Mi sono concesso un ultimo ascolto dell’amato JJ Cale. Spirata l’ultima nota di “She’s in love”, ho fatto, come si dice nei film americani, “la cosa giusta”: ho cancellato il mio account Spotify. Sinceramente, non sapevo che la piattaforma musicale – alla quale, peraltro, mi sono iscritto solo mesi fa – si fosse trasformata anch’essa in un veicolo di disinformazione.
Spotify e la disinformazione
Ne sono venuto a conoscenza grazie a Neil Young e al putiferio che ha scatenato quando, pochi giorni fa, ha posto l’aut aut a Spotify: “O io, o lui”. “Lui” è Joe Rogan, il cui podcast è il più popolare in America, Canada, Regno Unito, Nuova Zelanda. La piattaforma (ex) musicale, nel 2020, e per oltre 100 milioni dei 200 investiti in tale ambito quell’anno, ha acquisito i diritti esclusivi del suo show “Joe Rogan Experience”.
Il grande cantautore e chitarrista decide di dire basta dopo che nella puntata del 30 dicembre, definita da Wired una festa d’amore, Joe Rogan ha ospitato Robert Malone, immunologo e virologo campione della disinformazione sui vaccini anti Covid. In quello stesso giorno 7.559 persone in tutto il mondo sono morte di Covid (1.410 negli USA), la stragrande maggioranza dei quali non vaccinata.
Rogan
Nel podcast, Rogan concede a Malone, reduce dall’espulsione da Twitter sempre per aver diffuso disinformazione sullo stesso tema, tempo ininterrotto per affermare che i vaccini possono essere pericolosi e spesso non necessari; che ci sono forze all’opera in una cospirazione globale che coinvolge le compagnie farmaceutiche, testate giornalistiche, Joe Biden ed Anthony Fauci.
L’intero podcast chiarisce che Rogan e Malone fanno parte della stessa squadra. L’intervistatore, quando non sta in silenzio, commenta con mugugni di approvazione le strabilianti affermazioni di Malone, anche quando dice che gli ospedali segnalano il Covid come causa di morte, per ricevere più fondi del governo, pure se le persone muoiono per colpi di arma da fuoco.
La disinformazione online minaccia i diritti fondamentali: quali difese
La nascita e crescita di Spotify
Spotify è il servizio di streaming in abbonamento musicale più diffuso, col 31% del mercato nel secondo trimestre del 2021. A distanza, l’analoga offerta di Apple (15 %) e Amazon (13%).
Déjà Vu è invece il titolo del primo album, di straordinario successo, registrato nel 1970 da Neil Young insieme a Crosby, Stills e Nash. Lo conservo gelosamente tra i mei vecchi vinili, con quella copertina unica. E ci sono vari motivi per cui il titolo dell’album può essere accostato alla vicenda di cui ci occupiamo.
Racconta Daniel Ek che, nel 2006, lui e il co-fondatore di Spotify Martin Lorentzon “erano seduti in stanze diverse gridando idee avanti e indietro… anche usando generatori di gergo e cose del genere”, quando Lorentzon grida un nome che Ek sente male come “Spotify”. Ek cerca su Google il nome e vede che nessun altro lo sta usando.
“Pochi minuti dopo”, scrive, “abbiamo registrato i nomi di dominio e siamo partiti”. Sembra di sentire una delle solite storie sulla nascita dei giganti della Silicon Valley, sia pure da uno svedese: tutto un po’ casuale, leggero, bohémienne, per dare un tocco di originalità, di diversità, rispetto alle altre aziende capitalistiche. Originalità e diversità alle quali nessuno crede già da un pezzo, specialmente quando viene a galla, in un modo o nell’altro, il vero spirito che muove e detta le decisioni di tutte le imprese capitalistiche: il profitto.
E allora, cosa ci si poteva attendere da Spotify dopo la presa di posizione di Neil Young, alla quale hanno aderito Joni Mitchell, i podcaster Brené Brown e Roxane Gay (scrittrice), la nipote dell’ex presidente Donald Trump, Mary L. Trump (autrice di un bestseller molto critico nei confronti di suo zio), Graham Nash, David Crosby, Stephen Stills, India.Arie? Dopo che decine e decine di podcast di Rogan con contenuti razzisti sono stati scoperti e (soltanto ora) rimossi?
Rimozione e linee guida Spotify
A parte qualche parola di scuse, la pubblicazione delle regole di Spotify che vieterebbero il razzismo e la disinformazione sul Covid, nonché qualche altro provvedimento minimo, come il rimando ai siti ufficiali inserito nelle puntate dedicate al Covid e l’inserimento di dichiarazioni di non responsabilità su alcuni podcast o contenuti che potrebbero promuovere cattive informazioni, la piattaforma si è guardata bene dal solo accennare al troncare il rapporto con Rogan.
E lo stesso intervistatore ha ripetuto il cliché delle scuse pro forma, uno dei pezzi forti di Zuckerberg da anni. E siamo così arrivati al secondo aspetto da “Déjà vu” della vicenda, sottolineato da Kevin Roose sul NYT: “Una personalità popolare di Internet, amata da milioni di persone per i suoi commenti irriverenti e anti-establishment, diventa oggetto di contrasto quando viene accusato di promuovere una pericolosa disinformazione.
