Nella nuova società digitale, impatto e sostenibilità sono i termini a cui più insistentemente dobbiamo ricorrere nel tentare di tratteggiare i lineamenti di una economia possibile e che più frequentemente dobbiamo evocare per rimarcare l’esigenza di una transizione che, prima di essere digitale e ambientale, deve essere culturale.
Il PNRR è un’occasione irripetibile per una svolta che l’Italia non può fallire.
Il cannocchiale della scienza ci sta dicendo dove guardare. Bisogna farsi trovare pronti. “Abbandonare la palude della paura e della nostalgia è d’obbligo se vogliamo essere pronti allo tzunami dell’innovazione che ci travolgerà nei prossimi anni”, dice ad Agendadigitale.eu Gianpiero Ruggiero, del CNR.
Automazione fa sempre rima con disoccupazione? Lo scenario italiano
Gli italiani e la fiducia nelle prospettive del Paese
“Se avessimo a disposizione un cannocchiale con cui guardare il mondo dei prossimi 10/15 anni, potremmo prevedere le ricadute delle decisioni da prendere: cosa studiare (e cosa far studiare ai figli)? Che lavoro scegliere? Come investire i risparmi?”, dice Ruggiero.
“Oggi, più che un cannocchiale a disposizione c’è solo una sfera di cristallo, con la quale possiamo immaginare come sarà il futuro. Certamente un mondo diverso da quello in cui viviamo. Un mondo governato da logiche al momento ipotizzabili. Un mondo che arriverà, comunque, che lo si accetti o no”, aggiunge.
Negli ultimi mesi è emersa – da quanto risulta dai sondaggi – una generale soddisfazione degli italiani per la situazione economica e le prospettive future del nostro Paese. Il Presidente del Consiglio, durante la conferenza stampa di fine anno, ha indicato il PNRR tra i risultati chiave del suo Governo. L’aver raggiunto i 51 obiettivi del Piano, concordati con la Commissione Europea con scadenza il 31 dicembre 2021, induce a un generale ottimismo, accompagnato dalla prospettiva di un ingente flusso di denaro nei prossimi anni.
Citando i dati positivi sulla crescita economica, Draghi ha affermato che l’attuale congiuntura “può essere un moltiplicatore psicologico dell’azione di Governo e dell’azione stessa del PNRR”. Secondo il premier, “occorre dimostrare che la fiducia degli altri Paesi europei, mostrata dando all’Italia questi fondi, è stata ben riposta.” Per non deludere le aspettative, dovremo riuscire a rendere strutturale quel tasso di crescita, che al momento i più considerano un semplice “rimbalzo”, dopo la rovinosa caduta di inizio pandemia. Questa è la vera sfida. In questo caso è d’obbligo un cauto ottimismo, perché bisogna ipotizzare una quantità di istituzioni che cambiano il loro modo di agire.
Tutti i settori economici sono alle prese con uno stress test, con interi comparti alle prese con stravolgimenti organizzativi, che stanno determinando effetti diversi in base al contesto. Interi settori sono posti di fronte alla transizione digitale, da un lato inevitabile, ma allo stesso tempo molto complessa, con implicazioni sociali, politiche e culturali che presentano una serie di sfide per nulla banali. Lo stesso vale per la transizione energetica, che si sta affermando come cambiamento che spaventa, ma che crea anche nuove opportunità.
“La fine dei lavori e la disoccupazione di massa sono spauracchi, spesso sventolati per nascondere errori strategici di un intero Paese. Oggi serve una svolta e servono competenze adeguate a gestire l’innovazione tecnologica. È indubbio che potrebbero esserci dei momenti di trasformazione, così come rilevato da diverse ricerche. Un momento di transizione che vale anche per l’Italia”, secondo Ruggiero.
Automazione e occupazione: lo scenario per l’Italia
Per la prima volta tre studiosi si sono presi la briga di fornire una prima stima per l’Italia della probabilità di automazione di 800 professioni. La conclusione a cui arriva lo studio dal titolo “Rischi di automazione delle occupazioni: una stima per l’Italia”, pubblicato sul numero di dicembre 2021 della rivista Stato e Mercato, è che in Italia il 33,2% dei lavoratori, cioè ben 7 milioni di addetti, rischierebbe di perdere il posto a causa di automazione, robotica, intelligenza artificiale e machine learning. A questo dato i ricercatori arrivano applicando i dettami dell’approccio occupation-based, che muove dall’idea che sono le professioni ad essere automatizzabili. Il dato si ridurrebbe a “soli” 3,8 milioni di addetti (pari al 18,1% della forza lavoro) utilizzando il task-based approach che considera automatizzabili, invece, le attività lavorative, le mansioni – i task, appunto – il cui mix va poi a comporre le professioni.
