Che la consapevolezza digitale sia un elemento essenziale per poter esercitare pienamente i diritti di cittadinanza e poter svolgere un ruolo proattivo e da protagonisti credo sia difficile ormai da discutere. Allo stesso modo, come mostra ad esempio il Digital Society Index elaborato da Dentsu Aegis Network, c’è una correlazione forte tra la consapevolezza digitale della popolazione (quindi: l’adeguatezza delle sue competenze digitali) e l’impiego efficace delle tecnologie digitali nel senso del miglioramento sociale e dello sviluppo economico.
Il Digital Society Index
Quanto maggiore è la divaricazione tra chi riesce a utilizzare consapevolmente le tecnologie e chi al massimo ne è consumatore quanto più radicale diventa la frattura sociale tra chi può partecipare direttamente allo sviluppo socio-economico e chi invece ha bisogno di intermediazioni anche soltanto per evitare l’esclusione sociale. E la sensazione di questi ultimi è che l’evoluzione tecnologica stia andando “troppo veloce” e le sue trasformazioni troppo rapide per poter essere comprese e assimilate.
Secondo il recente studio di Dentsu Aegis Network condotto nell’ambito dell’elaborazione del Digital Society Index, in collaborazione con Oxford Economics e con il coinvolgimento di 43mila persone su 24 Paesi, oltre la metà degli intervistati valuta il ritmo dell’evoluzione tecnologica “troppo veloce”, con dei picchi di oltre l’80% in Cina, Brasile e India, e il 54% dell’Italia. Troppo veloce, nell’ambito di un percorso che non prevede adeguato accompagnamento, dato che in nessuno dei Paesi coinvolti nello studio gli intervistati evidenziano attività di formazione e supporto adeguate per lo sviluppo delle competenze digitali.
La logica di analisi è quella del “consumatore nella società digitale” e obiettivo dello studio è di fornire soprattutto dei suggerimenti per le aziende che vogliano incrementare la vendita di prodotti e servizi digitali. Sono quindi significative due evidenze, per nulla scontate, che emergono dalle rilevazioni:
sta aumentando in modo significativo, soprattutto tra i “nativi digitali”, la messa in atto di azioni di gestione consapevole del proprio spazio online. Si riduce la quantità di dati lasciati in condivisione, aumenta l’uso dei blocchi sulle pubblicità, si riduce il tempo passato online, aumentano gli abbandoni dei social;
chi mette in atto azioni di maggiore consapevolezza digitale è maggiormente disponibile alla fruizione e all’acquisto di prodotti e servizi digitali (nella misura di oltre il 10%) di chi invece si mostra più indifeso nella presenza online.
Il cambiamento che si richiede alle aziende è quindi di passare da una logica di massimo sfruttamento delle condizioni di impreparazione o inconsapevolezza digitale della popolazione a quella di piena partecipazione alle azioni dirette all’accrescimento della consapevolezza digitale, così da essere in grado di coinvolgere attivamente persone consapevoli. Questo significa abbandonare anche l’idea che sia la dipendenza digitale la migliore condizione per l’accrescimento del business.
In particolare, lo studio evidenzia la connessione tra quella che viene definita la “piramide di Maslow dei bisogni digitali” e le componenti che sono indicate come costituenti del “Digital Social Index” e quindi dell’evoluzione sociale digitale: dinamismo del settore ICT, livello di inclusione digitale e accesso della popolazione, fiducia nel sistema digitale.
Tutte queste componenti sono fondamentali perché si possano soddisfare i “bisogni digitali” di una popolazione, dai bisogni “di base” (accesso ai servizi) a quelli psicologici (relazioni, qualità della vita), a quelli di auto-realizzazione (con il pieno impiego delle proprie competenze), a quelli sociali (soddisfatti se si coniugano sviluppo digitale e miglioramento sociale).
In Italia la più bassa performance tra le componenti dell’indice è relativa al livello di inclusione (il che porta il nostro Paese a valori inferiori a quelli attribuiti a diversi Paesi europei, come l’Ungheria), e la conseguenza è che solo il 41% del campione dichiara che i propri fabbisogni digitali di base sono soddisfatti (peggiore percentuale insieme alla Francia tra i paesi UE) e solo il 40% che sono soddisfatti i bisogni di autorealizzazione (in posizione medio-bassa tra i paesi UE). D’altra parte la valutazione sulla soddisfazione sui bisogni psicologici (41%) e sui bisogni di miglioramento sociale (50%) sono più alti della media dei Paesi considerati, denotando un sostanziale ottimismo nell’influenza positiva del digitale sulla società e sulla qualità della vita.
