La contemporaneità è profondamente segnata dalla comunicazione tautologica dei media digitali e dai modelli ideologici e sociali che essi portano con sé. Ogni ambito della nostra vita individuale e collettiva si interseca con le architetture della rete, e la società, liquefatta in infiniti rivoli di conoscenza e informazione, ha oggi a che fare con un complesso panorama epistemologico in cui alcune corporazioni mediali sono divenute in una manciata di anni il melting pot di interessi e poteri dagli esiti che impattano ogni giorno di più la nostra esistenza individuale e collettiva.
Lo dimostra la postura che alcune piattaforme, Facebook in modo lampante, hanno ingaggiato di fronte a controversie di non poco conto come il populismo trumpista, debolmente osteggiato fin quasi alla vigilia dell’ultimo episodio della saga culminata con Capitol Hill. È stata alimentata così una polarizzazione divisiva dello spazio digitale (Salzano, Napoli 2017) a cui i social network oppongono un controllo più che blando alla diffusione di fake news, mentre a fronte dell’emergenza pandemica si è scelta una strada più responsabile e interventista (Morcellini 2021).
Le nostre vite gestite dalle Big Tech: le sfide per cultura, democrazia e regolazione
Non viene sottolineato abbastanza quanto i colossi oligopolistici costituiscano un pericolo senza precedenti per la democrazia, e non solo per l’eventuale sostegno che questi colossi possono garantire a determinate correnti politiche a colpi di algoritmi, a scapito del pluralismo. È, infatti, anche la matrice liberista e individualistica dei loro codici “genetici” ad avere un impatto notevole, perché favorisce il successo digitale dell’io sulla collettività, minando alla radice il concetto di bene comune e accelerando quel processo di liquefazione dei valori condivisi in favore di un’ostentata libertà personale, che in realtà maschera semplicemente una vera e propria soggezione al successo economico (Zimmerman 2017, Pasquale 2013).
Media digitali e sovranità: la denuncia della comunità scientifica
Da tempo, d’altronde, la comunità scientifica denuncia su questi temi una trascuratezza ingiustificabile da parte delle istituzioni e della stessa cultura, che non hanno evidentemente ancora inquadrato a dovere i pericoli potenziali per la nostra democrazia. Nel mondo accademico, a sua volta, una consapevolezza meno intermittente è maturata negli ultimi anni, anche grazie ad alcuni innovativi progetti di ricerca quasi sempre interdisciplinari.
Un caso illuminante, e osservato in diretta, riguarda le evidenze scientifiche via via accumulate durante il lungo lavoro di ricerca per il progetto finanziato da Sapienza Università di Roma intitolato “Social network, consensus building and political institutions”[1] e diretto da Beniamino Caravita. Esse rappresentano la base di partenza di questa riflessione, perché indicano in modo inequivocabile la frontiera che si apre a chi non voglia chiudere gli occhi sull’impatto delle piattaforme digitali sull’intero scenario sociale e, più precisamente, sul pluralismo valoriale e politico. Stiamo infatti parlando dell’impressionante contesto di possibili forme di influenza riconducibile alla comunicazione digitale su comportamenti decisivi del soggetto quali la formazione delle immagini della realtà, incluse le idee politico-sociali.
I risultati saranno presto sottoposti a un approfondimento scientifico nella forma di un nuovo Progetto di Rilevante Interesse Nazionale, al momento sotto esame degli Organi istruttori, ma non stiamo parlando solo di ipotesi e possibilità, poiché un approccio scientifico multilaterale e compiuto è stato comunque sapientemente sviluppato e messo alla prova nel corso della ricerca.
I suoi risultati infatti indicano la necessità di partire dalle conoscenze acquisite in letteratura, considerando a questo fine anche il numero monografico sui processi di sostituzione della politica con la comunicazione della rivista Paradoxa[2].