La polemica
La controversia travolge la piattaforma, che ha regole che vietano la disinformazione, e ora subisce pressioni per farle rispettare contro uno dei suoi utenti di più alto profilo. Sperando di superare la tempesta, l’amministratore delegato della piattaforma pubblica un post sul blog sull’importanza della libertà di parola, rifiutandosi di punire chi viola le regole ma promettendo di introdurre nuove funzionalità che promuoveranno informazioni di qualità superiore. Tuttavia, la battaglia si intensifica. I gruppi per i diritti civili organizzano un boicottaggio.
Gli inserzionisti si ritirano. Un hashtag diventa di tendenza. I dipendenti della piattaforma minacciano di andarsene. Giorni dopo, l’amministratore delegato è costretto a scegliere tra escludere il creatore popolare – e affrontare la furia dei suoi fan – o essere visto come un ipocrita e un abilitatore di comportamenti pericolosi”.
Fin qui Roose, che non ha poi difficoltà, visti i precedenti, a predire ciò che tutti sappiamo sarà la conclusione: l’azienda tecnologica, che ha per unico credo il profitto, lascerà al suo posto il suo contrattualizzato che gli rende certamente più delle migliaia di utenti che lasceranno perché nauseati dalla doppiezza del Ceo, che replica esattamente l’ipocrisia di tutti i Ceo di queste macchine da soldi.
Perché Spotify insiste con la disinformazione
Ek sa bene, da quando nel 2019 ha scelto di puntare sul podcasting con l’intento di investirci 500 milioni di dollari i 3 anni, che l’addio di Neil Young – mentre, tra l’altro, Amazon offre in promozione il suo servizio di musica in streaming che ospita adesso il cantautore – non inciderà più di tanto, anche se seguito da altri musicisti e podcaster del suo calibro, come abbiamo visto.
Altro impatto avrebbe un boicottaggio che vedesse coinvolti altri artisti mainstream. Weeknd, cantautore e produttore discografico canadese. raccoglie 86,6 milioni di ascoltatori mensili. Adele 60 milioni. Drake circa 53,6. Taylor Swift circa 54 milioni; BTS 42,3 milioni. Dei 172 milioni di abbonati e 381 milioni di utenti mensili di Spotify, probabilmente molti si porrebbero il problema di rimanere o andar via, se qualcuno, magari due o tre, di questi artisti ponesse lo stesso aut aut di Neil Young.
Ma il Ceo di Spotify ha scommesso che questo non accadrà, e perciò ha in sostanza difeso il suo predicatore negazionista e razzista – sotto quest’ultimo aspetto sono venute fuori registrazioni contenenti la parola N. ripetuta più volte e un accostamento tra persone di colore e il film Il Pianeta delle scimmie – limitandosi alle solite affermazioni di facciata. Come, d’altra parte, ha fatto lo stesso Rogan. Ek ha anche affermato che la società non agisce come editore del podcast di Rogan, ma ha voluto precisare che, nella sua visione, se gli utenti hanno questa percezione – in quanto Spotify ha l’esclusiva del JRE – lui farà il possibile perché essa sia conforme agli ideali propugnati dall’azienda.
Ha perciò annunciato che la società effettuerà un investimento di 100 milioni di dollari in “licenza, sviluppo e marketing di musica e contenuti audio di gruppi storicamente emarginati” e che si consulterà anche con consulenti esterni su tali questioni: “Ho chiesto ai nostri team di espandere il numero di esperti esterni con cui ci consultiamo su questi sforzi “. Anche qui, ci pervade una sensazione di déjà vu e di déjà entendu!
La questione della responsabilità
Ma al di là degli stucchevoli e ripetitivi buoni propositi, sulla questione della responsabilità è bene chiarire. Spotify è nata come piattaforma tecnologica per ospitare musica altrui, ma ora è di fatto una società di media responsabile di ciò che distribuisce. Il Ceo insiste nel non essere considerato un editore, e si è spinto a dire che non si può dire cosa sia esattamente Spotify: siamo al paradossale!
Spotify, la più grande società di streaming per abbonati, ha investito cifre enormi nel podcasting nel tentativo di differenziarsi dagli altri servizi e diventare più redditizia, ed è per questo che ora si trova a fare i conti con i problemi creati da un personaggio come Rogan. Ma Ek (ancora un déjà vu) vuole prendere i soldi, e nel contempo essere esente dalle responsabilità che conseguono alle scelte che fa per averne sempre di più. Dovrebbe sapere bene che, come presentatore di contenuti originali, è responsabile di essi. Ma siamo alle solite.
E saremo sempre allo stesso punto fino a quando al di là e al di qua dell’oceano non si arriverà a una normativa puntuale e precisa che sostituisca il Far west. E se negli USA le pressioni sono all’ordine del giorno e rischiano di rallentare un processo che sembrava finalmente avviato e destinato a concludersi, noi europei dobbiamo respingere al mittente i ricatti, puerili nella loro evidenza, di questo o quel gigante e andare avanti fino in fondo. Come hanno d’altra parte ribadito in questi giorni esponenti di primo piano dell’Unione.