in tal modo si determina una maggior diminuzione della reputazione della persona offesa nella considerazione dei consociati. (Sentenza n.396 del 2 ottobre 2017, Tribunale di Campobasso, Sezione penale).

Ci si chiede se nella consumazione del reato di diffamazione possono concorrere commenti e like di amici sul post diffamatorio su Facebook. I giudici hanno ritenuto responsabili per diffamazione aggravata sia l’autore del post che due dei suoi amici virtuali, colpevoli di aver commentato in maniera offensiva un post altrui. Secondo i giudici, in tal modo, si determina una maggior diminuzione della reputazione della persona offesa nella considerazione dei consociati. Per quanto concerne la posizione dei due imputati (amici virtuali), i quali si sono “limitati” a commentare il post del teste, il giudice ricorda che “la reputazione di una persona che per taluni aspetti sia già stata compromessa può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggior diminuzione della reputazione della nella considerazione dei consociati”.

Per il giudice nulla cambia sul piano dell’offesa al bene giuridico tutelato se l’espressione diffamatoria sia contenuta nel post principale o nei commenti ad esso sottostante: la nitidezza, la volgarità e la disinvoltura delle frasi utilizzate da tutti gli imputati nell’esprimere le proprie considerazioni nei confronti del giudice e della sua categoria professionale, nonché la pubblicazione delle stesse frasi sul social network, con ampia portata diffusiva, sono elementi che confermano la volontà degli stessi imputati di “denigrare agli occhi dell’intera platea virtuale di utenti Facebook la reputazione della vittima.

Nel caso prospettato il giudice ha condannato i tre soggetti dopo aver accertato sia che i profili fossero effettivamente associabili agli autori dei commenti sia che le espressioni denigratorie fossero riferite al giudice del processo nel quale l’autore del post era chiamato a testimoniare. L’ipotesi di reato in questione presuppone un’offesa a una persona determinata e individuabile.

Per la condanna non è sufficiente attribuire rilievo alla provenienza del post da un profilo Facebook intestato ad un utente qualsiasi bensì accertare l’indirizzo IP dell’autore di un post. Secondo la Corte di Cassazione, se manca l’accertamento dell’indirizzo IP non può scattare la condanna per diffamazione sul web. Inoltre l’autore del post aveva fatto riferimento alla vicenda che lo riguardava ed esplicitato il nome ed il cognome della persona offesa.

Con il Provvedimento n.396 del 2 ottobre 2017 il Tribunale ha riconosciuto nei confronti degli imputati l’aggravante prevista dal terzo comma dell’art. 595 c.p. (oltre che quella di cui al comma 4) posto che la diffamazione tramite Internet costituisce un’ipotesi di diffamazione aggravata in quanto commessa con ulteriore mezzo di pubblicità (rispetto alla stampa). La rilevanza penale della condotta dei due “amici” non poteva escludersi dalla circostanza che questi si erano “limitati” ad aggiungere al post da altri pubblicato un mero commento successivo poi subito rimosso; il reato, infatti, era già stato consumato. (Sentenza Cass. Pen. 396 del 2 ottobre 2017).

Ulteriori reati consumabili via social

Mediante l’utilizzo di Facebook, oltre alla diffamazione, possono consumarsi ulteriori reati quali, ad esempio, l’oltraggio a Pubblico Ufficiale attraverso l’utilizzo di un Social Network. I giudici del Tribunale di Pavia hanno, infatti, deciso un caso avente ad oggetto la condotta di un soggetto che si rivolge all’Ufficiale dell’Anagrafe con epiteti offensivi, quali “maleducato” ed “ignorante”. Tale comportamento integra gli estremi dell’oltraggio a pubblico ufficiale, poiché il responsabile dell’ufficio anagrafe, nell’esercizio delle proprie funzioni, riveste la qualifica di pubblico ufficiale. Il soggetto risponde altresì di diffamazione aggravata, poiché la diffusione del messaggio diffamatorio è avvenuta mediante Facebook, capace, come già anticipato, di raggiungere un numero indeterminato o quantitativamente apprezzabile di soggetti. (Sentenza n. 468/19, Tribunale di Pavia, sez. III Civile, depositata il 14 marzo 2019).

Il giudice può disporre il sequestro preventivo di gruppi Facebook con oscuramento dei profili sulla pagina web se ritenga che vi sia il pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato o di agevolazione dello stesso. Nel caso di specie, si trattava del reato di diffamazione aggravata e minaccia grave nei confronti di una giornalista da parte di alcuni soggetti in concorso con gli amministratori e/o i partecipanti che hanno postato i messaggi tramite profilo Facebook ” Musulmani d’Italia – gruppo chiuso ” e “Musulmani d’Italia Comunità” (Ufficio Indagini preliminari Reggio Emilia, 08/03/2016).