Si può aggiungere però che non mancano esempi internazionali e domestici di un’impostazione che promette di collegare persuasivamente gli orientamenti adottati dai cittadini ai sistemi di influenza e di raccomandazione[3].
Media digitali e sovranità: l’impatto sulle campagne elettorali
Per di più, un tale tema sembra particolarmente osservabile, in termini di chiarezza e rapporto fra gli item in gioco, in quelle situazioni speciali che sono le campagne elettorali, quando aumenta considerevolmente l’incertezza tra scelte alternative (Morcellini 2002), e diventa dunque più plausibile, e potenzialmente risolutivo, l’affidamento alle fonti comunicative e informative, scelte quali risorse per ridurre o rimarginare lo stress dell’indecisione, in un contesto di crisi di tutti gli altri punti di riferimento circostanti.
Puntualmente, nei momenti in cui più acuta è la polemica relativa alla capacità di utilizzare i social network, e in generale i media digitali, per favorire posizioni politiche preconfezionate, suggerite a pubblici sempre più incerti, si chiama in causa la situazione di campaign. Insisto su questo punto poiché, pur essendo le chiamate al voto poco distinguibili dalle campagne elettorali permanenti, è in momenti simili che si riducono le variabili di impatto potenzialmente interferenti e si rivela più nitida e concentrata la forza persuasiva attribuibile ai media[4].
Media digitali e sovranità: la debolezza dell’apparato normativo
A fronte di questa situazione contrassegnata anche da ritardi di conoscenza e dunque da uno studio scientifico inadeguato, il nostro Paese aggiunge vistosi elementi di indecidibilità[5] o veri e propri deficit nell’apprestare garanzie di indipendenza e di equilibrio efficaci, che riguardano anzitutto l’infrastruttura regolatoria in capo a Parlamenti, magistratura, governi e Autorità di garanzia.
Bisogna dire una verità più profonda: l’apparato normativo non ce la fa ad accogliere nelle sue declaratorie buona parte dei fenomeni di cui discutiamo, e mostra una debolezza strutturale rispetto alle forme di accumulazione di potere dei grandi player internazionali della comunicazione, quando addirittura non rimuove assolutamente il problema. Si è parlato in proposito di ‘praterie digitali’, indicando giornalisticamente situazioni di sregolatezza che favoriscono accumulazione di rendite di posizione ai nuovi venuti, pronti a lucrare sulla inesistenza o almeno inappropriatezza di norme, per circoscrivere forme e modi dell’influenza sociale.
È esemplare in proposito l’incidente ‘Cambridge Analytica’, che ha dimostrato la concreta possibilità di uso aberrante di enormi quantità di dati a fini politici da parte di un’azienda di consulenza di marketing online, smascherando così l’incapacità di tenere sotto controllo il modo in cui interessi di parte sfruttano il patrimonio di dati che le big companies producono ogni giorno. L’impressionante risonanza comunicativa e istituzionale di questo caso ha comunque messo in luce una strutturale difficoltà gestionale delle imprese a mettere in sicurezza il percorso dei dati (Gillespie 2010, Lippold 2011, Gitelman 2013).
Sappiamo, del resto, che quello di Cambridge Analytica non è stata l’unica criticità nei rapporti tra Over the Top e politica internazionale. Tutto questo apre una vertenza di garanzie di sistema tutt’altro che risolta. È singolare in proposito l’asimmetria che si prospetta rispetto a precedenti episodi simili, anche se spesso riconducibili a situazioni nazionali, quando sono stati sollevati rischi di un uso di parte della comunicazione mainstream. Per molto meno di quanto sta succedendo oggi abbiamo parlato di far west, occhieggiando le distorsioni di mercato eventualmente in capo a tv commerciali o media proprietari, e oggi sembriamo attoniti persino di fronte alle esigenze di un aggiornamento in termini di lessico, contenuti ed economia dell’attenzione da riservare all’impatto del digitale sulla politica. E occorre meditare sulla circostanza che persino i creatori o curatori degli imperi, che a questo punto dovremo definire coloniali, riconoscono la fondatezza dei dubbi di parzialità e addirittura dei rischi per l’autonomia di pensiero e di comportamento dei soggetti contemporanei (Couldry, Mejias 2019).