Gli autori dello studio, quindi, applicando entrambi i modelli ai dati specifici relativi alla struttura occupazionale italiana, ne ricavano una forbice piuttosto ampia, compresa tra circa 4 e circa 7 milioni di posti di lavoro a rischio. Numeri, comunque, che per fortuna sono solo teorici. Sono gli stessi ricercatori a sottolineare come teoria e pratica possono essere – fortunatamente in questo caso – profondamente distanti. Le stime, peraltro, non considerano i nuovi lavori che digitale e automazione creano, per cui è impossibile calcolare l’effetto di compensazione.
Gli studi internazionali sembrano andare nella direzione dell’allarme, almeno a breve termine: ci sarà – c’è già in effetti – distruzione di mansioni, conseguente riduzione di paghe. Ma è ancora possibile dirigere questa trasformazione verso il meglio, per tutti. Verso uno scenario in cui il lavoro non sarà penalizzato e anzi sarà reso più agevole dall’automazione, che toglierà solo i compiti frustranti e pericolosi per l’essere umano e ne regalerà altri.
È l’uomo che deve guidare l’innovazione per il benessere sociale e la tutela dell’ambiente
Sollevare criticità riguardo la transizione digitale è diventato uno sport per molti. La paura verso la nuova “stregoneria” chiamata tecnologia travolge chi non comprende il suo enorme potenziale o guarda ad essa come un elemento fuori dal controllo dell’uomo. “Ma è l’uomo che crea tecnologia, non nella sua banale declinazione di device di ultima generazione, ma come fattore di cambiamento economico, sociale e politico. È l’uomo che decide da che parte deve andare l’innovazione”, avvisa Ruggiero.
È in questo contesto, ancora in divenire, che dobbiamo guardare alla ricerca e all’innovazione tecnologica, identificate come fattori abilitanti non solo per il progresso in sé, ma soprattutto per il benessere sociale, la tutela ambientale.
Si pensi allo sviluppo dell’intelligenza artificiale che, con il suo bagaglio di algoritmi, applicazioni predittive e machine learning, è solo all’inizio. E promette di rivoluzionare il mondo dei servizi e dell’industria. “Quello che noi vediamo sono soltanto i primi passi e siamo ben lontani da qualsiasi forma di maturità”. Queste le parole di Mario Rasetti, fisico di fama internazionale alla guida di Isi Foundation, che ha svelato il sogno di riuscire a connettere i 6 miliardi di persone che oggi hanno un cellulare, con l’obiettivo di concepire una rete collettiva, disegnando un futuro in cui mettere al centro questa intelligenza collettiva capace di salvare l’intero pianeta. Fare leva su tutta la conoscenza disponibile vuol dire soprattutto costruire un ambiente di apprendimento in cui i dati raccolti da altre valutazioni favoriscono e accelerano un processo di cross-learning. In altri termini, i dati imparano dai dati e l’intelligenza umana si integra con quella artificiale per ottimizzare ogni conoscenza, ovunque nel mondo sia stata prodotta.
La strategia nazionale sull’intelligenza artificiale
L’Italia, dopo anni di lavoro, alla fine si è dotata di una strategia nazionale sull’intelligenza artificiale.
Finalmente. Lo stesso «programma strategico» italiano (curato dal ministero dell’Università e della ricerca, da quello dello Sviluppo economico e da quello per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale) evidenzia i numerosi ritardi e i punti di debolezza del nostro paese. Il nostro mercato è minuscolo – solo il 3 per cento di quello europeo per investimenti secondo le stime 2020 del Politecnico di Milano.
La ricerca è frammentata e gode di pochi investimenti pubblici e privati. «Mentre la formazione di nuovi talenti in Italia è a livelli adeguati, l’attrazione di profili dall’estero è scarsa, con pochi ricercatori qualificati che si trasferiscono per lavorare in Italia. Fino a ora nessuna strategia dedicata è stata efficace a favorire un flusso consistente di ricercatori e professionisti stranieri», si legge nel programma, che denuncia anche un «divario di genere significativo».
