Urban Media Aesthetics

Spazi urbani, come il digitale ne cambia la cultura

Accanto agli intrecci di relazioni fra città e cultura, gli ultimi anni del ‘900 hanno visto apparire sulla scena anche la tecnologia che, grazie a smartphone e realtà aumentata, dà luogo a un’esperienza complessa tra realtà e fantasia, che impone un nuovo approccio culturale, un ripensamento degli spazi urbani

Pubblicato il 12 Lug 2017

Giulio Lughi

Consulente in media digitali, già professore nell'Università di Torino

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Uno degli impatti culturali più interessanti che il digitale sta portando nella percezione della vita quotidiana riguarda una nuova visione della cultura urbana, fortemente segnata dalla transizione verso modelli di vita e di organizzazione sociale che ruotano intorno alla triade cittàartetecnologia: si profila una visione integrata dell’esperienza urbana che ridefinisce il concetto di spazio pubblico, nozione che risale nelle sue prime formulazioni alle teorie filosofiche di Kant e che condensa dentro di sé tanto l’aspetto urbanistico quanto quello politico-culturale: uno spazio sia fisico sia sociale, oggi fortemente tecnologizzato, dove si possono manifestare le attività di tempo libero, i servizi della PA, le imprese commerciali, il dibattito civile e intellettuale.

Emerge parallelamente il concetto di paesaggio culturale, oggi al centro di una riflessione generale sulla promozione e valorizzazione dei beni culturali. Concetto riconosciuto dall’Unesco come centrale per la tutela del World Heritage, il paesaggio culturale si articola fondamentalmente su tre elementi: ambiente, inteso sia come contesto “naturale” sia come vero e proprio “ambiente urbano” nella ricchezza delle sue sedimentazioni storiche; uomo, l’elemento antropico che determina le dinamiche sociali e i flussi di movimento (lavorativo o di tempo libero) che riempiono di senso il paesaggio culturale; arte, intesa nel senso più ampio come attività creativa che dissemina sul territorio elementi ad alto valore simbolico con funzione di aggregatori estetico-emozionali, conseguenza del processo inarrestabile di sganciamento dell’arte dai suoi luoghi deputati (musei, mostre, accademie, ecc.), con l’attenzione puntata sempre meno al valore della singola ”opera” e sempre più invece sulla funzionalità urbano-territoriale dell’intervento artistico.

Accanto a questi intrecci di relazioni fra città e cultura, intesa in senso ampio, gli ultimi anni del Novecento hanno visto apparire sulla scena della città il terzo elemento che qui ci interessa: la tecnologia. Una tecnologia che non è più al servizio esclusivo dell’industria e della produzione “pesante” – tratto saliente dell’età industriale – ma che si appropria del settore “leggero” della comunicazione (bit, non atomi, secondo una formula che ha avuto notevole successo).

E la tecnologia, oggi soprattutto attraverso la diffusione dei dispositivi di comunicazione mobile, sta imponendo il cosiddetto paradigma mobile/locative, che rappresenta un profondo cambiamento nei modelli culturali e comunicativi grazie alla sempre maggiore importanza che assume la presenza del corpo fisico (embodiment) in uno spazio definito (location). La diffusione dell’IoT, l’internet delle cose, e dell’ubiquitous computing sta facendo sparire il classico computer da tavolo (ma anche il portatile) come strumento-base delle tecnologie di comunicazione; è la cosiddetta “terza ondata” in cui, dopo l’età dei mainframe e dei desktop, l’elaborazione e la trasmissione delle informazioni migrano verso gadget computazionali sempre più piccoli, più potenti e più specializzati (gli smartphone), destinati ad innervarsi nella nostra vita, a gestire e mediare le nostre percezioni, le nostre attività conoscitive, le emozioni provate nei contesti fisici dove avviene l’esperienza.

A questo si aggiunge la tecnologia della realtà aumentata, che consente – mediante lo smartphone e un software dedicato – di vedere in sovrapposizione al paesaggio reale degli “oggetti” virtuali che con esso si integrano, dando luogo ad un’esperienza complessa tra realtà e fantasia, fra documentazione e fiction. Una trasformazione che non è quindi solo tecnologica, ma richiede un nuovo approccio culturale in quanto impone di ripensare la costruzione identitaria del sé, la visione degli spazi urbani e i modi di fruizione dei prodotti culturali e artistici.

Questa visione culturale della città è anche caratterizzata da una forte dimensione ludico-partecipativa: il cittadino, residente o turista, si muove negli spazi urbani non tanto (o meglio non solo) con un atteggiamento di fruizione funzionale o estetica, ma con un approccio di taglio quasi ludico. La gamification sta estendendo le procedure tipiche dei videogiochi anche in ambienti “normali”, quelli fisici delle città, causando profondi cambiamenti nei modi di pensare e praticare lo spazio urbano: le strategie di attenzione e partecipazione emotiva che il giocatore riserva tipicamente alla pratiche ludiche possono essere riversate sulla fruizione dei servizi urbani come pure del patrimonio artistico della città, diventata contemporaneamente campo di gioco e luogo di crescita cognitiva.

Si tratta di forme esperienziali che qualcuno comincia a definire come Urban Media Aesthetics: di fatto le città sono ormai popolate di nuovi “oggetti” estetico-tecnologici: installazioni di arte digitale, proiezioni sulle facciate architettoniche, schermi urbani disseminati e mobili, grandi display che appaiono ovunque, elementi di realtà aumentata, da cui la nascita di pratiche di fruizione e condivisione che su questa commistione si fondano, si articolano, si sviluppano. Forse non è ancora tempo per fondare nuove teorie estetiche o ecologiche di cultura urbana: ma certamente è tempo di considerare in tutta la sua portata, e nelle sue peculiarità, l’intreccio fra città e arte e tecnologia in quanto fecondo generatore di riflessioni teoriche, di pratiche creative, di prodotti e servizi, di iniziative concrete che – elemento fondamentale – trovano poi risposta da parte del pubblico.

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