A questo proposito, anche le accuse della ex dipendente di Facebook, Frances Haugen, emerse a settembre 2021, testimoniano tramite denuncia alla Securities and Exchange Commission (Sec) degli Stati Uniti che il social intraprende azioni non corrispondenti alle sue dichiarazioni pubbliche in materia di odio e discriminazione online. D’altronde, è emerso che anche Tik Tok fa un uso improprio degli algoritmi di ranking, che sembrerebbero valorizzare contenuti espliciti e legati alla droga, come dimostra un esperimento condotto di recente dal Wall Street Journal[6].
Come non vedere, allora, la centralità di un approccio sistematico, e quindi anche giuridico, ai nodi della comunicazione di oggi? Sono in gioco diritti fondamentali costituzionalmente protetti, non sufficientemente tutelati dalle esili garanzie del buonismo e della distrazione, che arrecano pregiudizio al futuro di ognuno e di tutti.
Il dibattito si incarta su interrogativi non di rado retorici, sulla necessità di norme più attuali e cogenti, e inevitabilmente si arresta di fronte a difficoltà da un lato tecniche, e dunque oggettive, ma dall’altro dimostrative di un’inadeguata impostazione scientifica dei nodi che stiamo discutendo. E proprio al diritto hanno ragione di chiedere risposte[7].
Media digitali e sovranità: i nodi da affrontare
Di fronte a noi si staglia un grave limite di conoscenza e aggiornamento delle domande più rilevanti: deve essere la ricerca pubblica a cogliere e interpretare i problemi nuovi, dibattendo sulle possibili soluzioni giuridiche per le criticità via via riscontrate, e qui occorre allora mettere al centro l’analisi dell’esistente a fronte del disagio normativo a regolarlo. Solo così si potrà avere almeno una preliminare chiarezza di visione. Per superare ogni ambiguità e ritardo, non c’è niente di meglio che mappare le esitazioni scientifiche strettamente riconducibili alle scosse continue dei cambiamenti. Solo così si può provare ad allineare alcune evidenze su cui c’è sostanziale consenso degli studiosi di diversa formazione e provincia disciplinare. Resta tuttavia vero che una trattazione tematizzata su singoli problemi rischia a sua volta di allontanare un approccio sistemico assolutamente più adeguato al contesto della comunicazione di oggi.
Il primo nodo da affrontare è certamente la presa d’atto dell’enorme potere, non solo economico, dei dati, in un contesto di crescente globalizzazione dei mercati comunicativi. Una tale questione è l’incipit del nostro discorso, poiché identifica riassuntivamente un carattere dei ‘tempi moderni’, coinvolgendo criticità quali l’automazione dei processi[8], gli algoritmi costitutivi e la trasparenza delle black box. Al di là delle questioni etiche sottostanti, si impongono all’attenzione problemi di sovranità e di sistemi di garanzie, difficilmente alla portata dei singoli Paesi[9].
Il secondo e conseguenziale nodo riguarda la pervasività delle informazioni e l’aumento di tempo dedicato alle interazioni con i device comunque riconducibili a dati lavorati dalle grandi corporations della comunicazione.
Ma un ulteriore indicatore della nuova condizione umana di fronte allo strapotere della comunicazione è quello dell’immediatezza. Quest’ultima esige una struttura cognitiva pronta a fronteggiare in tempi rapidi informazioni nuove, per le quali è difficile riconoscere l’esistenza di appropriate forme di educazione e/o di aggiornamento, che meglio metterebbero in grado i soggetti di correggere l’asimmetria oggettiva tra schermi accattivanti e bisogni comunicativi non sempre disponibili all’esercizio di un punto di vista critico o almeno di attenzione. Basterebbe qui domandarsi chi, davvero, si occupa oggi della formazione di abilità cognitive come queste sia nel sistema scolastico che nelle strategie di riduzione del digital divide.
