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Sociologia digitale: a che serve e perché ne abbiamo tanto bisogno

Cosa vuol dire imparare, avere dei diritti, lavorare, godere della cultura in mondo sociale completamente immerso in un contesto digitale? Se viviamo in una società digitale, allora abbiamo bisogno di una sociologia digitale per capire come prendano forma i nuovi processi sociali, dai diritti dei rider all’NFT

Pubblicato il 07 Mag 2021

Davide Bennato

professore di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania

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Nel dibattito delle scienze sociali contemporanee, sta prendendo sempre maggiore visibilità un concetto relativamente nuovo che si presenta come un paradigma molto interessante per collocare il contesto di lavoro delle discipline dell’uomo: la sociologia digitale.

Il termine ufficialmente comincia a essere usato nel 2009, ma diventa un elemento chiave dell’orientamento sociologico internazionale nel 2013 quando si comincia a sentire l’esigenza di convegni dedicati, volumi specifici e linee di ricerca sostanzialmente nuove.

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Descritto in questo modo potrebbe sembrare un nuovo assetto della sociologia contemporanea e in quanto tale di specifico interesse del mondo accademico che si confronta con strumenti e concetti nuovi, spesso oscuri e poco interessanti per la maggior parte delle persone.

Pur essendo un orientamento importante della ricerca contemporanea, la sociologia digitale è un ambito che molto avrebbe da dire su come affrontare alcuni problemi contemporanei e su come gestire alcuni processi che hanno mostrato quanto sia obsoleto usare i modelli cognitivi che abbiamo avuto in eredità dal XX e dal XXI secolo.

Quindi prosaicamente la domanda diventa: a che serve la sociologia digitale?

La sociologia applicata al mondo digitale

Come tutti gli argomenti complessi, anche questo ha bisogno di una sua contestualizzazione. Uno dei punti di partenza della sociologia digitale è considerare il XXI secolo una frattura rispetto ai secoli precedenti. I processi sociali (e i linguaggi) sono rimasti sostanzialmente gli stessi – identità, famiglia, gruppi, relazioni, istituzioni e così via – quello che è cambiato è il contesto in cui applicare questi concetti, e questo contesto è il mondo digitale. Il XXI secolo ha introdotto nella vita collettiva una nuova sfera sociale rappresentata dai social media, una nuova serie di tecnologie – algoritmi e dispositivi dell’intelligenza artificiale – e una nuova famiglia di processi sociali nata dall’interazione fra questi elementi. Un esempio per tutti: le echo chamber, frutto dell’interazione fra processi comunicativi che avvengono nei social media e gli algoritmi di suggerimento dei contenuti. Lo scopo della sociologia digitale è capire come prendano forma i processi sociali all’interno dello spazio socio-digitale, analizzandone le conseguenze a livello micro e macro sociale anche con l’uso di specifiche strategie di ricerca che ricorrono strumenti computazionali (big data, tra gli altri).

Una volta definito il campo di azione della sociologia digitale, è relativamente facile descrivere in che contesti può essere applicata. Provo a fare un excursus assolutamente personale e arbitrario, solo per descrivere che tipo di contributo la sociologia digitale potrebbe dare ai tempi che stiamo vivendo.

Piattaforme digitali e diritti

Cominciamo con il tema dei diritti, tema che nella cronaca recente ha preso la forma della tutela dei rider. Il tema chiave della sociologia digitale in questo campo è come proteggere i diritti delle persone dallo strapotere delle piattaforme tecnologiche? Il tema dal punto di vista tecnico è appannaggio del diritto, ma la domanda riguarda anche le forme di rappresentanza. Consideriamo il caso dei rider. La soluzione che è stata adottata è che vengano a essere assunti come lavoratori autonomi in una situazione lavorativa definita dalle piattaforme (Uber, Justeat, Glovo, per citarne alcune). Questa è una soluzione piuttosto classica, far rientrare il lavoratore all’interno delle maglie definite dal datore di lavoro attraverso diritti tutelati. La questione è che non tutte le situazioni in cui processi lavorativi sono gestiti da piattaforme possono essere ricondotti a fattispecie lavorative precedenti. Una delle soluzioni possibili avrebbe potuto essere una contrattazione sindacale di tipo computazionale: ovvero se è una piattaforma digitale che decide i processi lavorativi del rider, avrebbe potuto essere una piattaforma digitale a gestire i diritti esercitati dallo stesso rider senza abbandonarlo nelle more del datore di lavoro-piattaforma. Detto con una battuta: se il capitalista è una app, il sindacalista dovrebbe essere una app.