«Un sondaggio del 2020 di CINILab AIIS National Assembly tra i suoi membri mostra che solo il 19,6 per cento dei ricercatori di Ia sono donne, rispetto a quasi il 50 per centro nelle Stem (Science, technology, engineering e mathematics ndr) in generale». Pochi anche i brevetti italiani in questo campo.
Il piano prevede 24 azioni politiche per rafforzare la formazione, le competenze, la ricerca e diffondere le applicazioni di intelligenza artificiale.
Si prevede di aumentare dottorati e corsi di lauree in materie Stem; finanziare la ricerca; sostenere start up in quest’ambito; introdurre crediti di imposta e voucher alle aziende che si dotino di queste tecnologie e figure professionali attinenti.
Il mondo della ricerca è finalmente pronto a compattare risorse umane e capitali finanziari intorno a dei campioni nazionali su tecnologie chiave abilitanti. Il MUR ha pubblicato sul proprio sito i primi bandi previsti per le misure di ricerca in filiera del PNRR. Si tratta degli avvisi pubblici per “la presentazione di proposte progettuali per il rafforzamento e la creazione di infrastrutture di ricerca” e per “la concessione di finanziamenti destinati alla realizzazione o ammodernamento di infrastrutture tecnologiche di innovazione”. Un investimento totale di 1,58 miliardi di euro, di cui 1,08 miliardi per le prime proposte e 500 milioni per le seconde, con cui si intende finanziare almeno 30 infrastrutture.
Con 1,08 miliardi di euro si punta a finanziare almeno 20 infrastrutture di ricerca, ovvero impianti, risorse e relativi servizi usati dalla comunità scientifica per compiere ricerche in più discipline. I 500 milioni, invece, saranno destinati a realizzare o ammodernare altre 10 infrastrutture tecnologiche di innovazione, con l’obiettivo di favorire una stretta integrazione tra imprese e mondo della ricerca e dell’innovazione per sostenere, accelerare e qualificare la crescita economica del Paese.
Secondo Stefano Da Empoli di Icom l’attuazione del piano sarà la sfida maggiore. D’accordo Giovanni Miragliotta, professore del Politecnico di Milano e uno degli esperti consultati dal governo.
Il piano infatti non indica ancora di preciso quanti miliardi assegnare a questi obiettivi.
Il ruolo dell’intelligenza artificiale per la sostenibilità
Intelligenza artificiale, tecnologia duale e certo dirompente. Duale e dirompente perché apre la porta a grandi trasformazioni, con un alto impatto sulla nostra intera società e persino sul clima. Trasformazioni che possono essere benefiche o pericolose a seconda di come le gestiamo. Un esempio viene dall’automazione del lavoro. Un altro riguarda l’ambiente.
Secondo una stima 2021 di BCG, l’utilizzo dell’AI può contribuire, da solo, ad una riduzione delle emissioni dal 5% al 10%, equivalente a valori che vanno dai 2,6 ai 5,3 miliardi di tonnellate di CO2e (CO2 equivalente). Le analisi di BCG mostrano che il potenziale impatto complessivo dell’applicazione dell’AI alla sostenibilità aziendale ammonterebbe dagli 1,3 trilioni di dollari ai 2,6 trilioni di dollari in valore generato attraverso entrate aggiuntive e risparmi sui costi entro il 2030.
L’AI aumenta l’efficienza della produzione, infatti, e quindi riduce il consumo energetico. Ci sono numerosi progetti che utilizzano l’AI per controllare emissioni, consumi. Altri utilizzi affrontano direttamente i cambiamenti climatici.
Eppure molti esperti, ad esempio nel MIT, hanno puntato il dito contro usi “egoistici” dell’AI: enormi modelli che consumano quanto una piccola cittadina e che danno benefici risibili per l’umanità. Il parallelismo ambiente-lavoro qui è con quelle tecnologie so-so come le chiama il MIT: automazione che elimina solo posti di lavoro senza dare veri vantaggi sociali; senza ingenerare quel circolo virtuoso che poi posti di lavoro li crea, con nuovi servizi e attività a cascata. Esempi negativi sono l’automazione di call center e delle casse.
I Governi se ne stanno rendendo conto. Di novembre il rapporto della partnership globale sull’IA (GPAI), cui partecipa anche l’Italia, sul ruolo dell’AI per il climate change e raccomandazioni per i Governi affinché vengano adottate soluzioni tecnologiche di intelligenza artificiale che possano aiutare a combattere il cambiamento climatico. Una vera e propria strategia d’azione per il clima e la conservazione della biodiversità, per iniziare a porsi le domande giuste sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale a sostegno del clima.