Anche solo assemblando questi elementi, è difficile non riconoscere che abbiamo di fronte un potere simbolico e persuasivo ‘posseduto’ da un numero ridotto di soggetti, spesso riferibili a pochissimi centri di influenza. Si delineano a ben vedere molte caratteristiche di quello che le culture disponibili definiscono potere sovrano, configurando oggettivamente un tiro alla fune con gli Stati e con le loro prerogative costitutive. C’è un sovranismo degli over the top così vistoso da aver suggerito a un acuto membro di un’Autorità indipendente la riformulazione di over the law, per sottolineare la sostanziale allergia alla regolazione dei grandi player, inevitabilmente connessa ad una scarsa revenue rispetto al nodo della tassazione degli introiti (Michels 2017)[10].
Siamo ancora una volta di fronte al riscontro del fondamento economico e globalizzante che sta alla radice dell’affermazione e della forza degli Over the Top, e della dimostrata capacità di creare un mercato compatibile e su misura della loro performatività. Trasferendo questa annotazione allo scenario più generale che si prospetta, è in questo contesto che “l’homo oeconomicus appare piuttosto l’effetto di una determinata organizzazione dei rapporti economici e sociali e del correlativo apparato ideologico di legittimazione, che non un dato di realtà ad essi soggiacente” (Resta 2014, Marotta 2019).
Media digitali e sovranità: l’asimmetria di potere e la necessità di un approccio giuridico
L’insieme di questi rilievi conferma quanto sia ormai lampante l’asimmetria di potere tra Stati, istituzioni sovranazionali e iperconcentrazioni comunicative, che fatalmente adottano l’agency di una vera e propria Politica internazionale. A maggior ragione si rivela pertinente un monito di Hauke Brunkhorst: “il diritto è nello stesso tempo sistema immunizzante della società e medium del suo cambiamento”. Ma è vero che “finché la costituzione della società mondiale, e le costituzioni delle società nazionali, non saranno organizzate in modo democratico, la loro peculiare e ambivalente struttura – di giuridificazione e de-formalizzazione, diritti formalmente eguali e norme organizzative concretamente ingiuste – continuerà a produrre e rafforzare il dominio informale (Brunkhorst 2008, p.593).
È evidente che stiamo parlando di processi che rivoluzionano non solo ‘il nuovo che avanza’ ma la stessa struttura disponibile delle opportunità culturali e comunicative della società. È singolare, infatti, il modo in cui gli squilibri prospettati in termini di potere e autonomia si scaricano perfino sul continente mainstream, revocando in discussione risorse quali la libertà di informazione, l’indipendenza editoriale delle testate e, sullo sfondo, la tematica dei diritti sociali per l’accesso a beni comuni quali la comunicazione. A questo scenario va aggiunto il fenomeno crescente di una disinformazione che rischia di apparire come la cifra metaforica più vistosa del nostro tempo, mentre è indubbio che si tratti di un effetto forse persino prevedibile della sregolatezza del mercato e di quello che in letteratura va sotto il nome di information disorder [11].
Al di là dell’implicito riferimento all’elaborazione di Ugo Mattei (2012), si impone qui un messaggio caro a Stefano Rodotà che descrive come capitale la questione rappresentata “da una possibile metamorfosi di un sapere tutto risolto in una logica proprietaria”, mentre appare urgente un “quadro delle responsabilità e dei compiti specifici, e sempre più rilevanti, dei regolatori pubblici che devono individuare quali beni possano essere accessibili attraverso gli ordinari meccanismi di mercato e quali, invece, debbano essere sottratti a questa logica” (2012, p. 127).
