Un recente lavoro realizzato per il Ministero della Pubblica Istruzione si è posto l’obiettivo di analizzare la corrispondenza del profilo in uscita degli studenti degli ITS (Istituti Tecnici Superiori, con corsi di norma della durata di due anni dopo la scuola secondaria) rispetto alle aspettative del mercato.
Il lavoro, eccellente, ha disegnato i profili tecnici da costruire secondo le più innovative evoluzioni tecnologiche in corso, in larga parte soddisfacendo le aspettative del mercato, che, vale sempre la pena di ricordare, per i tecnici IT, non si limita alle imprese IT, ma anzi deve poter rispondere alla sempre più manifesta domanda di tutte le altre imprese, in particolare quelle che si mostrano più sensibili alla sfida della trasformazione digitale.
Questi profili e le relative competenze, conformi allo standard e-CF, sono una risposta qualitativamente adeguata a un mercato nel quale non sempre e non solo i laureati sono adatti, ma è auspicabile una “alta” formazione secondaria. Semmai il problema non è qualitativo, ma quantitativo, se si pensa che diplomati da ITS sono poche centinaia a fronte di una domanda che si misura in migliaia.
La combinazione di un non sempre efficace riallineamento dei percorsi di studio alle tecnologie emergenti e una cronica carenza diplomati/laureati in materie IT (o affini) porta però a sollecitare un’analisi più elaborata di quel che sta avvenendo nel mercato delle professionalità digitali.
Le imprese fanno recruiting, lo fanno in generale, come componente continua, costante e strategica della loro vita aziendale, lo fanno con maggiore attenzione in un periodo, come questo, dove l’economia si sta muovendo, le politiche economiche spingono verso l’innovazione digitale, la comunicazione bombarda sul cambiamento e sugli investimenti in tecnologia (industria e ora impresa 4.0 sono ormai nel quotidiano di tutti gli imprenditori).
Soft skills, una carenza che penalizza giovani e imprese
Nel cercare giovani da occupare le imprese continuano a denunciare la cronica mancanza di una famiglia specifica di competenze (o skill, ammesso che possano essere ricondotti a questa categoria): i soft skill.
Da sempre i nostri ragazzi vengono considerati carenti di soft skill, ma ora questa carenza viene giudicata ancora più critica e, mentre proviamo a vedere perché, mostriamo il quadro del deficit di soft skill denunciato dalle nostre imprese:
se poi a questi soft skill aggiungiamo un’altra categoria di soft skill, quelli più afferenti la “cultura di Impresa” – peraltro essenziale se si vuole sviluppare l’attitudine alla imprenditorialità – vediamo che la situazione delle carenze denunciate nei giovani non cambia di molto:
Visti i soft skill nelle due categorie (non omologabili tra loro, come vedremo più avanti) e l’analisi comparata delle relative carenze, forse vale la pena – con lo scopo dichiarato che bisogna cercare di fare qualcosa su questo fronte – fare un passo avanti sul mercato delle occupazioni IT.
Soft skills, quelle “attitudini” che le aziende si aspettano
Ebbene questo mercato, da sempre, e di più nei periodi di offerta insufficiente, ha accolto giovani con provenienze di studi del tutto diverse: chi non ha avuto piacevoli conferme di attitudine ai mestieri digitali in giovani che non solo provengono da materie STEM, ma, perché no?, da filosofia, economia, lettere, con una contaminazione di saperi alla lunga molto promettente. Certo i primi passi per questi giovani sono più faticosi, ma, come si suol dire, alla distanza…
Da sempre, molte aziende hanno percorso questa strada di contaminazione di saperi e di culture, considerandola promettente, ma in periodi di scarsa offerta questa strada diventa quasi obbligata.
Ma a questo punto, se tu fossi un reclutatore, consapevole che sul candidato dovrai costruire un percorso di formazione tecnica perché lui arriva con basi deboline, non ti aspetteresti almeno una robusta dose di soft skill?
Mi viene quasi da dire, azzardando, che la trasformazione digitale apre molte porte, fino a ieri forse impensabili, ma pretende attitudini.
Attitudini, sì, perché i soft skill non potrebbero essere considerati “attitudini caratteriali al lavoro”? Almeno quelli raccolti nella prima tabella, essendo quelli della seconda più difficilmente definibili “attitudini caratteriali”; sono infatti oggettivabili e dunque, perché no?, oggetto di formazione, nell’ambito di una materia che insegna “impresa”.
Se questo approccio non scandalizza (i primi vere e proprie attitudini, e in quanto tali non formabili, almeno in modalità tradizionale, i secondi conoscenze e dunque formabili), proviamo a declinarli secondo altre definizioni, mantenendo una qualche coerenza con le espressioni della tabella, perché quello è il lessico dell’impresa, ma con una modalità più vicina al mondo della scuola.
Allora le attitudini caratteriali al lavoro le potremmo rendere:
- Responsabilità e attitudine alla soluzione dei problemi
- Capacità di lavorare in gruppo, comunicare, motivare
- Flessibilità e capacità di pensare “diverso”
- Flessibilità e voglia di imparare
- Senso del tempo, degli obiettivi, degli scopi, il senso dell’impresa
Dove l’ultima attitudine fa da ponte alla cultura di impresa.
Perché la scuola deve porsi il problema dei soft skill
Fatte queste riflessioni non mi esimo dal trarre due conclusioni.
Vale per i percorsi tecnici (afferenti il digitale), ma vale forse ancor di più per tutti gli altri, l’affermazione che il possesso dei soft skill in una società, in un’economia in cambiamento continuo, diventa critico, essenziale, discriminante per le opportunità. E quindi non è opzionale e la scuola se ne deve porre il problema. Se per la cultura di impresa il momento dell’alternanza può dare alla scuola un forte sostegno perché lo studente si doti di conoscenze e consapevolezza di come vive e funziona un’impresa, almeno sui fondamentali – organizzazione e processi aziendali, privacy e sicurezza, marketing e fondamentali della finanza – per quanto riguarda le attitudini caratteriali al lavoro, l’alternanza scuola lavoro è un momento prezioso, ma non può bastare.
Allora? I soft skill non sono insegnabili e durante il contatto con l’azienda nell’alternanza si corre il rischio illusorio di aspettarsi significativi miglioramenti; non resta dunque che contare sull’intero percorso scolastico, perché queste attitudini siano incoraggiate, stimolate, accresciute e se non può essere oggetto di insegnamento forse può essere comunque un momento di “crescita stimolata”. Cioè, se lo studente prende coscienza di quali sono e saranno sempre più le attitudini che ormai il lavoro pretende e se i docenti con cui interagisce lo aiutano ad autovalutarsi, forse si impegnerà per migliorare. Come se esistesse un “monitoraggio, privato e consapevole” del suo percorso di crescita, che non può che essere individuale e privato, ma stimolato e stimato da adulti credibili, in una sorta di set di indicatori (ne abbiamo ipotizzati, a puro titolo indicativo, 5, quelli sopra, ma possono essere reinterpretati) della sua continua crescita attitudinale al lavoro.
A me, se fossi ancora studente, piacerebbe sapere, prima di entrare nella competizione del lavoro, come “sono messo” in termini di fondamentali attitudini, sulle quali domani sicuramente sarò selezionato e valutato.