Venture capital

Startup, Di Maio ci porterà nel campionato unicorni? Ecco come riuscirci

Uno strumento che premi qualità e trasparenza di soggetti e imprese, in modo distante da influenze distorsive. Questo dovrebbe fare la “Banca Pubblica per gli Investimenti italiana”, voluta dal Governo, per sostenere la creazione di nuove imprese tecnologiche e permettere all’Italia di recuperare un ritardo di 10-20 anni

Pubblicato il 24 Set 2018

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

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È stato pluriannunciato, e ormai è dato per certo che si creerà finalmente il tanto richiesto strumento per il sostegno al Venture Capital e allo sviluppo imprenditoriale del paese: l’agognata Banca Pubblica per gli Investimenti italiana, sarà dotata di un fondo che verrà messo nelle condizioni di gestire una frazioncina della ricchezza privata italiana. Per metterla a reddito, ovviamente, ma contemporaneamente facendole fare da benzina per la creazione di nuove imprese tecnologiche: quel pezzo dell’economia reale sempre più pesante nel mondo, e così marginale in Italia che per volume di investimenti ma anche pro capite è il fanalino di coda dei paesi OCSE nonché dietro a svariati altri.

Venture Business, Italia in ritardo di 10-20 anni

Per capire quanto è rilevante, il settore del Venture Business, basti pensare che la prima e la seconda azienda al mondo per capitalizzazione – le ormai over-trillion companies Apple ed Amazon – sono nate con il Venture Capital. E ce ne saranno molte altre che comporranno la Fortune 500 fino a dominarla, nei lustri a venire. Praticamente ogni paese civile del mondo ha compreso la portata strategica di questa partita da molti anni, solo l’Italia è tra i dieci e vent’anni di ritardo, culturalmente e normativamente, ma sembra che finalmente si sia capito che avremmo tutte le carte per giocare in serie A e tentare anche noi di giocare al gioco della creazione delle multinazionali dei prossimi trenta anni. Basta occuparsene e progettare le cose con cognizione di causa, seguendo le best practices, copiando dove si deve e adattando dove si possono cogliere peculiarità vincenti.

Diversi aspetti di questo progetto voluto fortemente da Luigi Di Maio e in passato auspicato da Davide Casaleggio sono in corso di definizione: grazie al lavoro appassionato di Luca Carabetta, parlamentare e già founder di una startup: l’approccio che si persegue è quello di progettare uno strumento davvero efficace nell’introdurre “Mercato” su basi e con connessioni internazionali, premiando la qualità e la trasparenza di soggetti e imprese, ed in modo distante da influenze distorsive. Fondamentale, per segnare un distacco con il passato, dove andrà posizionata la gestione del budget collegato, che presumibilmente potrebbe avere una dotazione tra i 3 ed i 5 miliardi di euro, considerando equo convogliarvi un ordine di grandezza intorno all’un per mille di un perimetroche – tra gestioni e liquidità sui conti correnti – in Italia sfiora i 5mila miliardi. Personalmente sarei per un bando internazionale, per la scelta del gestore, ma vanno bene anche altre soluzioni purché assoggettabili ad un  controllo diretto dello Stato: l’un per mille dei soldi degli italiani sono un bel boccone per molti “prenditori” che potrebbero orientarne malevolmente la destinazione, quando invece possono rimettere in marcia il paese, dando una spinta formidabile alla trasformazione in impresa di moltissimi progetti di ricerca e di idee innovative, creando posti di lavoro attraverso dei nuovi imprenditori: giovani (e meno giovani) innovatori che possono così prendere un ascensore sociale che li riporti ad essere classe media

Come dovrebbe funzionare il sostegno al venture capital

Come potrebbe funzionare, questo strumento che necessiterà di una progettazione chiara e coerente? Intanto dovrebbe essere un “Fondo” come tempistiche: deve avere un inizio ed una fine, di 10 prorogabili a 15 anni perché lo si chiuda disinvestendo, e pensando eventualmente di rilanciarne di nuovi in edizioni successive, ma anche di non farlo se dovesse bastare il primo fondo come innesco per avere un settore del Venture Capital dieci volte più grande dell’attuale. Se si arrivasse a tal punto, il mercato oggi a fallimento non necessiterebbe di ulteriori stimoli pubblici. Inoltre, il grosso della sua dotazione e della sua attività dovrebbe essere allocato come Fondo di Fondi, quindi intervenendo in Fondi più piccoli di Seed e Venture Capital gestiti da operatori di mercato (per via della Capital Market Union, quindi, tutti i soggetti autorizzati e vigilati dei paesi UE), auspicabilmente con vincolo sulla destinazione degli investimenti in imprese italiane; ma dovrebbe anche contenere un meccanismo di intervento diretto nelle startup per esempio con matching automatico quando escono dagli acceleratori, come per il fondo Yozma israeliano, da farsi attraverso finanziamenti con convertibilità opzionale. Inoltre questo soggetto dovrebbe porsi il problema di affrontare lo scoglio del ridotto numero di operatori di Venture Capital in Italia, magari prevedendo di abilitare un modo per far loro esperienza prima che possano costituirsi dei fondi autonomi: una buona idea quindi potrebbe essere quella per cui questo grande Fondo potesse fungere da “SGR Virtuale” per delle management company di nuovi Seed e Venture Capitalist. Poi si potrebbero prevedere interventi diretti in situazioni eccezionali, magari su società ritenute altamente strategiche per il paese, qualora l’acquirente in fase di exit fosse ritenuto inadatto

Startup non vuol dire truffa

Dopo la grande ubriacatura del 2012-2016 che ha fatto azzuffare troppi intorno alle startup, creando un settore distorto e presidiato da operatori poco trasparenti e ancor meno etici, è chiaro che la filiera si sia ripulita ma si è anche un bel po’ demotivata: il concetto “startup=fuffa per far arricchire i venditori di fumo con soldi pubblici” è quanto di più sbagliato possibile nella sua generalizzazione, in quanto sono stati davvero molto pochi i soldi pubblici nel settore. Ma purtroppo in molti oggi ce l’hanno lo stesso stampato in testa. Il problema delle startup è stato altro, e non si sono ingrassati quelli che la vulgata crede, ma altri, e non con soldi pubblici. Ma sul punto ci tornerò in un’occasione diversa.
Questa disillusione renderà ben più difficile riuscire a mettere nuovamente in moto un’onda di entusiasmo come quella che eravamo riusciti a creare solo pochi anni fa, ma forse queste pause di riflessione e riorganizzazione fanno bene al paese, e può essere finalmente la volta buona per entrare nel campionato degli unicorni che giocano le nazioni nostre concorrenti. Serviranno sicuramente anche altre revisioni di policy a contorno, il vecchio Startup Act ormai ha mostrato anche ai sassi tutti i suoi limiti di perimetro e di definizioni. Ma se questa Banca Pubblica per gli Investimenti prenderà il meglio dalle esperienze della BPI e di Yozma, riprovarci sarà una fatica con molte più basi che nel 2012.

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