È importante sottolineare la dimensione linguistica a cui si ricorre di fronte a fenomeni e patologie come quelle citate: un sistema di parole abbastanza pudico, che non arriva mai alle sue estreme conseguenze. Il discorso fatalmente imbocca formule del già noto e addirittura slogan logori: le condizioni di concorrenza come tutela autosufficiente, i rischi di eccesso di potere e rendite di posizione o quelli della concentrazione in trust oligopolistici. A fronte di tutto ciò, sarà indispensabile adottare una linguistica che non faccia sconti sulla verità in nome del politicamente corretto.
Dall’insieme di queste osservazioni consegue la scelta di porre come centrale l’approccio giuridico, per aumentare la capacità di conoscenza e la consapevolezza di un passaggio al futuro in pieno svolgimento. Si deve però superare la tentazione di sottomettersi alle difficoltà tecniche della normazione, perché una tale scelta farebbe assurgere l’innovazione tecnologica a variabile indipendente, delineando lo scenario noto come ‘fondamentalismo delle macchine’ efficacemente definito tecnosciovinismo dalla studiosa americana Meredith Broussard (2019). Ma a ben vedere, altro non è che la variante di una concezione della tecnologia legibus soluta, adottata di fatto per non stressare l’indecidibilità regolatoria e scegliendo il laissez-faire. Un alibi per mascherare una sostanziale autolimitazione del diritto.
Conclusioni
Difficile prefigurare soluzioni in grado di arginare questa radicale criticità della nostra vita civile e collettiva. Il cambiamento di rotta dovrà interessare non solo le priorità legislative e finanziarie di ogni singolo Stato, ma anche un reale impegno dei politici e di tutte le agenzie di socializzazione per realizzare più equity, difendendo le persone dai rischi che i media inevitabilmente portano con sé. In generale, è necessario un cambio di mentalità in primis da parte delle élite per tornare ad essere cittadini, anziché utenti. Se non addirittura sudditi.
Quanto agli Over the Top, le recenti rivelazioni di ex dipendenti di Facebook e alcuni volumi pubblicati da ricercatrici americane su centinaia di interviste a lavoratori del colosso (Frenkel 2021), rendono più chiara la necessità di abbattere l’aura di indeterminatezza che queste aziende hanno saputo alimentare attorno alla loro figura e al relativo operato. Non entità astratte e distanti: Google, Facebook, Amazon sono aziende commerciali che creano profitto, anche a scapito dei dipendenti (Zuboff 2019). Forse il bando censorio più oltraggioso degli ultimi anni non è quello imposto a seguito dei fatti di Capitol Hill, bensì quello attorno al loro operato, spesso parcellizzato, come in una catena di montaggio, in tante diverse tessere che compongono l’intero mosaico della realtà delle macchine.