Il reato di diffamazione punisce il soggetto agente con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032 chiunque comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.

Un recente Provvedimento della Corte di Cassazione stabilisce che integra il reato di diffamazione la pubblicazione di post sui presunti costumi sessuali di terze persone quando le espressioni lesive non sono scriminate dall’esercizio del diritto di critica. A tal proposito, nel Provvedimento n. 33495/2019 la Cassazione penale ha stabilito, seppur i giudici dei precedenti gradi di giudizio avessero comminato la pena detentiva per coloro che pubblicarono i suddetti post, che la sussistenza del reato di diffamazione aggravata non legittima la pena detentiva, applicabile solo come extrema ratio.

La competenza a giudicare e il ruolo degli internet service provider

È del tribunale penale la competenza a giudicare la condotta consistente nella diffusione di messaggi offensivi e minatori attraverso il social network Facebook, configurando i reati di minacce e diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3 c.p. (Cassazione penale, sez. I, 02/12/2016, n. 50).

A tal proposito appare interessante un richiamo alla direttiva sul commercio elettronico dell’Unione Europea 2000/31/CE (D. Lgs. 70/2003), la quale stabilisce che le società fornitrici di servizi di comunicazione elettronica (provider) non sono responsabili dei contenuti, offensivi e diffamatori, immessi sui loro server; questi, infatti, sono ritenuti meri soggetti passivi e neutrali. Non altrettanto i gestori dei siti, che devono prestare la massima attenzione per evitare di essere ritenuti responsabili. I portali traggono profitto anche dalla pluralità dei commenti, dovendo impedire che gli stessi, specie se anonimi, si moltiplichino ingiustificatamente.

Il prestatore dei servizi è civilmente responsabile del contenuto di questi nel caso in cui, su richiesta dall’autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l’accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l’accesso, non ha provveduto ad informarne l’Autorità competente.

Pare altresì opportuno citare la Sentenza CEDU, Grande Camera 16 giugno 2015, Delfi AS c. Estonia, secondo la quale il quotidiano online può essere responsabile per i post offensivi inseriti dai lettori; le sanzioni pecuniarie comminate sono considerate di modesto importo rispetto ai commenti gravemente offensivi apparsi sulle sue pagine.

In conclusione si riporta il parere reso dall’Avvocato Generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in data 4 giugno 2019 nell’ambito della causa C-18/18.

L’Avvocato Generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, prendendo posizione su alcune questioni pregiudiziali poste dalla Corte Suprema austriaca, in riferimento ad un contenzioso avente ad oggetto espressioni diffamatorie pubblicate da un utente su Facebook nei confronti del presidente del gruppo parlamentare Die Grünen («i Verdi»), quali «brutta traditrice del popolo «imbecille corrotta» e membro di un «partito di fascisti», ha chiarito la portata dell’obbligo di sorveglianza gravante sugli hosting provider. In particolare, pur ricordando che tale norma impedisce che un prestatore intermediario possa essere costretto a procedere ad una generale sorveglianza della totalità o della quasi totalità dei dati di tutti gli utenti del suo servizio al fine di prevenire qualsiasi violazione futura, l’Avvocato generale ha precisato che l’articolo in questione non riguarda obblighi di sorveglianza previsti in casi specifici dalla medesima direttiva, disposti al fine di impedire ulteriori danni agli interessi in causa.

Ne consegue che obblighi di sorveglianza attiva ben possono essere imposti al gestore di un social network, a condizione che siano riferibili ad una data violazione, che sia specificata la durata di tale sorveglianza e che siano fornite indicazioni in merito alla natura delle violazioni considerate, il loro autore e il loro oggetto. Quindi, nell’ambito di un’ingiunzione, il provider può essere tenuto a ricercare e ad individuare, fra tutte le informazioni diffuse dagli utenti di tale piattaforma le informazioni identiche a quella qualificata come illecita dal giudice che ha emesso un’ingiunzione (in quanto la riproduzione dello stesso contenuto da parte di tutti gli utenti di una piattaforma di rete sociale è rilevabile, di norma, con l’ausilio di strumenti informatici, senza che il provider sia obbligato a ricorrere ad un filtraggio attivo e non automatico della totalità delle informazioni). Nell’ambito di una siffatta ingiunzione, un provider di servizi di hosting potrà allora essere costretto a ricercare e ad individuare le informazioni equivalenti a quella qualificata come illecita soltanto fra informazioni diffuse dal medesimo utente che ha divulgato tale informazione.

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