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La formazione nel mondo digitale

Consideriamo invece la questione della formazione: secondo un approccio di sociologia digitale il tema centrale potrebbe essere come e cosa conoscere in un mondo digitale. Il tema della formazione in un mondo digitale, al momento, si sta concentrando intorno alla didattica a distanza (DAD) e la domanda intorno al quale si sta polarizzando il dibattito è DAD si oppure DAD no. È palese la povertà intellettuale di questa domanda che porta con sé anche atteggiamenti conservatori atti a sostenere la presunta superiorità della didattica in presenza. Le domande al centro del ragionamento dovrebbero essere ben altre: cosa devono conoscere i ragazzi per essere cittadini del XXI secolo? Come devono imparare le giovani generazioni per evitare che la propria formazione diventi obsoleta? Posta in questi termini la questione non è più se i ragazzi devono imparare il coding oppure no, ma che caratteristiche devono avere curricula che si credono ormai definiti. Faccio un esempio volutamente eccentrico: consideriamo i programmi di chimica dei licei. A causa di un pernicioso mix di marketing e disinformazione, in rete circolano alcune panzane su usi e conseguenze dei prodotti chimici che costellano la nostra vita quotidiana, dalla presunta pericolosità dell’olio di palma all’incapacità di comprendere i reali rischi di un vaccino. Un curriculum di chimica da cittadino del XXI secolo dovrebbe sicuramente dare le nozioni per capire il funzionamento delle sostanze e dei reagenti, ma dovrebbe anche insegnare come valutare il rischio di un farmaco o di un prodotto, e come cercare le fonti attendibili per avere informazioni precise sulle sostanze chimiche. La Media Education è da tanto tempo che si interroga sull’importanza di strumenti mediali e digitali per l’apprendimento al passo coi tempi ed ha messo a punto sofisticato framework concettuali: che tutto questo si traduca in DAD si e DAD no è quantomeno svilente.

Ho fatto solo alcuni esempi che riguardano la vita quotidiana di ciascuno di noi – i rider, la scuola – ma si potrebbe estendere la prospettiva della sociologia digitale a ogni settore.

Sociologia digitale applicata a economia, cultura e politica

Per esempio la politica. Uno dei temi è come proteggere il processo democratico dall’attacco delle piattaforme: una domanda più concreta è fino a che punto è legittimo che un politico usi spregiudicatamente le capacità di comunicazione permesse dalle piattaforme e di contro fino a che punto è legittimo che le piattaforme silenzino un politico? Oppure l’economia. Qui uno dei temi è come produrre valore economico in un mondo di stakeholder frammentati e marketplace digitali. Esempio, i content creator: chi sono, cosa fanno e che caratteristiche hanno i creatori di contenuti delle piattaforme (Youtuber, Tiktoker, podcaster, streamer, gamer)? Come possono tutelare la propria attività lavorativa dallo strapotere delle piattaforme e dagli algoritmi di visualizzazione e monetizzazione? Oppure la cultura. Uno dei temi possibili è: quali sono le forme culturali per capire il mondo di oggi? Esempio: il mercato degli NFT, è solo speculazione oppure è un modo diverso di istituzionalizzare la produzione artistica digitale che ha forme e modi diversi dall’arte del XX secolo? Altra domanda: come garantire la fruizione culturale in un periodo di pandemia globale? Bastano le piattaforme digitali nazionalizzate – una sorta di Netflix – oppure c’è bisogno di un sistema diverso?

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Conclusioni

Come si vede sono tutte domande che alla loro base hanno un’idea molto forte: cosa vuol dire imparare, avere dei diritti, lavorare, godere della cultura in mondo sociale completamente immerso in un contesto digitale. Se viviamo in una società digitale, allora abbiamo bisogno di una sociologia digitale.

La sociologia è nata in un momento in cui i modelli sociali del XVIII secolo erano diventati obsoleti, e i modelli sociali del XIX secolo stentavano a imporsi ed essere riconosciuti. Allo stesso modo la sociologia digitale sta prendendo piede in un mondo che è sempre più complesso e sempre più bisognoso di risposte che diano conto di questa complessità.

Cinicamente possiamo ricordare che, chi per prima comprese le novità di alcuni aspetti della modernità furono i totalitarismi del XX secolo. Nel XXI secolo questo è uno scenario che non possiamo permetterci.

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