_____________________________________________________
Note
- Nell’ambito della ricerca di Ateneo 2018 “Social network e formazione del consenso”, che vede coinvolti giuristi, fisici e sociologi della comunicazione di Sapienza Università di Roma, il gruppo di studio è giunto ormai ad un buon livello di approfondimento e dialogo interdisciplinare al punto da dar vita a una proposta di Progetto di Rilevante Interesse Nazionale dal titolo “’Téchne’ e ‘Politiké’, verso una regolazione della rete. Pluralismo, (dis)informazione, democrazia digitale”. ↑
- Cfr. il numero 3/2020 della rivista quadrimestrale Paradoxa “La comunicazione al posto della politica”, a cura di Mario Morcellini e Michele Prospero. ↑
- Ad esempio, si parla di algorithmic governance (McFarlane, Söderström 2017) o cultura algoritmica (Gillespie, 2013). ↑
- Il fenomeno è senza dubbio acutizzato dalla pervasiva tendenza da un lato alla polarizzazione dei contenuti, dall’altro alla personalizzazione e leaderizzazione dei movimenti e dei partiti politici che spinge a canalizzare il consenso attraverso un uso ‘strategico’ dei media sempre più orientato verso l’adozione di un registro emozionale. A tale proposito cfr. Lorenzo Castellani, “Reale e virtuale: i nuovi percorsi della politica”, in “The new’s room. Umano vs virtuale. Restare umani nell’epoca dell’iperdigitalizzazione”, luglio-agosto 2017, p. 8: “Come spiega il sociologo Salmon le democrazie sono diventate sempre più emotive, il cosiddetto storytelling non è altro che un meccanismo evocativo intorno ad un leader per suscitare l’emozione dei cittadini e canalizzarne il consenso. Se fino a qualche decennio fa erano le opinioni a dominare il dibattito politico, oggi sono le emozioni amplificate dal meccanismo di massa che si propaga attraverso le fibre ottiche”. Sul nuovo rapporto fra politici e cittadini, si veda anche Gorgoni (2021, p.10) nel delineare lo scenario attuale determinato dall’uso disintermediato delle nuove tecnologie da parte di molti politici, sottolinea che “grazie all’opportunità di presa di parola, garantita dagli account personali, nascono nuove forme di interazione, prive di mediazioni esterne ed evocative di una vicinanza e intimità un tempo impensabili”. È l’esito estremo di quella che Sara D’Agati, in una prospettiva critica mirante a superare la cornice dicotomica tipicamente italiana che vede contrapposti ‘tecno-entusiasti’ e ‘nostalgici dei tempi andati’, ha definito una “nuova, più vasta, emergenza migratoria”: la sempre più marcata e accelerata trasmigrazione dal mondo reale al mondo virtuale (D’Agati, 2021, p. 6). ↑
- Ovviamente esistono anche opinioni in controtendenza, tra cui occorre segnalare i diversi contributi presenti nel manuale di Mensi, Falletta (2018), in cui vengono analizzati i più importanti nodi giuridici relativi al nuovo scenario multimediale, dal copyright al contrasto all’hate speech, dalla cybersecurity alla web democracy, dalla e-Privacy al diritto all’oblio. ↑
- Cfr: https://www.wsj.com/articles/tiktok-algorithm-sex-drugs-minors-11631052944 ↑
- Cfr. gli articoli pubblicati su Agendadigitale.eu: “Big Tech, i ritardi della politica sono rischi per i nostri diritti” (21 aprile 2021) e “Le nostre vite gestite dalle Big Tech: le sfide per cultura, democrazia e regolazione” (31 luglio 2021). ↑
- Si vedano a tal proposito le dichiarazioni sulla “sovranità digitale” rilasciate da Thierry Breton, Commissario europeo per il mercato interno, al quotidiano Les Echos in data 27 agosto 2020 https://www.lesechos.fr/idees-debats/cercle/europe-limperatif-de-la-souverainete-1232833 ↑
- Sulla necessità di individuare valori forti di riferimento in grado di orientare e ispirare i decisori politici in una necessaria e improrogabile dimensione internazionale, si veda Picard e Pickard (2017). I due autori elencano ventitre principi universali di armonizzazione della libera iniziativa privata nel settore delle nuove tecnologie comunicative e sottolineano il bisogno di assicurarne la trasparenza e l’utilità pubblica: “Policies should not inhibit private investments in infrastructure, systems, content and innovation, because these provide social benefit, but neither should private interests be privileged to ignore public interests.” (ibidem, p. 12). L’obiettivo è quello di una riflessività aperta e sinergica che chiami ad un confronto trasparente policymakers e attori economici al cospetto del superiore valore del bene comune: “The aim is to bring into clearer focus principles that usually remain invisible and tacit.” (p. 14). “The principles that we advocate are based on fundamental values such as accountability, dignity, dialogue, equity, freedom, inclusiveness, openness, security, self-determination, reward and responsibility” (p. 13). ↑
- Su questi temi decisivi per la tenuta di un’autentica democrazia digitale, si veda Michels (2016) “Corporations have shown a consistent ability to evade regulations and tax law, and pit localities against one another. Global capital likely prefers small and polarized state to ones that are effective and truly representative. To that end, the kind of policy we see might not be about protecting markets from competition, as much as about protecting capitalism from democracy.” (p. 29). ↑
- Il riferimento è al position paper da me firmato per il V° evento del Ventennale Agcom (“Dalla disinformazione a un nuovo giornalismo”), a lungo pubblicato sul sito dell’Ordine nazionale dei giornalisti. ↑
Bibliografia
Broussard M., 2019, “La non intelligenza artificiale. Come i computer non capiscono il mondo”, FrancoAngeli, Milano.