In generale, dallo studio emerge che la consapevolezza digitale è ancora poco diffusa nella popolazione e, soprattutto nei giovani, la sovraesposizione al digitale rimane così elevata da indurre azioni di “disintossicazione” come opportune per bilanciare anche il forte e diffuso senso di insoddisfazione rispetto ai “bisogni psicologici”.
Sono interessanti, su questa linea, le raccomandazioni verso i governi, inserite nello studio: sviluppare un sistema di balanced scorecard sull’evoluzione digitale (così da correlare e monitorare strategia e attuazione), far sì che la popolazione abbia più strumenti per il controllo dell’innovazione digitale (ad esempio attraverso il controllo dell’uso dei propri dati come in Spagna con DECODE), creare un sistema che favorisca tutte le persone nello sviluppo e nell’aggiornamento delle competenze (digitali) nel corso della propria vita.
Il rapporto Excelsior
Se dallo studio di Dentsu Aegis emerge che il 53% di lavoratori italiani con elevate competenze digitali ritiene che queste non sono utilizzate adeguatamente nelle attività lavorative, dallo studio Excelsior realizzato da Unioncamere e commissionato da Anpal viene evidenziato come il possesso di adeguate competenze digitali sia sempre più richiesto in modo diffuso e le competenze specialistiche STEM siano quelle di più difficile reperibilità. Evidenze complementari di una carenza strutturale.
In particolare, secondo lo studio Excelsior “del milione e 267mila contratti per i quali le imprese si sono dette orientate preferibilmente verso gli under 30, il 28% è ritenuto non facile da trovare, con punte del 62% per gli specialisti in scienze informatiche, fisiche e chimiche, del 45% per i tecnici in campo informatico, ingegneristico e della produzione”, con un disallineamento molto rilevante.
Sempre secondo lo studio Excelsior “il possesso di competenze digitali viene richiesto a quasi il 60% delle figure professionali, ma la competenza è richiesta con grado elevato al 62,5% delle professioni specialistiche, al 58% dei dirigenti, al 53,9% delle professioni tecniche e al 49% degli impiegati”.
Questa domanda di competenze non sorprende ed è pienamente in linea con quanto affermato dalla Commissione Europea nel documento di lavoro per la “valutazione dei progressi in materia di riforme strutturali, prevenzione e correzione degli squilibri macroeconomici”: “Per avere un impatto sulla produttività è necessaria un’ampia promozione delle competenze digitali nel processo di trasformazione digitale. Gli investimenti nelle tecnologie a banda larga devono essere accompagnati dallo sviluppo delle competenze in materia di TIC, anche da parte dei dirigenti”.
Il problema è certamente sul fronte del reclutamento ma, forse con maggiore urgenza, su quello della formazione e dell’accompagnamento, che devono essere viste come investimenti fondamentali per lo sviluppo delle organizzazioni.
Un approccio organico alle competenze digitali
Nei termini del framework utilizzato nello studio del Digital Society Index, il digitale può portare miglioramento sociale se si realizzano tre condizioni di evoluzione:
la popolazione acquisisce sempre più consapevolezza digitale e quindi riesce a utilizzare al meglio i servizi e i benefici del digitale (pensiamo anche a tutta l’evoluzione indotta dalla diffusione dell’IoT, dei Big Data e dell’Intelligenza Artificiale) indirizzando un’evoluzione “etica” dell’utilizzo delle tecnologie e della sua fruizione sociale;
le pubbliche amministrazioni e le imprese sono indotte a un miglioramento dei servizi forniti non solo dal punto di vista della “user experience” ma anche nel modello utilizzato, in cui l’utente è visto come persona consapevole e quindi il loro approccio è realmente nel solco di una profonda trasformazione che richiede sia competenze digitali diffuse (a partire dall’e-leadership dei manager) che specialistiche;
il sistema educativo si organizza per coprire le esigenze di sviluppo delle competenze (digitali) in modo organico e in una logica di continuità e correlazione nel percorso di formazione tra le diverse fasi della vita e delle situazioni lavorative.
Credo che questa e non altra sia la risposta possibile a quanto affermato dalla Commissione Europea nel documento citato: “manca ancora una strategia globale per le competenze digitali; il finanziamento del piano nazionale per la scuola digitale è ancora insufficiente per conseguire gli obiettivi del piano e i centri di competenza per la strategia Industria 4.0 stanno avendo un avvio lento”.
La presenza di una macro-azione sulle competenze digitali nel quarto piano nazionale per l’open government attualmente in consultazione è certamente una buona notizia, ma la situazione richiede un passo ulteriore, ambizioso e necessario, verso un “progetto-Paese” sulle competenze digitali che consenta di superare la frammentazione che ancora è presente.
Questa la strada, già tracciata, per un approccio organico che ci consenta di affrontare il tema delle competenze (non solo digitali) come una delle principali linee di investimento e innovazione del Paese.