In altre parole l’intelligenza artificiale – o meglio il modo in cui il mondo deciderà di usarla, governarla – per la sua dirompenza e dualità può essere il banco di prova principe della nostra capacità di sfruttare l’innovazione – e i relativi incentivi, come il PNRR – per un vero progresso socio-economico.
Le basi per il cambiamento
Sono state poste le basi per sostenere quei settori che porteranno i prossimi vent’anni al cambiamento della nostra economia e società, intorno ai quali costruire le industrie chiave del futuro: i nuovi materiali, la chimica verde, la robotica, le bioscienze avanzate, la genetica, i Big Data e la cyber sicurezza. Settori industriali a cui andrebbero aggiunti quelli sulle energie emergenti, la coltivazione delle aree finora trascurate del pianeta, l’esplorazione delle profondità marine e di quelle spaziali e in generale dei grandi risultati raggiunti dalle ricerche finora compiute nei più vari campi delle scienze.
Settori non solo importanti in sé, che certamente non esauriscono l’insieme delle imprese del futuro, ma che diventano emblematici di più ampie tendenze globali e simbiotici tra loro, che dischiudono orizzonti nuovi e che mettono in discussione il concetto stesso di valore per come lo conosciamo.
È lo stesso MUR, infatti, che ha previsto l’attivazione di forme di monitoraggio periodiche per valutare l’impatto e le ricadute generate dagli interventi finanziati, anche sul piano sociale ed economico, stabilendo, inoltre, che dati e risultati conseguiti per ogni progetto confluiscano in apposite banche dati per assicurarne l’accessibilità e il riutilizzo da parte della comunità scientifica nazionale e internazionale.
Gli impatti sociali e ambientali delle nuove tecnologie
Come può essere immaginato il futuro senza approfondire questi fattori?
Oggi c’è una comunità sempre più numerosa interessata a misurare gli impatti sociali e ambientali delle nuove tecnologie, fornendo ai decisori nuovi lenti per vedere il futuro e compiere scelte sempre più consapevoli verso la transizione a un nuovo mondo, che va immaginato come luogo in cui il valore investe una dimensione più ampia e profondo di quella del solo profitto.
Anche nel settore delle pubbliche amministrazioni iniziano a svilupparsi progetti che intendono misurare, attraverso modelli di Public Value Governance, il valore pubblico creato dalle amministrazioni incaricate di gestire le risorse del PNRR. La creazione di Valore Pubblico, «ovvero il miglioramento del livello di benessere economico-sociale-ambientale dei destinatari delle politiche e dei servizi pubblici rispetto alle condizioni di partenza», da intendersi come scopo ultimo dell’attuazione delle politiche pubbliche, diviene un imperativo istituzionale in uno scenario globale caratterizzato da problemi complessi.
Conclusioni
Con il PNRR abbiamo l’irripetibile opportunità di compiere un’evoluzione nel modo in cui concepire i processi di investimento, costruire relazioni pubblico-privato, concretizzare trasferimenti di tecnologie e valorizzare la ricerca. La formazione, il trasferimento delle conoscenze e la diffusione delle innovazioni, vincono la sfida tecnologica. Ben venga allora tutto quello che contribuisce a dare un nuovo significato a ciò che la società considera valore, superando l’unica declinazione, quella del profitto finanziario, inseguita dall’utilità individuale dell’uomo economico del secolo scorso.
Occorre insistere nel perseguire una nuova alleanza fra innovazione digitale e sociale: un nuovo patto sociale per la società digitale, che garantisca la sovranità sui dati, standard etici per l’intelligenza artificiale, diritti digitali dei cittadini e delle imprese, diritti dei lavoratori, la parità di genere e gli standard ambientali. Per questo nel PNRR, così come nei fondi legati alla programmazione EU 21-27, devono farsi strada progetti capaci di esprimere sostenibilità e al tempo stesso in grado di esplicitare le intenzioni di impatto atteso. Progetti in grado di orientarsi verso il pensiero strategico di un futuro desiderabile: un ecosistema socio-economico inclusivo, equo e compatibile con quello naturale. Oggi, tale prospettiva, attraverso l’alleanza fra innovazione digitale e sociale, è perseguibile.