Brunkhorst H., 2008, “There will be blood. Costituzione senza democrazia”, in “Iride. Filosofia e discussione pubblica”, n.3.
Couldry N., Ulisses Mejias U, 2019, “The Costs of Connection: How Data Is Colonizing Human Life and Appropriating It for Capitalism”, Stanford University Press, Standford.
D’Agati S., 2021, “Di una nuova, più vasta, emergenza migratoria. Quella dal mondo reale al mondo virtuale”, in “The new’s room”.
Frenkel S., Kang C., 2021, “Facebook: l’inchiesta finale”, Einaudi, Roma.
Gillespie T., 2013, “The Relevance of Algorithms”, Mitpress, Boston.
Lippold J., 2011, “A New Algorithmic Identity: Soft Biopolitics and the Modulation of Control”, in “Theory, Culture & Society”, 28(6).
Mattei U., 2012, “Beni comuni. Un manifesto”, Laterza, Roma-Bari.
McFarlane C., Söderström O., 2017, “On alternative smart cities: from a technology-intensive to a knowledge-intensive smart urbanism”, in “City”, n.21 (3-4), pp. 312-328.
Gorgoni S., 2021, “La politica tra social e democrazia diretta”, in “The new’s room”.
Marotta S., 2019, “La forma dell’acqua. Economia e politiche del diritto nella gestione delle risorse idriche”, Editoriale Scientifica, Napoli.
Mensi M., Falletta P., “Il Diritto del web”, CEDAM, Milano 2018.
Michels S., 2017, “The end of politics?”, in “InterMEDIA”, n.45(2), pp. 28-31.
Morcellini M., in corso di pubblicazione, “La sfida comunicativa del Covid 19 nella lettura delle Scienze sociali”, in Conti U., “Progettualità sociologica. Scritti in onore di Maria Caterina Federici”, Intermedia edizioni, Amelia 2022.
Morcellini M., 2002, “Comunicazione politica e scelte elettorali. Dinamiche dell’incertezza”, in Assunto Quadrio e Lucia Venini, a cura di, “La comunicazione nei processi sociali e organizzativi”, FrancoAngeli, Roma.
Pasquale F., 2013, “Privacy, Antitrust, and Power”, in “George Mason Law Review”, n.20(4).
Picard R., Picard V., 2017, “Principles for policymakers”, in “InterMEDIA – International Institute of Communications”, n. 45, pp. 11-14.
Resta G., 2014, “Gratuità e solidarietà: fondamenti emotivi e irrazionali”, in Giacomo Rojas Elgueta, Noah Vardi, a cura di, “Oltre il soggetto nazionale. Fallimenti cognitivi e razionalità limitata nel diritto privato”, Roma TrePress, Roma.
Rodotà S., 2012, “Il diritto di avere diritti”, Laterza, Roma-Bari, 2012.
Salzano D., Napoli A., 2017, “La parresia degli algoritmi”, in “Studi di sociologia”, n.XXX, pp.1-18.
Zimmerman H., 2017, “Becoming ethical: Mediated pedagogies of global consumer-citizenship”, in “Journal of Consumer Culture”, pp.1-18.
Zuboff S., 2019 “The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power”, Public Affairs, Londra.